Entro il 27 settembre, il Governo dovrà
presentare alle Camere la nota di aggiornamento al DEF (o Nadef), uno
dei principali documenti di finanza pubblica. Pur con il conforto, si fa
per dire, della nuova ventata di benevolenza che dalla Commissione
Europea arriva nei riguardi dei conti italiani, il passaggio della Nadef
giunge in un momento particolarmente delicato. L’economia italiana
deve, infatti, fare i conti con le incombenti minacce di recessione,
provenienti dalle difficoltà di quella Germania
che un tempo veniva chiamata (a torto) la locomotiva d’Europa, che
rischiano seriamente di danneggiare la già anemica crescita interna. Nel
presente contesto, può essere utile proporre una chiave di lettura che
aiuti a svelare alcuni tabù riguardanti la spesa pubblica e la politica
fiscale e metta in luce la dannosità e i veri obiettivi dei vincoli con i
quali ci troveremo presto a fare i conti.
Partiamo da una necessaria considerazione: la spesa pubblica in deficit è un potente strumento
a disposizione degli Stati. La spesa delle amministrazioni pubbliche
nell’acquisto di beni e servizi, ad esempio, è uno strumento con cui un
governo può sostenere la domanda, per l’appunto, di beni e servizi verso
imprese e famiglie e, per questa via, aumentare l’occupazione. Tale
spesa, peraltro, a dispetto di quanto ci viene ogni giorno propinato,
contribuisce nel caso italiano anche ad abbassare il peso relativo del
debito rispetto al PIL (ammesso e non concesso che questo debba
essere un obiettivo della politica economica). Infatti, il
moltiplicatore fiscale, che dice quanti euro di reddito generiamo
spendendo un euro tramite intervento pubblico, è generalmente superiore a
1. Ergo, se lo Stato spende un euro, la domanda di beni e servizi
nell’economia sarà tale da produrre in totale più di un euro di reddito.
Ecco che, se lo Stato si indebita per un euro, alla fine il prodotto
interno lordo crescerà più di un euro, e dunque se mettiamo a rapporto
il nuovo debito con il nuovo reddito, la loro frazione sarà diminuita:
il rapporto debito/Pil scende se si fa politica fiscale espansiva.
Vi sono, altresì, ulteriori strumenti che
la politica fiscale ha per gestire l’andamento dell’economia: in
particolare, ci riferiamo alle tasse e ai trasferimenti (rappresentati
tipicamente, ma non solo, dalla spesa pensionistica). Queste due voci
del bilancio, dunque, rappresentano una grossa fetta di quello che è
l’intervento pubblico in economia, e contribuiscono a formare, insieme
alla spesa per beni e servizi, quello che è il saldo di bilancio che uno
Stato consegue alla fine dell’anno. Se infatti alla spesa pubblica per
l’acquisto di beni e servizi (comprensiva anche degli interessi sul
debito pubblico pregresso) sommiamo i trasferimenti e sottraiamo le
tasse, otteniamo il saldo del conto economico, detto indebitamento
netto.
L’Italia, per quanto riguarda la differenza tra spesa e tasse al netto degli interessi (il cosiddetto “saldo primario”), è in avanzo da decenni, ma questa non è una buona notizia: stiamo sistematicamente sottraendo risorse all’economia.
Ora, il saldo complessivo che uno Stato può conseguire è vincolato
dalla sottoscrizione del famigerato Trattato di Maastricht e del Fiscal
Compact (quest’ultimo innestato nella Costituzione mediante modifica
dell’articolo 81). Infatti, tale saldo, che altro non è che il deficit
e/o avanzo complessivo, non può discostarsi dal pareggio se non quando
l’economia va particolarmente male. Questo vincolo porta con sé due
conseguenze, di cui la più visibile e percepibile è quella riguardante
la spesa pubblica. Se non posso fare deficit, in effetti, il primo punto
a cui guardare è la riduzione della spesa. Lo stesso obiettivo, cioè
quello di contenere il deficit, può essere ottenuto tramite un aumento
delle tasse. Ecco che quindi, oltre che forzare i Governi a ridurre le
proprie spese per beni e servizi, tra le direttive guida che la
Commissione impiega sistematicamente vi è quella di aumentare le tasse e
tagliare i trasferimenti sociali.
Insito in questo tipo di ragionamento vi
è, innanzitutto, un disegno politico. Se infatti il piano fosse quello
di innalzare le tasse ai soggetti più ricchi, questo potrebbe di per sé
non essere una notizia negativa. È vero che staremmo pur sempre
ragionando partendo da un vincolo odioso, ma questo verrebbe in parte
addolcito mediante tassazione sui soggetti più abbienti. Sappiamo bene,
invece, che non è così: mentre la libertà di movimento assicurata ai
capitali all’interno dell’Unione Europea (e non solo) consente alle
grandi multinazionali di far competere gli Stati al ribasso sulle
aliquote di tassazione, la Commissione Europea spinge in maniera
puntuale sull’innalzamento delle tasse indirette sui consumi, ossia
quelle che incidono di più sulle voci di spesa della maggioranza della
popolazione. Da mesi, infatti, si ode, nei media, sempre più martellante
la voce riguardante l’imminente aumento delle aliquote IVA, mentre
nulla lascia immaginare un imminente aumento dell’imposizione sui
redditi da capitale. Ovviamente tutto ciò non può che andare a
detrimento delle classi più deboli, visto che quelle più abbienti
possono liberamente muovere i loro capitali e sottrarsi persino ai poco
esigenti criteri di solidarietà sociale ai quali sarebbero chiamate.
Come sempre, non siamo sulla stessa barca!
Se la natura politica di tali modifiche
nelle voci di spesa e tassazione è quindi evidente, resta da
sottolineare che i tagli come strumento di riduzione del debito pubblico
sono inevitabili soltanto se accettiamo di restare chiusi nel recinto
del pensiero mainstream, nel quale si ragiona come se le
risorse (il pil, in questo caso) fossero date. Se, infatti, non fosse
vincolata in maniera così stringente, la politica fiscale potrebbe
aprirsi a tutt’altro modo di ragionare.
Riprendiamo il discorso del
moltiplicatore fiscale e dei suoi effetti sull’economia: se lo Stato
spende in deficit, stiamo aumentando il reddito più della spesa
iniziale. Ora tocca aggiungere un pezzo al filo logico: se il reddito
aumenta, da un lato potrò raccogliere più tasse anche a parità di
aliquote, e dall’altro se tali spese generano più occupazione dovrò
corrispondere meno trasferimenti a disoccupati e soggetti in povertà.
Ecco che la spesa pubblica ha un effetto diretto pari al suo ammontare,
un effetto a cascata dovuto al moltiplicatore, e un effetto ancora
successivo dovuto alla maggiore raccolta fiscale (ad aliquote invariate)
e ai minori trasferimenti necessari che riequilibra proprio quel saldo
di cui tanto ci preoccupiamo.
I vincoli di bilancio, dunque, finiscono
per tagliare le gambe alla crescita e per alimentare ulteriormente i
“mali” che i propugnatori dell’austerità sostengono di voler combattere.
Un esempio particolarmente illuminante di questo perverso meccanismo è
dato dalle cosiddette “clausole di salvaguardia”. Queste ultime
consistono in una serie di norme, contenute nella legge di bilancio, che
prevedono, per gli anni successivi, un aumento delle aliquote IVA,
ovvero di quelle imposte che il consumatore si ritrova a pagare ogni
volta che acquista beni e servizi. L’obiettivo di queste norme, nella
vulgata dei sostenitori dei vincoli europei, sarebbe quello di
rassicurare i creditori e i mercati sul fatto che, in un modo o
nell’altro, riusciremo a contenere il deficit e a ripagare i nostri
debiti. Ogni anno, puntualmente, alla vigilia di ogni legge di bilancio
si scatena il dibattito su come disinnescare questa bomba che ci siamo
messi in casa. E la soluzione è sempre la stessa: tagliare la spesa o
aumentare le entrate. Ma questo “rimedio” finisce per aggravare il male,
in quanto danneggia la crescita, aumenta il peso dei disavanzi e ci
“costringe” nuovamente a innescare la bomba, in un circolo senza fine di
apparente illogicità.
La logica, ahinoi, c’è, ma non è quella strombazzata. L’obiettivo è, come sempre, quello di indebolire i lavoratori attraverso la sempre incombente minaccia della disoccupazione,
in modo da convincerli ad accettare salari più bassi e condizioni di
lavoro sempre più miserevoli. Il primo nemico contro cui dobbiamo
scagliarci, quindi, non è il debito pubblico, che, invece, è la cura per
il male della disoccupazione e della moderazione salariale. I nostri
nemici si chiamano vincoli di bilancio, disciplina fiscale, riduzione
della spesa.
Sono nemici che assumono un volto
particolarmente grottesco quando si travestono da buoni samaritani. In
cambio della promessa di essere disciplinati “studenti modello”, ci
vengono sbandierati ridicoli margini di flessibilità che dovrebbero
consentirci di condurre più agevolmente in porto la manovra economica.
Abbiamo dunque ben chiaro, alla luce di quel che abbiamo scritto, quanto
sia ridicolo che a concederci queste briciole di flessibilità siano le
stesse istituzioni che, attraverso l’austerità, ci tolgono il pane.
Abbiamo il dovere di lottare contro gli
strumenti che impediscono ai lavoratori di riguadagnare forza
contrattuale e salari dignitosi. Smascherare le tecniche retoriche
utilizzate come clave contro chi reclama condizioni di lavoro più
favorevoli è il primo e indispensabile passo per liberarci dagli
ingranaggi dell’austerità e della disoccupazione.
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