di Mauro Baldrati
Se esistesse un museo dell’underground questo film sarebbe uno dei pezzi
forti. Lo stile, la fotografia, i personaggi, i luoghi, sono tutti
elementi conformi. La vocazione c’è. È un prodotto underground che
potremmo definire perfetto. È del 1971, e fu girato contestualmente a Fuga da Hollywood, la risposta (fallita?) a Easy Rider
(1969). Ovvero l’opera seconda di Dennis Hopper come regista. Questa
eredità, va detto, era particolarmente pesante, essendo la sua opera
prima un capolavoro. Fuga da Hollywood restò nelle sale americane una manciata di giorni, poi fu tolto e seppellito per sempre in qualche oscuro magazzino.
Mentre Hopper, con parte della troupe, si trovava nella sua casa-laboratorio
nel deserto del New Mexico per il montaggio, fu girato questa specie di
documentario. In realtà è una sorta di biopic in tempo reale, con lui al
centro di una comunità variegata di giovani, qualcuno che suona la
chitarra, un drappello di ragazze hippy che ridono in continuazione
(attrici?), tecnici del montaggio; e lui che parla, parla, strafumato di
marijuana, coi suoi occhi velati di tristezza e/o di spavento, con quei
gesti bruschi, quel toccarsi di continuo la barba, quell’accendersi
nevroticamente una sigaretta dopo l’altra.
La macchina da presa è nervosa, ballerina. Lo riprende nel deserto
mentre spara con un revolver o con un fucile da guerra, oppure mentre
riflette... su cosa? La vita? La filosofia? Difficile dirlo. I suoi
soliloqui sembrano usciti da un misterioso disordine mentale
comprensibile solo a lui stesso. Evocano certi contorcimenti verbali,
come i dialoghi di alcuni film di quegli anni (uno per tutti il dialogo
tra i due taxisti in Taxi Driver). Un parlare, pensare (e
talvolta agire) a vuoto che per taluni volevano rappresentare una forma
di follia americana, per altri erano la follia americana, ripresa dalla materia viva.
Poi
lo troviamo in casa, tra gente di passaggio, le ragazze, sempre
invocate da lui che le aspetta, le sogna: “modelle” oppure “conigliette
di Playboy”, che sembrano impersonare il suo unico modello di ragazza.
Proprio con una, che pare di capire sia una coniglietta, avviene un
dialogo “all’americana”, folle, sconclusionato: Dennis Hopper continua a
ripetere che preferisce “leccarla” che “scopare”, per cui si/le chiede:
“Allora sono una lesbica? Dici che sono una lesbica?” E quella, seria,
con aplomb britannico risponde... ma cosa risponde? Cosa può rispondere?
L’ambiente è surreale, straniante, depresso, proprio come in certi
lungometraggi warholiani, uno stile che lui conosceva bene, avendo
recitato, nella sua lunga carriera di attore, in due film nel 1964.
Ma Warhol si trovava al centro esatto della storia, nel cuore degli anni ’60, l’underground cool e
disperato che seguiva l’onda dei beat, mentre Hopper col suo lavoro
artistico è già entrato nella deriva del decennio successivo. Una
sconfitta annunciata nel suo capolavoro Easy Rider, soprattutto
nel finale. E non solo. Anche nei due personaggi, lui e Peter Fonda,
nel loro essere pusher di cocaina, per cui si chiede: che differenza c’è
tra loro e i due del pick up che gli sparano?
Non è un giudizio critico ovviamente, ma uno dei tanti tasselli di un
flusso delirante che viaggia nelle immagini, nella fotografia scadente
(voluta?), sgranata, slavata; l’antitesi del patinato. Un pendant perfetto con l’atmosfera povera e depressiva che avvolge tutto il film.
E quel drappello di ragazze che non fanno altro che ridere non
infonde nessuna allegria, ma un senso di vuoto e di solitudine. I corpi,
anche negli inserti di nudo, con lui che fa un’orgia con due ragazze
(conigliette anche loro?) in una vasca da bagno, sembrano desolati in
quella luce cruda.
Insomma, per citare un famoso enunciato critico, The american dreamer è “Una cagata pazzesca”?
Sì.
Ma anche no. È utile come reperto storico. In questo è perfetto. Per i
giovani può essere un formidabile documentario archeologico su un tempo
lontanissimo, perduto, che si estinguerà per sempre dopo la dipartita
degli ultimi sopravvissuti. Una favola interpretata dai padri, o
addirittura dai nonni.
Per i più anziani può essere una madeleine un po’ avvelenata
che permette di giudicare/rivivere il passato senza mitizzarlo come
coazione a ripetere, né rimuoverlo o negarlo. Una cura efficace per
liberarsi, finalmente, dal giogo di una eterna, tirannica adolescenza.
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