L’ennesimo “stop and go” trumpiano su una delicata scelta di politica estera – in questo caso il “disimpegno militare” dal confini nord-orientali della Siria – è dimostrazione dell’impasse strategico che caratterizza Washington non solo nel teatro medio-orientale e non da oggi.
Questo “stallo” ha prodotto in questo caso una spaccatura nell’establishment repubblicano tra chi ha criticato anche aspramente le intenzioni di Trump – anche dopo averlo difeso “a spada tratta” dalla sua possibilità di impeachement – e chi si è espresso a favore, così come è emersa una sostanziale differenza tra il Presidente ed il Pentagono, come già accaduto rispetto ad possibile escalation militare contro l’Iran dopo l’abbattimento di un drone nord-americano sul suolo della Repubblica Islamica alcuni mesi fa.
Certamente il clima pre-elettorale – si vota tra un anno per le presidenziali negli States – e la necessità di dar fede alle promesse di disimpegno in alcuni teatri bellici delle truppe statunitensi, che sono state uno dei motivi che gli hanno fatto guadagnare consenso per vincere le elezioni, hanno un loro peso.
Non sembra però che sia quest’ultima gesticolazione né lo stato delle trattative con i Talebani ad assicurare ad “Orange Man” delle carte vincenti da giocarsi in campagna elettorale, specie se si dovrà confrontare non con un pezzo dell’establishment democratico, ma con un outsider come Sanders (condizioni di salute permettendo).
Sul Medio Oriente l’amministrazione Trump si è caratterizzata per due scelte reciprocamente legate di rottura con l’era Obama: l’uscita unilaterale dal “capolavoro diplomatico” obamiano, cioè la firma del trattato di Vienna sul nucleare dell’Iran, che doveva spianare la strada alla fine delle sanzioni per la Repubblica Islamica, ed il completo allineamento alle esigenze israeliane e saudite nell’area, nelle loro politiche interne come in politica estera.
Di queste scelte ne hanno fatto le spese la popolazione palestinese, quella yemenita e tutti coloro che gravitavano nella sfera dell’islam politico sciita.
Gli assi della politica dell’amministrazione Trump nella regione mediorientale, si sono articolate sulla “pressione massima” sull’Iran, il tentativo di costituzione di una “NATO Araba” di fatto in funzione anti-iraniana e contro l’arcipelago sciita, e quella che doveva essere la “conferenza del secolo” sulla questione palestinese. Ma si sono risolte per ora in clamorosi insuccessi, figli di rapporti di forza che vedono nell’ex super-potenza nord-americana un attore non più in grado di produrre una rottura effettiva dello status quo in proprio favore, anche perché si confronta nell’area con soggetti che non vogliono farsi dettare l’agenda politica dagli States ma che difendono i propri interessi anche con una proiezione militare “esterna” in grado di cambiare l’ordine delle cose. È il caso della Russia intervenuta nel 2015 nella guerra civile siriana (che Obama erroneamente derubricava a “potenza regionale”) o della “mezza luna sciita” nella lotta contro lo Jihadismo in Siria ed in Iraq, ed ora bersaglio contemporaneo delle incursioni israeliane.
Il plebiscito nel referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno, il mancato allineamento del governo iracheno ai voleri di Washington ed il suo rapporto con l’Iran, ha creato più problemi che soluzioni ad una situazione in cui erano stati gli USA a “forzare” per l’invasione del Paese nel 2003, cercando di ridefinire una gerarchia del comando imperialista a guida anglo-americana che è nel frattempo svanita, e che ha avuto in loco come rinculo lo sviluppo dello Stato Islamico, sfuggito di mano ai suoi creatori.
È interessante notare come la “fronda repubblicana” anti-Trump ha proposto sanzioni ed addirittura l’espulsione dalla NATO della Turchia, in caso desse seguito al suo piano di invasione che da tempo persegue per ciò che attiene il Nord-Est siriano, e per cui va costruendo progressivamente le condizioni per attuarlo: l’invasione del Rojava, l’installazione dei profughi siriani sul suo territorio con conseguente modificazione etnica rispetto alle zone di provenienza di questi, di fatto stabilendo un protettorato turco-sunnita da un lato ed annichilendo uno dei retroterra – insieme al kurdistan iracheno – del movimento di liberazione curdo che rimane nei fatti uno dei principali nemici dello stato turco dall’inizio dell’insorgenza curda in Turchia con la formazione del PKK nella prima metà degli anni '80.
È dal mancato colpo di stato contro Erdogan che i rapporti tra USA e questo membro della NATO vanno deteriorandosi, mettendo in moto un parallelo avvicinamento tra Turchia e Russia: la vicenda dell’ordinativo degli S400 russi (uno de maggiori antagonisti della NATO) e della conseguente mancata consegna degli F35 americani alla Turchia, dà la cifra delle frizioni che possono trasformarsi in un divorzio.
Certo Erdogan è alla prese con una crisi economica che non vede segni di contro-tendenze, con le sconfitte elettorali ad Ankara e ad Istanbul, e con un declinante esito del progetto di influenza neo-ottomano che ha subito significativi passi d’arresto in Siria, in Egitto (con il colpo di stato contro Morsi) e in Africa vista l’incapacità, tra l’altro, di fare del Sudan per ora una testa di ponte nel continente come per un certo momento sembrava sotto Al Bashir.
Non potendo escludere “colpi di testa” del Premier turco per recuperare terreno anche in funzione di una crescita del suo consenso interno, così come quelli di un qualche dottor stranamore nord-americano, la situazione sembra “in perfetto stallo”.
Per ciò che riguarda il movimento curdo, è chiaro che la spregiudicatezza tattica dimostrata nel cercare di volgere a proprio vantaggio la situazione createsi in Siria – così come sperimentato da altri attori politici curdi in Iraq – sta mostrando i suoi limiti di prospettiva. La Siria non è stata “disintegrata” in patrie etnico-confessionali come è stato fatto in Iraq – seguendo tra l’altro un vecchio progetto sionista – né mangiata dall’islam radicale. Questo anche grazie a forze che come lo YPG si sono immolate nella lotta contro lo jihadismo, esattamente come hanno fatto l’arcipelago sciita – come Hiz’bullah – la Russia che ha conosciuto direttamente il terrorismo islamico in patria e vede in Caucaso ancora attivi i focolai islamici radicali, e l’esercito “lealista” ad Assad insieme alle milizie volontarie e gruppi palestinesi.
Ad un osservatore minimamente obiettivo appare il paradosso per cui uno dei comunque più importanti esperimenti politico-sociali dell’area, come il Rojava, e delle componenti che hanno più generosamente lottato contro lo jihadismo imponendone quella che sembrava ad un certo punto l’inarrestabile ascesa dell’ISIS, dipenda in parte dalla protezione militare nord-americana, che non solo ha fornito “truppe cuscinetto” ora ritirate in due punti strategici del confine con la Turchia ma che ha tre basi in punti nevralgici del Cantone.
La categoria del “tradimento” non è mai esplicativa in politica, e quindi non conviene usarla, soprattutto se si tiene conto che gli Stati Uniti hanno sempre applicato una sorta di versione moderna della “legge del deserto”: il nemico del mio nemico è il mio amico, e che storicamente sfruttano “la libertà dei popoli” per i propri comodi: nel Novecento divennero campioni della causa armena contro il nascente stato turco proprio per ritagliarsi un ruolo in Medio Oriente, lo denunciava ai tempi con efficacia John Reed alla Conferenza di Baku negli anni Venti.
Non sta certo a noi dare giudizi su altri che operano in contesti diversi dal nostro, ma occorre comunque mostrare quelli che sono i nodi problematici, sapendo bene che la necessità di un alleanza per sconfiggere un nemico comune ha dato storicamente forma a fronti che poi in una fase diversa si sono rovesciati e che una mutevole situazione sul campo, può dare vita ad altrettante “mutevoli e transitorie” alleanze.
Come sempre, è nella situazione in cui ci troviamo ad agire che dobbiamo esprimere un orientamento per l’azione coerente che in questo caso non può che essere un progetto che sganci i destini dei popoli dalla tutela dei differenti attori imperialisti – nel nostro caso UE e USA – sperimenti forme di cooperazione orizzontali dentro un “Mediterraneo Allargato”, che sia prima di tutto forgiato da battaglie comuni e prefiguri una prospettiva di indipendenza politica.
Per fare questo, è imprescindibile una cassetta degli attrezzi che rimetta al centro l’uso della categoria di “imperialismo” per come si articola nel Terzo Millennio e quale possa essere la profondità strategica nel quale inserire il proprio percorso di liberazione, così come lo sviluppo di un internazionalismo che denunci “qui e ora” l’apparato militare-industriale e la tendenza alla guerra del nostro nemico in casa: l’oligarchia “militarista” europea, la potenza militare statunitense e la NATO, prospettando soluzioni e alternative adeguate, a cominciare dallo sganciamento dalle attuali alleanze militari e guerrafondaie.
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