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18/05/2020

Regioni cinquant’anni fa

Essendo previste nella Costituzione della Repubblica Italiana, il 31 gennaio 1947 la seconda sottocommissione della Commissione per la Costituzione, aveva stabilito che le nuove Regioni sarebbero dovute essere 22: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia, Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta.

Tuttavia, il testo coordinato dal comitato di redazione prima della votazione finale in Assemblea e distribuito ai deputati il 20 dicembre 1947 all’articolo 31 recitava:

«Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d’Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi e Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna»

Rispetto alla bozza il numero delle regioni era sceso a 19: era stato mutato in Basilicata il nome della Lucania, il Salento era stato inglobato nel resto della Puglia, si accorpavano l’Emilia con la Romagna e l’Abruzzo con il Molise.

La costituzione delle stesse ebbe però luogo solo successivamente con la le legge 16 maggio 1970, n. 281 e dal relativo regolamento di attuazione, il DPR 15 gennaio 1972, n. 8, i quali decretarono l’istituzione vera e propria delle regioni italiane come enti territoriali. In particolare, il DPR 8/1972 regolò le modalità operative del trasferimento delle funzioni amministrative statali alle regioni a statuto ordinario. Le regioni quali enti pubblici parzialmente autonomi con la Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, che, agli articoli 114 e 115, prevedeva infatti:

«La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni.»

(Costituzione italiana, art. 114)

«Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principî fissati nella Costituzione.»

(Costituzione italiana, art. 115)

Il Friuli e la Venezia Giulia furono accorpati nella regione Friuli-Venezia Giulia, mentre gli Abruzzi e il Molise furono accorpati nella regione Abruzzi e Molise. Nel 1963 con l’approvazione di un’apposita legge di modifica costituzionale in deroga all’art. 132 grazie a una disposizione transitoria che aggirava il limite del milione di abitanti e il referendum tra i cittadini interessati, sarebbe stata concessa l’autonomia al Molise. La regione Abruzzi e Molise venne di nuovo scorporata nelle due regioni Abruzzo e Molise portando così a venti il numero attuale delle regioni.

A cinquant’anni di distanza il sistema politico italiano sta attraversando una fase di vera e propria “crisi verticale”, caratterizzata dall’assenza di rappresentatività , dalla necessità di una rilegittimazione complessiva dei soggetti che lo compongono e dalla presenza di fortissime tensioni sia al centro, sia nel rapporto centro/periferia, come ben dimostrato nel corso di questa drammatica fase di lockdown

Nel frattempo è stato soltanto accantonato il caso della cosiddetta “autonomia differenziata” richiesta da alcune regioni italiane, governate sia dalla Lega sia dal PD.

Un altro segnale di contraddizione stridente e di crisi.

Adesso è il caso di affrontare più direttamente il punto politico, partendo proprio da una valutazione della già richiamata gravissima crisi istituzionale che sta presentandosi all’interno del sistema politico italiano, sia sul fronte – appunto – dell’assetto interno, sia della politica estera.

All’interno di questo quadro di grandissima difficoltà si distingue un vero e proprio “buco nero” rappresentato dal fallimento dell’ipotesi di decentramento dello Stato imperniato sull’Ente Regione.

Un’ipotesi di decentramento dello Stato che sotto la denominazione già ricordata di “autonomia differenziata” oggi è affrontato proprio dalle Regioni economicamente e socialmente più forti, esattamente alla rovescia rispetto a ciò che servirebbe.

È già stato ricordato come la nascita delle Regioni, prevista nella Costituzione e poi fortemente richiesta dalle sinistre, in particolare nella fase del primo centrosinistra negli anni ’60, e fortemente ritardata dalla DC per timore che il Partito Comunista dimostrasse, in quel modo, la propria capacità di governo fu realizzata soltanto all’inizio degli anni ’70 (diversa ovviamente la storia delle Regioni a Statuto Speciale): le prime elezioni per i Consigli Regionali si svolsero, infatti, il 7 Giugno del 1970.

Gli elementi portanti della crisi attuale sono sorti, principalmente, nel corso della legislatura 1996-2001 con il centrosinistra al governo del Paese, attraverso l’adozione di due provvedimenti rivelatisi del tutto esiziali: l’elezione diretta del Presidente (da allora denominato da una stampa di basso profilo come Governatore) e il cedimento alle istanze “storiche” della Lega Nord attraverso la modifica (tecnicamente sbagliata e approvata dalla sola maggioranza) del titolo V della Costituzione realizzando così una sorta di né carne, né pesce tra decentramento e devolution.

La forte spinta che la Lega Nord aveva portato fin dalla fine degli anni ’80 prima sul terreno della “secessione” e dell’indipendenza e poi della “devolution” aveva così portato la sinistra, in particolare quella ex-PCI, a tradire la propria solida tradizione autonomistica che pure, negli anni’70 del XX secolo, alla guida delle più grandi città aveva dato prova di “buon governo”.

Una fase di vero e proprio cedimento e subalternità culturale chiusasi con l’affrettato cambiamento del titolo V della Costituzione (2001), preceduto appunto dalla modifica del sistema elettorale.

L’elezione diretta del Presidente della Regione e la modifica del titolo V della Costituzione hanno rappresentato gli elementi portanti di un fenomeno di tipo degenerativo che oggi si presenta in tutta la sua gravità: quello della trasformazione dell’Ente Regione dalla funzione legislativa e di coordinamento amministrativo a soggetto esclusivamente adibito a compiti di nomina e di spesa oltre che di propaganda politica spicciola e di deteriore incremento del meccanismo di personalizzazione della politica.

Personalizzazione della politica riservata, in questo caso,a personaggi degni al massimo di una valutazione di “aurea mediocritas” se non di tendenza verso la “questione morale” com’è capitato nel corso degli anni anche nelle due regioni più importanti dopo essere esplosa in Liguria fin dagli anni’80.

L’elezione diretta del Presidente di Regione ha, infatti, finalizzato per intero l’attività dell’Ente al progetto di rielezione dell’uscente oppure di un suo delfino favorendo l’elargizione a pioggia delle risorse, distribuendo le nomine per vie neppure partitiche ma di corrente o di “cerchio magico”, esaltando la logica di scambio all’interno stesso dell’Ente.

Hanno poi fatto registrare un fallimento clamoroso quei comparti affidati per intero alla gestione regionale: in particolare la sanità e i trasporti.

L’andamento della vicenda dell’emergenza sanitaria esplosa nel 2020 ha, se possibile, rafforzato questo giudizio negativo.

Nella sanità, attraverso il cedimento generalizzato verso un modello di privatizzazione naturalmente fortemente speculativa, si è elevato alla massima potenza il deficit, i servizi sono paurosamente calati di qualità, il clientelismo è stato elevato vieppiù a sistema.

Degli effetti della privatizzazione nella sanità se ne sono bene accorti sulla loro pelle gli operatori di prima linea nel corso di questi drammatici due mesi appena trascorsi.

Fattori non esclusivamente legati alla conduzione delle Regioni hanno inoltre determinato un ulteriore allargamento delle disuguaglianze sociali in diverse parti del Paese ed è questo un punto d’intervento politico completamente trascurato e che si sta pensando di risolvere con un rilancio in grande stile dell’assistenzialismo.

L’assistenzialismo si è confermato nella storia d’Italia il motore più forte di aggregazione del consenso, come dimostra la parabola del movimento che nel 2018 ha addirittura ottenuto la maggioranza relativa dei voti utilizzando un fenomeno di gigantesco “scambio politico”.

In conclusione: le Regioni sono assolutamente da ripensare in quanto Enti. Un ripensamento che non può certo verificarsi sul piano semplicisticamente propagandistico della cosiddetta “autonomia differenziata”.

L’Ente Regione rappresenta un vero e proprio “buco nero” nella crisi del sistema politico italiano ricordando anche che è rimasto in piedi il valore costituzionale delle Province confermato da un largo voto popolare che ne ha bocciata la riforma nell’ambito del (fallito) progetto di revisione costituzionale del PD (R).

Da rammentare ancora che sicuramente non sembra decollato il progetto delle “Città Metropolitane” (che, in Italia, per la gran parte non possono sicuramente essere valutate come “metropolitane”).

È necessario allora lavorare a una proposta di cambiamento aperta alla riflessione politica e alla partecipazione pubblica tentando di fornire una strumentazione in grado di sostenere i processi di innovazione territoriale, anche e soprattutto sul piano europeo, così come questi si sono configurati nel tempo recuperando la sostanza della qualità della contraddizione centro/periferia rivelatasi comunque essenziale da assumere nella particolare condizione della struttura politico – amministrativa del nostro Paese.

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