Ci capita spesso di scrivere che i cosiddetti “imprenditori” italiani fanno schifo, o addirittura che sono dei criminali ben vestiti. Gente che succhia valore da lavoratori e risparmiatori, e che per farlo meglio ha distrutto – e sta ancora distruggendo – la capacità industriale del paese.
E, altrettanto spesso, qualche “moderato” ci consiglia di non esagerare. Poi arriva una conferma come questa e ci sembra di esserci andati persino troppo leggeri.
La holding della famiglia Benetton, Atlantia, ancora concessionaria di Autostrade per l’Italia (che gestisce la maggior parte della rete autostradale de paese) nonostante la strage di Ponte Morandi, a Genova, ha scritto una lettera al ministro dello sviluppo economico, il grillino Stefano Patuanelli.
Si volevano forse scusare per la tirchieria con cui gestiscono la manutenzione della rete autostradale (oltre Ponte Morandi sono decine i viadotti considerati “a rischio”)? Ma quando mai...
Il presidente Fabio Cerchiai e il direttore generale Giancarlo Guenzi hanno messo nero su bianco il più classico dei ricatti in stile banditi da strada: “Il permanere di una situazione di incertezza in merito ad Autostrade per l’Italia o ancor più l’avvio di un provvedimento di caducazione (revoca della concessione, ndr), non ci consentirebbero, per senso di responsabilità riconducibile sia alle risorse finanziarie necessarie che alla tutela degli interessi dei nostri circa 40 mila azionisti italiani ed esteri, dei circa 31 mila dipendenti del gruppo e di tutti gli stakeholders, di impegnarsi in un’operazione onerosa di complessa gestione ed elevato rischio“.
Traduzione quasi inutile: se non cancellate qualsiasi proposito di ritiro della concessione noi non entreremo nel già traballante “cartello” messo in piedi per il salvataggio di Alitalia.
I capitalisti, come sapete, ci stanno parecchio antipatici. Ma un capitalista vero entra o non entra in un consorzio di controllo di una società industriale – Alitalia, in questo caso – in base a un business plan che definisce possibilità di profitto, rischi, previsioni di crescita, ecc.
Nulla di tutto questo: Atlantia fa i soldi soltanto con la concessione autostradale (che dipende dallo Stato italiano, ancora proprietario della rete ma non più gestore, perché “la politica” ha sempre saputo come far guadagnare “gli amici” facendoci rimettere all’interesse pubblico...) ed era disposta a far parte del cartello su Alitalia solo per restituire un favore e tenersi la gallina dalle uova d’oro (stai al casello a riscuotere pedaggi sempre più cari e risparmi sulla manutenzione).
Questo non è business capitalistico, sono gli “affari” della famiglia Corleone (nel “Padrino”)!
Uno Stato minimamente serio avrebbe non solo ritirato la concessione il giorno dopo il crollo del Ponte Morandi, ma avrebbe denunciato tutti i consigli di amministrazione della varie “scatole” della holding dei Benetton. Non c’è infatti alcun bisogno di attendere “l’operato della magistratura” per capire che quella società non è in grado di occuparsi di un’attività così rilevante per l’economia, la libera circolazione e la sicurezza fisica dei cittadini.
Invece non solo non l’ha fatto (grazie ai più importanti “difensori politici” dei Benetton, ossia la Lega – che era al governo – e il Pd), ma ha pensato bene addirittura di coinvolgere Atlantia in un’operazione bislacca che riguarda un altro importante asset del paese.
Alitalia ha alle spalle una lunga storia di criminali messi alla sua testa per distruggerla. Faceva parte degli accordi a contorno del trattato di Maastricht, nel 1992, secondo i quali avrebbero dovuto restare in Europa soltanto tre vettori aerei: Air France, British Airways e ovviamente Lufthansa. Per la compagnia di bandiera – allora in attivo! – il destino previsto era: riduzione delle tratte coperte (per non fare concorrenza alle tre “prescelte”), conseguente riduzione delle entrate, crisi aziendale, licenziamenti e infine passaggio sotto il controllo di Air France, insieme all’olandese Klm. Una distruzione voluta e programmata, con il coro entusiasta dei pennivendoli di regime.
Il percorso fu interrotto da Berlusconi, in pieno trip elettorale, che si inventò la privatizzazione e la svendita a una cordata di “capitani coraggiosi” (dai Colaninno alla Marcegaglia) assolutamente a digiuno di trasporto aereo, che accettavano di partecipare – anche loro! – in cambio di un “occhio di riguardo” in sede di appalti, privatizzazioni, forniture, ecc.
Seguirono altre crisi, passaggio faticoso alla araba Etihad, scelte industriali demenziali (il “corto raggio” era stato nel frattempo occupato dalle compagnie low cost, sovvenzionate da consorzi locali pubblico-privato), nuovi fallimenti e licenziamenti.
Se non si vuole perdere una compagnia di bandiera messa su con i soldi pubblici non restava che ri-nazionalizzare la società, con in testa un piano industriale vero, coerente con le dinamiche attuali del trasporto aereo (la redditività si fa soprattutto con il “lungo raggio”, ossia i voli intercontinentali) e dunque con il superamento definitivo di una crisi creata ad arte.
In ogni caso, anche volendo fare un pasticcio industriale “all’italiana”, sarebbe stato necessario cautelarsi nella scelta dei “soci”. Insomma, niente speculatori alle spalle dello Stato. E invece...
E invece rieccoli qui a ricattare un branco di “politici” equamente divisi tra venduti, inetti ed incapaci.
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