di Michele Giorgio
Un mandato di arresto per Donald Trump è scattato ieri a migliaia di chilometri da Washington, in Iraq. Niente a che vedere con l’assalto al Campidoglio di cui sono stati protagonisti migliaia di sostenitori del presidente Usa uscente. Un tribunale iracheno chiede di processare Trump come mandante dell’assassinio a Baghdad il 3 gennaio 2020, del generale iraniano Qasem Soleimani e del leader di Kataeb Hezbollah, Abu Mahdi al Muhandis.
Naturalmente a Baghdad nessuno, neanche lontanamente, immagina che Trump sarà consegnato alla giustizia irachena. Però il fatto che il mandato di arresto sia stato annunciato proprio ieri non poteva non spingere gli iracheni a metterlo in parallelo con lo stato della democrazia americana evidenziato dall’insurrezione filo-Trump. E sono fioccate sui social le battute non solo degli iracheni anche dei palestinesi, degli arabi in generale e di tutti coloro che hanno pagato a caro prezzo la teoria americana della democrazia da «esportare» anche con guerre, sanzioni economiche, distruzioni immense e migliaia di morti. «Siamo pronti ad inviare le nostre truppe per ristabilire la democrazia negli Usa», hanno scritto con sarcasmo in tanti.
Velenosi e non scherzosi sono stati i commenti delle autorità iraniane, in conflitto con gli Usa dai tempi della rivoluzione khomeinista e che arrivano da quattro anni di scontro duro con l’Amministrazione Trump. «Un presidente canaglia che ha cercato la vendetta contro il suo stesso popolo ha fatto molto peggio al nostro popolo – e ad altri – negli ultimi 4 anni», ha twittato il ministro degli esteri di Tehran Javad Zarif. «Ciò che disturba – ha aggiunto – è che lo stesso uomo ha il potere incontrollato di iniziare una guerra nucleare; una preoccupazione per la sicurezza dell’intera comunità internazionale». È la vendetta di chi è costantemente sanzionato e preso di mira dagli Usa. Sorridono a mezza bocca la Siria, altro paese piegato dalle sanzioni Usa. Ma dai vertici a Damasco non giungono particolari considerazioni su quanto accade negli Usa. Non hanno motivi per rallegrarsi. Anche le pietre sanno che la futura Amministrazione Biden adotterà una linea altrettanto dura di quella di Trump contro la Siria.
Spicca il silenzio dei leader delle monarchie arabe sunnite alleate di Washington. Ma non sorprende visto che ai vertici di quei regimi le disquisizioni sulla democrazia non sono di tendenza. «I popoli arabi al contrario non esitano a commentare, analizzare e anche a fare battute, come in questo caso» ci dice l’analista Ghassan Khatib «le politiche degli Stati Uniti sono condannate da gran parte delle persone in Medio Oriente. Non riguarda solo Trump, anche i suoi predecessori hanno scatenato guerre, ordinato bombardamenti aerei, sanzioni economiche. Gli Usa non godono di molti estimatori da queste parti».
«Addolorati» per l’attacco al Campidoglio si dicono tutti i leader israeliani, dal premier Netanyahu al capo dell’opposizione Yair Lapid. In coro hanno ricordato i «valori democratici» che unirebbero i due paesi. I fatti di Washington sono stati «vergognosi e vanno condannati con forza... Non ho dubbi che la democrazia Usa avrà il sopravvento», ha commentato Netanyahu che con Trump aveva messo in piedi un sodalizio senza precedenti che ha visto il presidente uscente regalare a Israele Gerusalemme e il Golan siriano e favorire accordi di normalizzazione tra quattro paesi arabi e lo Stato ebraico. Non è passato inosservato il ritardo con cui il primo ministro israeliano ha condannato le violenze a Washington e l’assenza nelle sue dichiarazioni di qualsiasi riferimento diretto al ruolo avuto da Trump nello scatenare i disordini.
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