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04/11/2020

Scontro per il rinnovo del Contratto Nazionale dei metalmeccanici – Intervista a Dario Salvetti

Il 7 ottobre scorso, a distanza di pochi mesi dall’interruzione delle trattative sul contratto collettivo dell’agroindustria, è saltato il tavolo tra sindacati confederali e Federmeccanica per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di categoria. A seguito della rottura sono stati annunciati dei pacchetti di ore di sciopero. A margine di una di queste manifestazioni, L’Ordine Nuovo ha intervistato Dario Salvetti, lavoratore della GKN di Firenze, azienda del settore automotive che produce semiassi. Salvetti, attualmente RSU, fa parte dell’assemblea generale nazionale della FIOM e del direttivo provinciale FIOM Firenze.

Cosa pensi della rottura delle trattative sul CCNL metalmeccanico?

“Era solo questione di tempo. La piattaforma presentata da Fiom, Fim e Uilm chiede l’8% di aumenti salariali. Federmeccanica non ha nessuna intenzione di concederli. Né ora né in futuro. L’impostazione di Federmeccanica e di Confindustria è chiara. E non è nuova. È in linea con tutto quanto è stato firmato fino ad oggi: con il Patto per la Fabbrica e con lo stesso Contratto Nazionale dei metalmeccanici 2016. Per questo la richiesta di aumenti salariali non può che scontrarsi con una resistenza feroce del fronte aziendale.

Almeno sulla richiesta salariale, quindi, questo contratto nazionale si prospetta diverso dai precedenti. Ma una rondine non fa primavera. E soprattutto non può sopravvivere a un “autunno freddo”. Se l’impostazione sindacale generale non cambia, tale richiesta non regge. Rimane isolata e fine a sé stessa. E di conseguenza non genera il grado di mobilitazione di cui avremmo bisogno.

I lavoratori non sono un rubinetto che si apre e si chiude a proprio piacimento. Ovviamente sappiamo di avere bisogno di questi aumenti salariali. Non c’è bisogno che nessuno ci spieghi quanto ci siamo impoveriti. Ma ci siamo impoveriti anche a causa di anni di moderazione contrattuale e sindacale. Tale moderazione si è costruita le proprie argomentazioni negli anni: “di più di questo non si poteva chiedere”, “c’è la crisi”, “i lavoratori non ci stanno ad ascoltare” ecc. Va rotta complessivamente questa narrazione delle “compatibilità”, della “resa” e della rassegnazione.

Nel 2016 si è firmato un contratto pessimo, accettando di fatto di scambiare gli aumenti salariali con i “buoni carrello” e con il welfare aziendale. Le aziende ci hanno detto nel 2016 che “con la crisi non si possono dare aumenti”. E di fatto l’abbiamo accettato. Oggi non è forse addirittura peggiorato il contesto? Non è sufficiente quindi “sparare alto” sulla parte salariale. È necessario invertire una tendenza di anni.

Non lo diciamo per pedanteria, ma per finalità strettamente pratiche e necessarie alla lotta. Solo così è possibile mettere in campo i rapporti di forza di cui avremmo bisogno. Il 5 novembre è convocato lo sciopero generale dei metalmeccanici di quattro ore. Tale data è necessaria ma insufficiente. Deve essere una tappa verso una stagione di scioperi articolati, improvvisi, blocchi, picchetti, casse di resistenza, coordinamenti di delegati, unità tra lavoratori e altri settori colpiti dalla crisi.

Non dare un seguito adeguato al 5 novembre sarebbe un gesto di irresponsabilità politica e sindacale incredibile. Tutta la mobilitazione perderebbe di credibilità e il contratto nazionale finirebbe per impantanarsi.”

E per di più ci ritroviamo in un contesto di piena pandemia...

“Trovo impossibile portare avanti una lotta dura sul contratto nazionale senza intrecciarla con la questione della pandemia e della conseguente ricaduta sul piano sanitario e sociale.

E qua la mobilitazione rischia di avere il piombo nelle ali. Non si può essere radicali nello scontro contrattuale e moderati sul tema della pandemia e delle responsabilità di Governo e aziende.

Portare avanti scioperi e mobilitazione in mezzo a possibili focolai, lockdown parziali, restrizioni alla protesta, è possibile solo se ci dotiamo di un programma generale e di classe sul tema.

Ma qua lo scoglio è il rapporto con il Governo. C’è stata una timidezza enorme nel denunciare i limiti dell’azione di Governo. E anche il ruolo giocato da Confindustria sul tema della zona rossa in provincia di Bergamo.

Anzi, mi pare che all’interno dei vertici sindacali si sia vissuta anche nei confronti di Conte la sindrome del “Governo amico”. Mi sembra anche sia stata enfatizzata eccessivamente l’idea che la pandemia fosse affrontabile semplicemente con comportamenti individuali corretti e con i protocolli anti-contagio azienda per azienda.

Gel e mascherine sono importanti, ma – come tutte le misure di protezione individuali – hanno una efficacia solo se combinate con un contesto di misure sociali. È una considerazione di natura elementare.

Non sto sminuendo l’importanza del rispetto individuale delle misure di sicurezza, sia chiaro. Né della lotta nelle singole aziende per le misure di sicurezza. Tra l’altro, la piena applicazione del Testo Unico sulla Sicurezza già contiene e conteneva a mio modo di vedere tutto il necessario per pretendere misure di sicurezza adeguate. Spesso invece ci si è dimenticati di questa banale verità, ripetendo nei protocolli aziendali ciò che è già contenuto nel Testo Unico, rischiando così di pasticciarlo o derogarlo.

Sto dicendo semplicemente che questa pandemia mette a nudo un intero sistema sociale e necessita anche e soprattutto di misure sociali generali. I nodi sono almeno quattro: a) il blocco dei licenziamenti e il sostegno al reddito; b) la difesa e il rilancio della sanità pubblica; c) la lotta per l’istruzione pubblica; d) la patrimoniale e far pagare chi si è arricchito e si continua ad arricchire senza limite e pudore in piena pandemia.

Questi sono i temi al momento determinanti e prioritari nella testa di milioni di lavoratori. La lotta per il contratto nazionale dei metalmeccanici rischia di rimanere sospesa, quasi surreale, in questo contesto se non si intreccia a tali temi.

Le organizzazioni sindacali sono chiamate a mettere in campo un programma complessivo e di conseguenza una mobilitazione complessiva. Sono stati persi mesi, usando una narrazione criminale e stracciona che ha posto tutta l’attenzione sul capro espiatorio di turno: “runners”, i “giovani”, la movida ecc.

I nostri colleghi nel comparto dell’istruzione si sono visti scaricare addosso una situazione di totale impreparazione. I nostri colleghi nella sanità sono mandati ancora una volta al macello. Ci sono lavoratori che ancora non hanno ricevuto la cassa integrazione. Mezzo milione di lavoratori hanno già perso il posto di lavoro, nonostante il presunto blocco dei licenziamenti. Ma di cosa altro c’è bisogno per mettere in campo una mobilitazione generale?

E la nostra parola d’ordine non può essere il lockdown, negli stessi termini di marzo. Non possiamo nemmeno però accettare l’idea, avanzata da Conte su pressione evidente di Confindustria, che sia necessario tutelare “la salute e l’economia”. Questa affermazione è vergognosa e ipocrita. Vergognosa perché chiarisce definitivamente che per il capitalismo la salute è una variabile legata all’economia, cioè ai profitti. Nel discorso di Conte i due termini “salute e economia” stanno lì, uno a fianco all’altro, senza priorità e gerarchia.

Ed è un discorso ipocrita perché in verità quando si dice che bisogna tutelare l’economia non si pensa di certo ai piccoli esercenti o alle partite Iva o ai precari. Si pensa ai grandi gruppi economici e industriali. Si sta semplicemente dicendo che non si può fermare il grande capitale, anche a discapito della salute.

Per noi la salute viene prima di qualsiasi considerazione economica. Noi pretendiamo che l’economia risponda alla logica della tutela della salute. E questo vuol dire fare tutto il necessario per affrontare la pandemia: requisire le cliniche private, i mezzi di trasporto privati, le strutture alberghiere per permettere l’isolamento e limitare i focolai ecc.”

Cosa pensi delle dichiarazioni di Bonomi e del ruolo che sta svolgendo?

“C’è grossa indignazione per le dichiarazioni di Bonomi e per l’attacco frontale di cui si sta facendo portatore. Bonomi si atteggia a novello “Thatcher”. Il fronte padronale dietro di lui però sembra diviso. Attenzione, però, non è diviso sul “cosa fare”, ma sul “come”. Un settore di aziende non vede necessario ingaggiare con l’organizzazione sindacale uno scontro diretto e immediato.

Anzi, io credo che un pezzo di aziende si renda conto di come Bonomi stia offrendo involontariamente un terreno unificante alla mobilitazione operaia. Gli obiettivi sono chiari: abolire il salario-orario, procedere a una serie di licenziamenti e ristrutturazioni, estendere ancora di più il precariato, svuotare definitivamente i contratti nazionali, estendere il welfare aziendale in sostituzione degli aumenti salariali ecc. ecc.

Bonomi vuole ottenerli con uno scontro frontale, dove si dimostri una volta per tutte che l’organizzazione sindacale non è in grado di contrapporre alcuna resistenza. Appunto, alla Thatcher...

Un pezzo di aziende invece sa che può ottenere gli stessi obiettivi lavorando sotto traccia, scardinando i diritti dei lavoratori azienda per azienda, trattativa per trattativa, contratto per contratto. Qualcuno tra i dirigenti sindacali forse si era illuso che con il Patto per la Fabbrica o con i recenti rinnovi contrattuali si fosse raggiunto un nuovo punto di equilibrio con le aziende. Ma ogni arretramento chiama nuovi arretramenti. Il modello del welfare aziendale e degli enti bilaterali è un veleno che entra in circolo e distrugge l’idea stessa di organizzazione sindacale generale.

Perché rinnovare i contratti nazionali, magari con aumenti salariali generali, quando le aziende che tirano sono in grado di concedere premi di risultato, una tantum o pezzi di welfare aziendale con cui fidelizzare i propri dipendenti mentre il resto del mondo del lavoro – aziende in crisi, appalti, precari – è talmente schiacciato da disoccupazione e precarietà da non riuscire nemmeno a porsi il problema del contratto nazionale? Questo è il gioco che dobbiamo scardinare.

Ripeto, Bonomi pone la questione in forma diretta e immediata. Molte aziende sanno di poterci arrivare per altre vie. Vogliono ad esempio usare lo smart working per una serie di licenziamenti silenziosi e introdurre forme di lavoro a progetto.

Noi non ci dobbiamo mobilitare semplicemente contro l’“arroganza” di Bonomi ma contro l’intero modello confindustriale. Sia che esso abbia i modi rudi di Bonomi o quelli educati di qualche multinazionale “politically correct”.

A luglio è stato lanciato un percorso unitario che cerca di superare i limiti del sindacalismo di base e di quello confederale, per costruire una forma adatta ai tempi e ai rapporti di forza attuali. Cosa ne pensi di questo processo? L’area variegata dell’opposizione CGIL in parte ha partecipato sin dall’inizio, è auspicabile un maggiore coinvolgimento?

“L’area “Riconquistiamo Tutto” ha giustamente una propria fluidità e dialettica. Non è in discussione l’idea che siano necessarie forme di unità tra lavoratori, vertenze o settori del sindacalismo di base o conflittuale. Esistono enfasi diverse sul Patto d’Azione.

Io ad esempio credo di avere una idea ancora diversa da quella di molti compagni che partecipano a quel percorso. Per me il percorso del Patto d’Azione dovrebbe mettere apertamente a tema la questione del soggetto politico.

Di che cosa abbiamo bisogno? Di un Coordinamento di lotte? Tali coordinamenti sono utili. Ma spesso nascono rapidamente attorno a vertenze chiave e muoiono quando manca una lotta significativa o unificante. Di un fronte tra le organizzazioni sindacali? Ovviamente è auspicabile superare le divisioni sindacali, se esse non hanno ragione di merito.

Ma la verità è che esistono una miriade di differenze potenziali nell’attività sindacale. Di natura tattica, legata alle categorie di appartenenza, alla situazione delle singole aziende. Quale è il terreno unificante su cui tali differenze possono essere discusse? Quale è il punto unificante del percorso del Patto d’Azione al momento?

La combattività? La radicalità? Ma queste discendono a loro volta da una visione. La visione politica anticapitalista è il terreno unificante che guida quel percorso. Tra l’altro faccio notare che il percorso è aperto, giustamente, a realtà non strettamente sindacali. Faccio anche notare che a volte lo si definisce Fronte Unico di classe, altre volte Fronte Unico anticapitalista e altre volte ancora Patto d’azione.

Io credo che oggi l’assenza di un soggetto politico che sappia proporre un punto di vista di classe alternativo nell’intero dibattito politico sia un macigno enorme che pesa su qualsiasi mobilitazione sindacale. Si dice giustamente che non c’è un muro invalicabile tra attività sindacale e politica. Non c’è. Ma sono comunque due forme di lotta diverse. Si influenzano ma non si sostituiscono. E non si può pensare che l’azione politica emerga da una serie di convergenze sindacali, né che un’azione sindacale combattiva finisca per sostituire l’azione politica.

So perfettamente che il partito di classe non nasce a freddo. E nasce a seguito di mobilitazioni di massa che determinino una presa di coscienza profonda nella società. Ma questo soggetto non è all’orizzonte. Quello che invece è possibile, ed auspicabile, è superare la frammentazione della sinistra anticapitalista e radicale. Tutte le argomentazioni che vengono opposte a questa unificazione, astrattamente corrette in altri periodi, sono oggi intollerabili.

Un soggetto politico che abbia il minimo di massa critica per portare un punto di vista antisistema nel dibattito pubblico è un’urgenza irrimandabile. Questo è il compito su cui è necessario fare fronte. Ed è difficile immaginare un’altra forma organizzativa per un simile percorso che non sia di natura costituente.”

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