di Sandro Moiso
Alessandro Mantovani, Gli “Arditi del popolo”, il Partito Comunista d’Italia e la questione della lotta armata (1921-1922), Pagine Marxiste, 2019, pp. 184, 10,00 euro
Definitivo è il fallimento d’ogni programma di lotta costituzionale e morale (La catena, Emilio Lussu – 1929)
In tempi in cui le piazze “antifasciste” si riempiono di giovani
inneggianti alla legalità, alla politica educata e non violenta e in cui
la conflittualità di classe, ancora una volta, rischia di essere messa
sott’olio e sigillata come le sardine che la promuovono, è sicuramente
molto utile ripercorrere, dal punto di vista storiografico e politico,
le vicende che portarono ad una netta distinzione tra l’organizzazione
illegale del Partito fondato a Livorno nel 1921 e quella spontanea e
diffusa, soprattutto in ambito proletario, di chi cercava di opporsi
armi alla mano alla nascente minaccia fascista.
Una lezione, indipendentemente dai risultati conseguiti e dalle
motivazioni politiche che alimentarono le differenti strategie e
tattiche assunte dai principali protagonisti, che potrebbe rivelarsi
ancora oggi decisiva per distinguere comunque il reale antifascismo da
quello di facciata finalizzato soltanto a protrarre oltre ogni possibile
limite la sopravvivenza dell’attuale ordine economico e sociale basato
sul sopruso e l’oppressione di classe.
All’interno di un conflitto sociale che si muove oggi in un’aura già di
guerra civile, nelle diverse aree del globo in cui si va manifestando,
ma in cui una parte dei contendenti sembra ancora tardare nel prendere
coscienza delle difficoltà e delle responsabilità che l’attendono nel
confronto con la violenza dispiegata dagli Stati e dai loro apparati
militari e repressivi.
Tale non secondario problema, evidentemente, nel periodo intercorso
tra il 1919 e il 1921, fu invece centrale per l’organizzazione di chi,
tornato dalla guerra oppure rimasto in officina, doveva fare i conti
con la crisi economica successiva alla fine del primo conflitto mondiale
e, soprattutto qui in Italia, con l’organizzazione della violenza
armata delle milizie che, come quelle fasciste, affiancarono l’opera di
controrivoluzione preventiva messa in atto dallo Stato nei confronti dei
lavoratori e del proletariato e delle loro iniziative ed organizzazioni
politiche e sindacali.
Certo, a differenza di oggi, l’idea della violenza ineliminabile da
qualsiasi discorso sullo scontro di classe non era ancora stata
cancellata dalla memoria di chi si opponeva all’esistente e alle
condizioni di vita e di lavoro che ne conseguivano. E a questo avevano
certamente contribuito anni di guerra e di macelli interimperialisti, la
leva di massa, le sofferenze di coloro che erano rimasti a casa e la
delusione dei reduci e dei sopravvissuti di un conflitto che aveva
causato in Europa circa dieci milioni di morti e un’innumerevole
quantità di feriti e dispersi tra le file dei soldati di ogni
nazionalità.
L’uso delle armi era diventato massiccio e abituale per chi era stato
al fronte, ma anche il corso degli avvenimenti precedenti e
contemporanei al periodo di guerra (la settimana rossa, l’insurrezione
di Torino dell’agosto del 1917, le rivolte per il pane e la terra e le
occupazioni delle fabbriche del cosiddetto Biennio rosso) aveva
determinato tra i proletari, gli operai e i militanti più decisi delle
varie tendenze politiche contrarie al capitalismo una pratica diffusa di
detenzione o una più semplice propensione all’uso delle armi per far
valere i propri diritti oppure per difendere la propria vita, le
manifestazioni, gli scioperi e tutte le strutture connesse
all’organizzazione delle lotte (tipografie, sedi sindacali e di partito,
case private dei militanti) dall’assalto delle forze della
controrivoluzione preventiva: sia che si trattasse di quelle dello Stato
che di quelle inquadrate nelle milizie fasciste.
Un’azione militare proletaria che ebbe nell’azione degli Arditi del
popolo un’autentica punta di diamante nella risposta al Fascismo e che
finì con lo scontrarsi sia direttamente sul campo che giuridicamente con
gli apparati repressivi e militari dello Stato Regio.
Stato che sempre e comunque, ben prima della sua completa
fascistizzazione, intervenne a difesa delle milizie nere sia a supporto
della loro azione repressiva sia per soccorrerle in caso di probabile o
evidente sconfitta. Ragion per cui gli appelli successivi alla
pacificazione o l’invito al ritorno alla tradizione democratica del
parlamento e del governo, ancora nel 1924 dopo il delitto Matteotti
oppure vent’anni dopo con gli appelli ai “fratelli in camicia nera” del
1938 o la formazione del CLN dopo la caduta del regime, sempre
risuonarono, e non avrebbe potuto essere diversamente, come autentici
tradimenti dell’iniziativa autonoma proletaria e dello spirito
rivoluzionario che l’aveva spontaneamente animata fin dagli anni del
primo dopoguerra.
Mantovani prende in esame, nel suo sintetico testo, un problema
importante e significativo del rapporto tra organizzazione politica (il
partito o i partiti) e azione autonoma del proletariato: quello
dell’avvicinamento alle formazioni militari degli Arditi del popolo e
del contemporaneo allontanamento di molti militanti dalla disciplina e
dalle direttive degli stessi partiti, in particolare da quel Partito
Comunista d’Italia che era nato da una scissione a sinistra dell’ormai
decotto Partito Socialista.
Proprio la giovane dirigenza del partito, nato rivoluzionario sulla
base delle indicazioni della Internazionale Comunista o Terza
Internazionale, fu quella che con più decisione si oppose teoricamente e
organizzativamente all’unione militare tra militanti del Partito,
proletari non ancora inquadrati politicamente e ex-combattenti
antifascisti e avversi a quell’ordine socio-economico che li aveva
mandati al macello.
Questi ultimi avevano una composizione socio-politica molto
diversificata al proprio interno: ex-militari di prima linea, volontari
fiumani, anarchici, socialisti, repubblicani, comunisti provenienti da
classi sociali diverse (studenti, piccoli borghesi, disoccupati,
sottoproletari, lavoratori), ma uniti nel rifiuto dell’esistente e
attivi nel rispondere alla minaccia e alle aggressioni fasciste.
Certo non potevano essere portatori di un programma politico ben
delineato e definito e proprio da qui nacque l’equivoco, se vogliamo
definirlo con un eufemismo, che portò l’allora segretario del Partito
Amadeo Bordiga e buona parte del direttivo dello stesso ad opporsi alla
pratica di collaborazione militare e a proporre un inquadramento
militare, destinato soltanto ai militanti riconosciuti del partito
stesso, all’interno delle strutture illegali del Partito.
Molti militanti non diedero ascolto a tali indicazioni (lo dimostrano
le cifre delle adesioni agli Arditi del popolo di militanti definiti
come comunisti) e ciò naturalmente causò irritazione negli organi
dirigenti da una parte e dall’altra una serrata polemica tra la
direzione del Partito e la Direzione dell’Internazionale e lo stesso
Lenin, favorevoli invece ad una collaborazione militare tra il Partito
italiano e le formazioni militari spontanee rappresentate dagli Arditi.
Mentre la dotta introduzione di Marco Rossi, già autore di diversi
testi sul tema degli Arditi e del rifiuto della guerra, serve a
inquadrare più generalmente il periodo e le pratiche spontanee di
resistenza e di organizzazione paramilitare di chi, nel primo dopoguerra
oppure durante la guerra stessa, si opponeva allo Stato borghese, al
capitalismo, al nazionalismo e al fascismo, la ricostruzione di
Mantovani si basa principalmente sulla documentazione e sui testi
prodotti all’epoca dal Partito Comunista a direzione bordighiana e
dall’Internazionale relativi al medesimo argomento.
È un lavoro interessante e, fortunatamente, critico delle
formulazioni e delle pratiche messe in atto dal PCd’I in quei frangenti,
ma nell’opera quasi ostinata di antologizzazione dei testi (molto ricca
è infatti l’Appendice in cui si raccolgono i documenti, gli articoli e
gli accesi contrasti tra Partito e Internazionale) rischia di cadere
nello stesso errore di schematismo in cui caddero Bordiga e gli altri
dirigenti del Partito (fatto forse salvo il caso di Gramsci) che ebbero
come unico faro i compiti e i programmi del Partito stesso, senza tener
conto delle proposte e delle nuove modalità organizzative e operative
che giungevano dal basso e dalla società. Un dibattito che, per forza di
cose, era destinato e sarebbe destinato tutt’ora, a rimanere racchiuso
nel confronto ideologico e politico interno ad una minima frazione di
proletariato e di militanti compresi all’interno del Partito di allora o
di quello puramente immaginario di adesso.
In questo, però, occorre vedere anche un prolungamento di
quelle pratiche bolsceviche e bolscevizzanti messe in atto proprio sulla
base delle indicazioni provenienti dall’Internazionale per la
formazione dei nascenti partiti comunisti: partiti di quadri e militanti
rivoluzionari che dovevano guidare le masse in nome di un chiaro e ben
definito progetto di azione tattica e strategica.
Una concezione dell’azione politica militante che non solo avrebbe
portato nel giro di pochi anni alla degenerazione staliniana nell’Urss e
nei partiti “fratelli”, ma che era riuscita di ostacolo persino agli
inizi della rivoluzione russa quando, a febbraio, i rappresentanti del
partito presenti a Pietrogrado si erano inizialmente opposti alle
iniziative dal basso, di operaie, operai e soldati, che avrebbero
portato nel giro di una settimana alla caduta dello Zar.
Una concezione e una pratica militare, quella ereditata dal partito
bolscevico, più adatta all’azione armata ristretta delle fasi di
difficoltà di un movimento (come quella attraversata dal partito
bolscevico dopo la rivoluzione del 1905) piuttosto che all’azione
generale di classe in un momento di guerra civile oppure
pre-insurrezionale e rivoluzionario. Concezione ristretta che si sarebbe
drammaticamente riverberata anche nei cosiddetti ‘anni di piombo’ e
nelle tragiche e perdenti scelte operate dalle organizzazioni
maggioritarie della lotta armata italiana a cavallo tra gli anni ’70 e
’80.
Se non sbaglio, inoltre, l’autore dimentica una specie di autocritica che lo stesso Bordiga avrebbe poi fatto sulle pagine di Prometeo,
la rivista teorica del Partito sopravvissuta pochi mesi all’azione
fascista statalizzata, riconoscendo l’importanza che il movimento
dannunziano e l’impresa di Fiume avrebbero potuto avere come momento di
rottura all’interno della società italiana se questa fosse stata
riconosciuta dai vertici della Sinistra come una possibile componente
del movimento rivoluzionario. Ma questa “autocritica” in realtà tale non
era poiché all’epoca del movimento dannunziano il Partito Comunista non
esisteva ancora e, quindi, la responsabilità poteva essere rovesciata
interamente sul Partito Socialista.
Il testo di Mantovani, edito da Pagine marxiste, è pertanto
utile dal punto di vista della conoscenza e diffusione delle
teorizzazioni, pro o contro, dell’epoca, ma pecca ancora di una mancata e
approfondita analisi delle componenti sociali e degli immaginari che
determinarono tali scelte. E questo non è poco in un momento in cui, a
livello mondiale, torna a delinearsi uno scontro di classe variegato e
contraddistinto dall’essere più guerra civile che non “rivoluzione pura”
come alcuni vorrebbero, cosa che condannerà inevitabilmente questi
ultimi a ripercorrere ancora le stesse orme lasciate da altre sconfitte
nella neve insanguinata della Storia.
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