Il clima della Terra con l’aumentare della temperatura globale sta cambiando ad una velocità spaventosa, portando alla scomparsa di alcuni ecosistemi, allo scioglimento dei ghiacci e all’innalzamento dei mari, che rischia addirittura di sommergere (ad esempio in Polinesia) interi stati nel giro di 50/100 anni. Il riscaldamento globale è incrementato consistentemente dagli effetti delle attività umane, e in particolare della deforestazione, del consumo di acqua e dell’inquinamento.
Tutte queste sono attività che l’uomo svolge da 13.000 anni, ma che hanno assunto proporzione così rilevante dalla nascita dell’industria alla fine del XVIII secolo. Da allora la popolazione mondiale è cresciuta di 8 volte e si è moltiplicata la produzione di qualunque bene di consumo. L’industria produce però scorie; per fare l’esempio più noto e lampante è ancora oggi fondata sulla combustione di combustibili fossili, che libera nell’aria anidride carbonica, uno dei cosiddetti “gas serra” alla base del riscaldamento globale, che catturano i raggi solari limitandone la riflessione.
Inoltre l’industria richiede un’enorme quantità di materie prime, inclusa l’acqua dolce che ricordiamo essere presente in quantità limitata sul pianeta. I nuovi materiali plastici e gli agenti chimici utilizzati in agricoltura creano un ulteriore problema di inquinamento duraturo causato tanto dalla loro dispersione quanto dalla produzione, e uniti all’inquinamento atmosferico dovuto alle polveri sottili causano la morte in massa e la malattia di numerose specie animali, tra cui l’uomo.
Nel suo continuo bisogno di incrementare la produzione di merci, il capitale è spinto alla ricerca perenne di nuove risorse, talvolta distruggendo ecosistemi unici. È il caso dell’Amazzonia, la più grande foresta pluviale al mondo, in cui da oltre 70 anni è in atto un processo di deforestazione selvaggia per utilizzare il suolo con fini produttivi, per l’80% della superficie allevamenti destinati aprodurre carne da esportare prevalentemente in Europa (118,3 mila tonnellate esportate in UE solo nel 2018) e USA.
Negli ultimi 50 anni sono stati abbattuti 785.000 kmq di foresta, pari al 20% del totale, togliendo inoltre terre ai popoli nativi. Questi si battono con scarsi mezzi contro i privati e l’attuale governo brasiliano, che copre le devastazioni ambientali e non interviene in loro difesa, come nel caso dei 74.000 incendi di quest’estate, in gran parte dolosi e lasciati consapevolmente ad ardere.
La logica colonialista dei paesi cosiddetti “avanzati” come il nostro si rivela in tutta la sua ipocrisia nel recente caso dell’accordo tra il Mercosur (comunità economica che comprende numerosi paesi sudamericani) e l’Unione Europea. Infatti, se i portavoce UE sottolineano che l’accordo conterrebbe alcuni passaggi che impegnano i paesi firmatari a mantenere i livelli di emissioni di gas serra sotto le soglie previste dagli accordi di Parigi, mostrando il volto buono e “green” dell’Unione, sorvolano poi sul fatto che lo scopo principale dell’accordo è quello di favorire, tramite l’abbattimento dei dazi doganali, l’importazione in Europa di soia geneticamente modificata e carne sudamericane (che abbiamo visto essere le principali cause della deforestazione) e l’esportazione in Sud America di prodotti dell’industria europea automobilistica (con particolari agevolazioni per quanto riguarda SUV di grossa cilindrata, altamente inquinanti), chimica (inclusi i pesticidi agrotossici che in Argentina stanno causando un disastro ecologico e un'elevatissima incidenza di tumori e malattie correlate nelle aree rurali e dunque nelle fasce più povere della popolazione) e tessile.
Quest’ultima, ossia l’industria dell’abbigliamento, la seconda più inquinante al mondo dopo quella petrolifera con circa il 10% delle emissioni globali di gas serra, è un ulteriore esempio di questa ipocrisia. Si sente spesso dire che la maggior parte della produzione inquinante e delle emissioni provengono dai paesi in via di sviluppo, e non dalla “virtuosa” Unione Europea, ma questo dato oggettivo nasconde una realtà molto meno assolutoria di quanto possa sembrare per UE e paesi affini.
Infatti, se è vero che la maggior parte (circa il 54%) dei capi d’abbigliamento prodotti al mondo provengono dalla Cina, è anche vero che il 75% di tutta la produzione viene assorbita, oltre che dal mercato interno cinese, dal solo primo mondo, ossia Unione Europea, Giappone e USA. Quest’ultimo paese è anche il primo consumatore mondiale, e consuma quasi esclusivamente vestiti importati da Cina (il 35%), Bangladesh, Vietnam, Indonesia e così via.
Se dunque l’emissione di gas serra è concentrata geograficamente nei paesi in via di sviluppo, gli impianti che la producono sono però spesso di proprietà di aziende europee o statunitensi delocalizzate (per fare un esempio l'italiana ENI da sola ha prodotto quasi lo 0,6% di tutte le emissioni di gas serra dal 1988 al 2015, ma lo ha fatto principalmente in Africa e in Asia piuttosto che in Europa) e in ogni caso tali emissioni sono dovute quasi interamente alla domanda di beni proveniente dai paesi “ricchi”, e non certo da quella interna dei sopracitati paesi in via di sviluppo.
È dunque tanto paradossale e ridicolo quanto per loro profittevole che gli industriali e la grande borghesia europea, che lucrano sull’inquinamento prodotto in altri paesi, pretendano poi di fare la morale a questi ultimi e di imporgli, qualora violassero gli accordi sul clima, sanzioni “ambientaliste” attraverso l’UE e gli organismi internazionali, rendendone ancora più fragili e dipendenti dalle esportazioni le economie nazionali.
Sempre l’industria tessile ci permette di introdurre un’altra questione: quella della sovrapproduzione. Il 30% dei capi d’abbigliamento, infatti, viene buttato senza essere mai venduto e utilizzato, poiché la maggior parte delle merci prodotte sono in sovrabbondanza rispetto alla domanda effettiva. Lo si vede in ogni settore: per esempio in Europa ci sono 11 milioni di case inabitate, senza contare le varie seconde e terze case e gli altri edifici vuoti.
A livello mondiale, produciamo cibo per 12 miliardi di persone. Circa 88 milioni di tonnellate di cibo altrimenti edibile da umani, animali o utilizzabile per la produzione di energia vengono buttate in Unione Europea ogni anno.
Ciò si traduce in 173 chili di cibo sprecato per ogni abitante dell’UE e 170 tonnellate di CO2 emessa nell’aria durante i processi produttivi e di smaltimento. L’industria dell’abbigliamento produce 150 miliardi di articoli ogni anno, di cui come si è già sottolineato riesce a vendere solamente due terzi, e di cui solo un terzo supera la durata di un anno prima di essere buttato.
Queste quantità insensate sono una caratteristica unica e caratterizzante del Capitalismo, che soffre dalla sua nascita di cicliche crisi di sovrapproduzione. Riguardo alla ragione economica profonda di ciò, ovvero il meccanismo della “caduta tendenziale del saggio di profitto”, rimandiamo il lettore allo studio di Marx o alla partecipazione alle varie autoformazioni e assemblee organizzate dall’OSA, poiché il tema è troppo esteso per essere trattato qui.
Relativamente al danno ambientale causato dalla sovrapproduzione tipica di questo sistema economico, basti prendere in esame alcuni meccanismi più semplici:
– quello del consumismo, con il quale si gonfia all’inverosimile la domanda di merci tramite bisogni indotti dalla pubblicità, dalle mode e via dicendo, poiché se si convincono i consumatori a comprare un vestito a settimana piuttosto che uno al mese chi produce e vende quei vestiti otterrà più profitti;
– il meccanismo dell’obsolescenza programmata, tramite il quale le aziende, inserendo negli elettrodomestici componenti elettronici dalla durata limitata non sostituibili nel caso di malfunzionamenti o appesantendo volutamente il software di vecchi modelli di smartphone tramite aggiornamenti inutili e deleteri, costringono l’acquirente a sostituire molto più spesso di quanto sarebbe realmente necessario tali prodotti, aumentando il costo della vita e generando più profitto per le aziende produttrici, e di pari passo più rifiuti, più spreco di materie prime e più inquinamento per il pianeta;
– il meccanismo della competitività alla base del mercato, il quale implica che, come accaduto di recente, aziende come Burberry preferiscano dare alle fiamme di nascosto propri prodotti invenduti per un valore complessivo di 37 milioni piuttosto che smerciarli a un prezzo più basso, cosa che saturerebbe il mercato impedendo di vendere i prodotti della nuova stagione a un prezzo considerato soddisfacente dagli azionisti, lo stesso meccanismo che, in ambito alimentare, causa lo spreco di ingenti quantità di cibo perfettamente sano e edibile ma che, non rispettando particolari standart estetici (niente ammaccature sulla frutta e così via) rischia di sfigurare sugli scaffali e non venire acquistato, stante la disponibilità di prodotti concorrenti dall’aspetto più curato.
Infine, è degno di nota il meccanismo, anch’esso inevitabile in un’economia capitalistica, che causa l’enorme accumulo di denaro e potere nelle mani di pochi individui al vertice di aziende private. Queste riescono dunque tramite il lobbysmo e l’influenza sulla politica ad emanciparsi dal controllo popolare sulla produzione che lo Stato democratico sostiene di garantire ai cittadini, e fanno così i propri porci comodi inseguendo solo il profitto e fregandosene della devastazione ambientale che causano.
Nel Capitalismo neoliberista, non c’è ne la volontà ne la concreta possibilità per lo Stato di agire per contrastare tutto ciò, incapace come è di imporre il rispetto di regole a tutela dell’ambiente su compagnie private divenute oramai troppo potenti (e inquinanti).
Non è dunque pensabile lottare contro l’apocalisse ecologica nel mezzo della quale ci troviamo senza lottare contro il Capitalismo in quanto sistema economico, poiché il secondo è causa diretta della prima, e finché non avviene il passaggio a un economia programmata che non soffra di deleteria sovrapproduzione e che sia gestita dal popolo nel proprio interesse collettivo e non, come lo è adesso, da un oligarchia di impresari e CEO interessati unicamente al proprio tornaconto, finché non avviene tutto questo l’uomo non potrà mai riconciliarsi con la natura e l’apocalisse continuerà, implacabile.
Per questo noi di OSA rimaniamo scettici riguardo alle aperture verso le idee della cosiddetta “Green Economy” che in passato sono provenute da Fridays for Future.
La Green Economy è quella scuola di pensiero che evidenzia e mette in pratica la possibilità, all’interno del sistema economico capitalista, di adottare politiche e catene produttive “verdi”: energia rinnovabile, auto elettriche, prodotti a km 0 e così via. Oltre a mantenere tutti i problemi ambientali causati dal Capitalismo e trattati nel paragrafo precedente, quest’approccio alla questione ecologica rischia di diventare una maniera delle élite economiche europee per strumentalizzare movimenti come Fridays for Future secondo i propri interessi.
Infatti, la Green Economy non solo si basa sul finanziamento di aziende private “verdi” con soldi pubblici (cosa che, tra parentesi, in Italia spesso si è tradotta con la vittoria degli appalti da parte di soggetti appartenenti a Mafia, Camorra e ‘ndrangheta), ma risulta strategica per il rafforzamento dell’Unione Europea come polo imperialista nella competizione globale con Cina, USA e Russia dal momento in cui l’UE è la potenza che dispone sul proprio territorio di meno risorse fossili al mondo, primo importatore mondiale di energia con un indice di dipendenza dalle importazioni complessivo del 53,4%, con un picco dell’80,8% per il nostro paese, dovuto soprattutto alle importazioni di petrolifere.
Se l’obiettivo dell’autosufficienza energetica dal punto di vista dei combustibili fossili sembra per l’UE allontanarsi ogni giorno di più, negli ultimi anni è comunque aumentato lo sviluppo e l’implementazione di fonti energetiche rinnovabili, che nel 2012 hanno rappresentato il 23,6% dell’energia totale prodotta all’interno della comunità.
Questo dato, però, non deve trarci in inganno: industriali e finanzieri europei spingono per le energie “verdi” solo per una questione di interesse economico, e non certo per scrupoli ambientali, che non si preoccupano di accantonare immediatamente quando, per i loro sporchi profitti, devono far pressione attraverso lobby come l’European Round Table of Industrialists su UE e governo per devastare la Val di Susa con la TAV, oppure quando insieme ai produttori di telefoni cinesi schiavizzano la popolazione del Congo e riempiono il paese di miniere avvelenando fiumi e falde acquifere allo scopo di estrarre il cobalto per... le batterie delle auto elettriche “eco-friendly” europee!
Inoltre, vi è un chiaro interesse da parte dei Socialisti Europei (il gruppo parlamentare che include il Partito Democratico italiano, i socialisti spagnoli e francesi, i socialdemocratici scandinavi e così via), che hanno candidato Greta Thunberg al Nobel per la Pace, nell’usare i movimenti ambientalisti per attaccare le destre sovraniste, e in particolare in Italia quella di Salvini, su un tema ampiamente condivisibile e dove quest’ultima mostra il fianco, essendo legata materialmente e politicamente alla Russia di Putin e ideologicamente al modello USA-trumpista, ossia forze politiche egemoni in paesi che dispongono di ingenti risorse fossili e che dunque rifiutano il tema dell’ecologismo.
Per quanto queste formazioni parafasciste non raccolgano certamente le simpatie dell’OSA, tantomeno lo fanno i liberisti di PD e affini che provano a strumentalizzarci cavalcando il tema ambientale, come dimostrato dall’estrema attenzione che questi partiti dedicano alla questione ecologica nella propria comunicazione e dai recenti endorsement verso Fridays for Future, purtroppo accolti positivamente da parte del movimento, provenienti dal Ministero dell’Istruzione, Ministero che ricordiamo paghi ENI, Zara, Mac Donald’s, General Electric, la Alstom (che produce i treni per la TAV) e innumerevoli altre aziende complici del disastro ambientale per fargli sfruttare gli studenti in alternanza scuola-lavoro.
Senza dubitare della buona fede della sedicenne svedese ne di quella delle centinaia di migliaia di studenti e studentesse, di compagni e di compagne che hanno partecipato al movimento: quando Greta Thunberg minaccia i potenti della terra di fronte a loro e questi, invece di farla arrestare, applaudono, è lecito chiedersi se non abbia anche lei un ruolo, inconsapevole, in questo sistema marcio.
Vi è infine la questione della responsabilizzazione, o, per meglio dire, colpevolizzazione, del singolo riguardo al problema ambientale, anche questo per noi punto dove ci troviamo in disaccordo con alcuni schemi di pensiero e azione adottati dai movimenti per il clima. Se da un lato mantenere un etica e una condotta personale votata a minimizzare la propria impronta ecologica (chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti, riciclare, usare la bici ecc.) è certamente consigliabile e degno di lode, lo spostamento massiccio dell’attenzione del pubblico su questo aspetto del problema, decisamente minoritario, è a nostro parere un tentativo da parte dei veri responsabili del disastro che viviamo di addossare ingiustamente le colpe e i costi della transizione ecologica al cittadino comune, e in particolare alle fasce economicamente più svantaggiate della popolazione.
Lo dicono le statistiche, da sole 100 grandi aziende come ENI, Shell, Exxon, Gazprom e così via sono responsabili di addirittura il 71% delle emissioni di gas serra totali dal 1988 al 2015: che impatto ha il comportamento del singolo, se non si organizza ed agisce politicamente sulla produzione, di fronte a cifre del genere? L’inquinamento e l’effetto serra sono dati sistemici, e finché non se ne assume la consapevolezza sarà impossibile combatterli a colpi di borracce e agende in carta riciclata.
Gli sprechi dovuti alla sovrapproduzione, che abbiamo sottolineato come il principale problema ambientale causato dal capitalismo, rendono evidente che la lotta deve essere centrata sulla produzione, e non può occuparsi solo dei consumi. I dati che abbiamo analizzato ci dimostrano infatti che l’offerta e la produzione non tendono in realtà a inseguire la domanda, ma anzi in parte la trainano; sarebbe dunque insensato pensare di influenzare la produzione agendo sui consumi, dandosi ferree regole personali su quali prodotti comprare e quali no nella ricerca di un consumo etico che nel capitalismo non può esistere e nelle forme in cui lo fa è estremamente complesso da attuare e ininfluente sulla realtà.
È vero invece che ognuno, privatamente, pur non consumando direttamente materie prime, può portare all’emissione di gas serra, ad esempio tramite l’uso di un mezzo di trasporto alimentato a combustibili fossili, ma, anche nei luoghi ove più è consistente l’utilizzo del trasporto privato e meno sono presenti grandi attività industriali, le emissioni così prodotte non superano complessivamente il 15% della produzione di gas serra per l’Europa Occidentale, per cui un movimento che stabilisce di agire sull’inquinamento prodotto dai singoli individui non potrà mai avere un impatto particolarmente significativo sull’inquinamento globale.
A maggior ragione ciò verrà impedito dalla concreta impossibilità di ridurre sotto una certa soglia il consumo privato di combustibili fossili, a causa di necessità materiali come il bisogno di spostarsi per raggiungere il posto di lavoro, per altro spesso mal collegato dal trasporto pubblico, in Europa e particolarmente in Italia frequentemente sottofinanziato o appaltato ai privati. Aggiungiamo inoltre che le istituzioni, nazionali ed europee, che hanno reso quel trasporto pubblico inefficiente o lo hanno svenduto ai privati creando il problema, non di rado sono le stesse che poi tentano di colpevolizzare il lavoratore per i suoi spostamenti in auto.
La riduzione dell’inquinamento non può certo gravare sui bisogni dei lavoratori, non può andare a punire le necessità, o si fa pagare ai singoli il prezzo di un sistema economico malato. Lo scorso autunno in Francia il problema si è manifestato in tutta la sua concretezza: il governo francese ha deciso di intervenire aumentando il prezzo della benzina attraverso una leva fiscale (che però, chissà come mai, non si applica al carburante dei jet privati e degli aerei di linea, ma solo a quello per le vetture dei normali cittadini...), per spingere con dichiarato intento ecologista ad abbandonare l’uso dell'auto privata, ma aumentando di fatto il costo della vita per le fasce più deboli della popolazione ed i ceti medi impoveriti, che hanno così scatenato le oceaniche proteste dei Gilet Gialli, rivolte spontanee soffocate dalla repressione, ma che hanno ottenuto alcuni piccoli risultati, come il riabbassamento delle accise sui carburanti e l’innalzamento di ben 100 euro del salario minimo.
I Gilet Gialli hanno chiesto che la crisi ambientale fosse affrontata senza andare a gravare sui lavoratori, incentivando ad esempio la coibentazione degli edifici, e che le risorse necessarie fossero ottenute da un aumento delle tasse sui redditi alti. Chiaramente lo scontro fra le politiche ambientaliste proposte dai Gilet Gialli e quelle del governo di Emmanuel Macron è l’espressione di uno scontro tra classi sociali per decidere chi debba pagare le spese del disastro ambientale. Il conflitto sociale scatenato dal costo della transizione ecologica ci conferma che la lotta ecologista DEVE essere divisiva, poiché per avere effetto e fare gli interessi del pianeta e dell’Umanità nel suo complesso deve necessariamente andare a ledere gli interessi di una parte dell'umanità stessa: la parte dell’1% che governa il mondo e che in questo momento lo sta distruggendo.
Perché non è vero che il disastro ambientale colpisce tutti allo stesso modo.
Perché non è vero che non c’è un pianeta B.
Il pianeta B c’è, magari non così bello come la Terra, ma c’è. Ma non è per noi.
Il pianeta B è per chi ha i soldi per comprarselo.
Il pianeta B c’è per Donald Trump, che sta provando ad acquistare la Groenlandia in previsione dello scioglimento dei ghiacci.
Ma il lavoro B non c’è stato per gli operai che si sono presi il cancro all’ILVA di Taranto.
E se non lottiamo, la casa B non ci sarà per noi quando, dopo un alluvione, rimarremo senza un tetto e, come già accade in USA, dovremo continuare a pagare l’affitto degli appartamenti sommersi al proprietario (che di case invece ne ha mille).
Per questi motivi, OSA assume questo documento come sua piattaforma di lotta sui temi ambientali e non aderisce alla piattaforma di Fridays for Future, almeno finché il movimento non esprimerà una netta presa di distanza dall’inganno della “Green Economy” e abbraccerà invece l’anticapitalismo e il conflitto di classe, allontanandosi così da ogni strumentalizzazione e diventando finalmente capace di agire sulla realtà politica del paese invece di esserne agito.
Riconoscendo però l’importanza di molti temi trattati dal movimento e di una mobilitazione generale che li riguardi da parte degli studenti, OSA aderisce a momenti di piazza e di discussione in assemblea ad essi relativi sia dentro che fuori il Fridays for Future, sperando in questa maniera di poter contribuire alla creazione di coscienza di classe e di momenti di lotta, di politicizzazione e di confronto sui temi ambientali nel corpo studentesco.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento