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11/07/2021

Il “Mondo Nuovo”: la repressione nella democrazia tecno-liberista

Le immagini del video – circolato nei giorni scorsi su media, stampa, social – che ritraggono le guardie penitenziarie di Santa Maria Capua Vetere accanirsi, con sadico piacere di aguzzini, sui detenuti di quel carcere (finanche su quelli costretti in sedia a rotelle) che avevano protestato, lo scorso anno, per il logico timore che si potesse verificare una rapida diffusione del Covid – sono la rappresentazione plastica di Corpi di Polizia sempre più fuori controllo.

Sempre più pervasivi e dunque concepibili quali gangli indispensabili della governance occidentale e neoliberista che disciplina, ormai, ogni settore delle nostre esistenze.

Corpi di Polizia, dunque, sempre più dotati di potere autonomo e discrezionale, sempre più impuniti ed esenti dal rispondere a un supposto vertice politico sulla catena del comando.

E peraltro sempre pronti a coprire ogni nefandezza...

Corpi di Polizia, dunque, per molti versi assimilabili a squadroni della morte di stampo fascista.

Sono immagini, quelle viste nel carcere sammaritano, che evocano e possono benissimo sovrapporsi a quelle delle brutalità compiute dalla Dina cilena di Pinochet, dalla Tripla A durante la dittatura della Junta in Argentina, dalla Falange del Maggiore D’Aubuisson in Salvador, dai Contras in Nicaragua.

O da qualunque altro corpo speciale creato, a fini repressivi, da uno Stato che rilasci un assegno in bianco alle forze dell’ordine e su cui la cifra e l’intensità delle violenze e delle torture venga costantemente aggiornata al rialzo.

Sono immagini che ricordano, alla vigilia del ventennale del G8 di Genova, la macelleria messicana della Diaz o il massacro dei diritti e dei corpi dei compagni nella caserma Bolzaneto.

Non a caso presidiata proprio dalla Polizia Penitenziaria, medici compresi...

Immagini che confermano, insomma, la natura perversa, violenta e vendicativa dell’ideologia punitiva e del controllo capillare, legata alle logiche disciplinatrici del Capitale.

La stessa natura di quelle strutture carcerarie che, con il reinserimento e la rieducazione a fini sociali, nulla più hanno a che vedere; ma molto hanno, invece, a che fare con l’annientamento della persona umana e con le più feroci forme di vessazione dell’individuo.

La stessa natura, infine, di una classe dominante, liberal-borghese e perbenista che, nell’autodifesa del proprio privilegio ritiene esserci una parte della società che difetti di qualità propriamente umane.

Ovviamente, quella costituita dalle classi subalterne, dai ceti popolari, ancor peggio se immigrati, e da coloro che non si uniformano al dettato politico-economico imposto dalle élite.

Quella che sopravvive o si pone volontariamente ai margini del consesso civile, “aggiustandosi” ai margini della sfera produttiva e della sua conseguente “legalità”.

Malthusiane tipologie di minus habens che, nell’ottica dei ceti dominanti, vanno rinchiuse in carceri, manicomi o in altri perimetri “rieducativi”. Nei quali comprimere sempre più gli spazi, a maggior ragione quelli mentali.

Luoghi dove poter “raddrizzare“ questi ampi settori sociali con isolamenti, manganelli, botte, torture, elettrodi e waterboarding. O, se donne, casomai, con qualche stupro.

Luoghi, insomma, dove poter editare in forma “tecno” la versione liberista del bastone e della carota di mussoliniana memoria.

E nulla conta, sul piano almeno della coerenza, se la stessa società liberal-borghese insorge poi indignata, gridando alla violazione dei diritti umani, quando un mafioso di Miami o un nazista ucraino vengono arrestati a Cuba o in Bielorussia.

È lo stesso establishment che definisce “antidemocratica e violenta” la polizia venezuelana, costretta a fronteggiare squadre di killer sovvenzionate dagli Usa, per seminare il panico nelle strade di Caracas e fomentare un golpe contro il governo bolivariano di Maduro.

Insomma, il più classico esempio dell’ipocrisia democraticista a geometria variabile.

Purtroppo, da quelle logiche punitive, securitarie, repressive e violente non sono stati e non sono esenti molti “sinceri comunisti”.

L’ideologia del carcere, della caserma a cielo aperto e della rieducazione col manganello appartiene, di fatto – ci piaccia o no – anche a molte esperienze ascrivibili al socialismo reale.

Ed è stata tenacemente propugnata, soprattutto in Italia, da molti cosiddetti compagni.

Il Pci ne ha costituito il campione più fulgido.

Con Togliatti che, dopo la guerra, faceva arrestare quei partigiani che non volevano posare le armi e il cui obiettivo era combattere contro la restaurazione della democrazia borghese, fino alla creazione di una Repubblica Italiana dei Soviet.

O con l’ineffabile Berlinguer, che ha sostenuto lager come l’Asinara, la deriva securitaria delle carceri speciali, la torsione incostituzionale della legislazione emergenziale – con l’istituzione dapprima dell’articolo 90, successivamente sostituito da quel 41bis contro cui si sono più volte sollevate eccezioni di incostituzionalità – e addirittura la tortura sui prigionieri politici delle Brigate Rosse e di altre formazioni combattenti per il comunismo, negli anni ’70/’80.

Sussunti nel dogma della statolatria e avviluppati nelle spire del modello produttivo mercantile da difendere ad ogni costo; sedotti dal potere personale; o anche pervicacemente legati ad una rigorosa applicazione di principi dottrinari, molti, troppi autoproclamatisi comunisti hanno assunto il punto di vista della giustizia borghese in materia di diritto e di legalità.

Finendo spesso con lo sposare la diarchia della Legge e dell’Ordine.

D’altra parte, fu proprio uno di costoro, il “compagno” Oliviero Diliberto, che – in qualità di Ministro di Grazia e Giustizia durante il Governo di centrosinistra presieduto da Massimo D’Alema – istituì, nel 1999, il corpo speciale dei Gom (Gruppo Operativo Mobile) che risponde direttamente al Capo del Dipartimento della Polizia Penitenziaria.

Confermando la vocazione securitaria e repressiva di una non irrilevante schiera di cosiddetti comunisti democratici. Quantomeno qui in Italia.

Proprio quei Gom, guarda caso, che si sono resi protagonisti della mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Del resto, il controllo sociale, la repressione di qualunque forma di conflitto e la censura imposta a qualsivoglia voce dissonante col pensiero unico dominante o a qualsiasi vagito di cultura antagonista – fattori che hanno attraversato, come una costante, questi ultimi quarant’anni, subendo poi un’accelerazione negli ultimi venti, dalle Torri Gemelle in poi – hanno visto in prima linea ampi strati della indecorosa “sinistra” italiana.

Che ha finito col rincorrere – soprattutto attraverso il suo legame con uomini e pezzi fondamentali della Magistratura, spesso addirittura candidati alle elezioni – la destra più reazionaria, giustizialista ed estrema sui temi della “legalità”.

Riuscendo, ed è storia presente, persino ad anticiparne le pulsioni forcaiole, con il famigerato Decreto Minniti in materia di sicurezza. Come se una normativa parafascista, fatta da un “partito di sinistra”, fosse in qualche misura meno infame e grave.

Una deriva coercitiva, censoria e normalizzatrice, sul piano sociale e culturale, che non solo non sembra trovare fine, ma che si perfeziona e inasprisce giorno dopo giorno.

Quanto successo, ad esempio, circa un mese fa, al compagno e amico Paolo Persichetti è qualcosa che va ben oltre il perimetro concettuale della semplice repressione.

La perquisizione della sua abitazione, il conseguente sequestro di tutto il materiale archivistico-documentale, dei libri, del corpus di carte necessario per la sua ricerca storica, in uno con la confisca di ogni dispositivo – Pc, smartphone, tablet – in cui sono contenute non solo le tracce del suo lavoro di storico e ricercatore, ma persino i frammenti intimi della sua vita, personale e familiare (non dimentichiamo che Paolo ha un figlio tetraplegico, e anche tutta la documentazione afferente alla malattia del bambino è finita sotto sequestro) nonché le susseguenti accuse di favoreggiamento e addirittura di associazione sovversiva a fini di terrorismo, confermate – ed è l’aspetto più grave – dal Tribunale del Riesame, spalancano scenari terrificanti, e disegnano nuovi e ben più asfissianti confini per quelle che, oramai sempre più solo teoricamente, si possono definire “libertà democratiche”.

Come se la ricerca storiografica e l’accertamento della verità possano rappresentare un pericolo per la collettività e per lo Stato.

Una simile assurdità la può concepire, diciamolo chiaramente, solo un governo autoritario.

E quest’Italia, quest’Europa e questo Occidente, a trazione neoliberista, somigliano sempre più ad un regime, nel quale il principio di legalità assoluto è divenuto un Moloch cui informare non solo la norma “socialmente accettabile”; ma addirittura il paradigma su cui declinare un’etica di ispirazione metafisico-statuale, da cui espungere qualunque ratio democratica di giustizia, conformata sui canoni del tanto decantato diritto liberale.

Per tacere di auspicabili e non più rintracciabili barlumi di sentimento umano e collettivo.

Ricordo, d’altronde, che il mio professore di Filosofia del diritto, spiegandoci la differenza tra Stato di legalità e Stato di diritto, portava ad autorevole esempio del primo lo Stato Nazionalsocialista!

Potremmo dunque definire il principio di legalità assoluto, un cancro in proliferante metastasi nel corpo della democrazia occidentale.

Basti pensare, d’altro canto, all’irrazionale torsione compiuta, sul piano del linguaggio, dalla comunicazione social.

Piazza virtuale dove impera la logica binaria e il giudizio assoluto e assiomatico, ostile al reale e alla sua complessità problematica, plasmato proprio sulle più diverse esegesi del principio di legalità, nell’affrontare temi di carattere politico-sociale.

Esegesi, evidentemente, rispondenti sempre ad individuali visceralità e a sovradeterminate pulsioni, mescolate a guazzabugli ideologici che poco o nulla attengono a reali culture politiche, e con cui alimentare derive sempre più destrorse.

Una sete di manette, forca e sangue che tracima da ogni bacheca.

Fomentata, vieppiù, proprio dall’algoritmo di Facebook, che addirittura invita gli utenti a denunciare chiunque sia in odore di... estremismo. Come se fosse un’ideologia “in sé”, anziché un’assolutizzazione di una qualunque visione del mondo o addirittura passione (certi tifosi di calcio, diciamocelo, non vi sembrano proprio degli invasati estremisti? Si scherza, certo, ma di passo in passo ci si può arrivare...)

Ciò che però rende il tutto grottesco o, peggio, terrorizzante, è la motivazione sentimentale che sottende questo nuovo dispositivo.

In pratica, l’algoritmo agirebbe a fin di bene, consentendo, a chi sia preoccupato per la sbandata estremista presa da un amico o un familiare, di riportarlo sulla retta via. Denunciandolo!

L’infamità della delazione dai contorni amorevoli. Lo spionaggio elevato a sistema relazionale “positivo”...

Ma Facebook va addirittura oltre, mettendo a disposizione contatti con eventuali comunità di recupero. Per intossicati dall’”estremismo”.

In poche parole, una specie di San Patrignano per il reindirizzo ideologico. Ma di quali ideologie parliamo?

Bisogna riconoscere che la cosa, al di là dei suoi aspetti allarmanti, o ridicoli, ha un che di geniale. Sebbene non molto originale.

Chiusi, infatti, in un Panopticon virtuale dove tutti spiano tutti, viviamo ormai una realtà concentrazionaria coartiva e angosciosa che va ben oltre l’analisi foucaultiana sulla microfisica del potere.

Trovano concretezza le più attuali analisi, elaborate dal filosofo sud coreano Byung-chul Han, sulla psicopolitica e le nuove tecniche del potere neoliberista.

La distopia, in definitiva, è diventata la nostra attualità. Il nostro presente supera di una spanna la romanzesca narrazione orwelliana.

Siamo all’alba di quel Mondo Nuovo, mirabilmente descritto da Aldous Huxley, il cui motto era “Comunità, Identità, Stabilità”.

E nel quale la produzione in serie – intesa non solo come organizzazione del lavoro in fabbrica ma anche come possibilità di selezione e ottimizzazione umana – il controllo mentale, l’eugenetica, le tecnologie riproduttive, erano dispositivi usati per forgiare un nuovo modello di società.

Huxley faceva riferimento a quella società fordista che, negli anni di uscita del libro, stava mutando significativamente non solo i parametri del Modo di Produzione Capitalistico, ma persino il profilo socio-culturale del ‘900.

Ebbene, noi possiamo dire di trovarci in una società postfordista in cui tutto, finanche il singolo individuo, è ridotto a merce.

Mentre la nuova frontiera del controllo psicopolitico non si impone con divieti e non ci obbliga al silenzio. Anzi.

Essa ci invita di continuo a comunicare, a condividere, a esprimere opinioni e desideri, a raccontare la nostra vita.

Ci seduce con un volto amichevole. Mappa la nostra psiche e la quantifica attraverso i big data. Ci stimola all’uso di dispositivi di automonitoraggio. Ci costruisce un profilo stabile, e lo vende a molti offerenti...

Nel panottico digitale del nuovo millennio – con internet e gli smartphone – non si viene torturati, ma twittati o postati.

Il soggetto e la sua psiche diventano produttori di masse di dati personali costantemente monetizzati e commercializzati.

Siamo, insomma, immersi nell’epoca di un’aporia ontologica.

Dove alla più totale pornografia culturale fa da contraltare una violenta autocensura del pensiero critico. Un paradosso perfetto!

Usando un’immagine allegorica, potremmo dire che siamo nudi robot erotomani che galleggiano tra gli scarti della Storia e dell’Umanità.

Macchine controllate da algoritmi.

E in questo mondo nuovo, dominato dal turbocapitalismo schizofrenico e paranoide, vittimista e guerrafondaio, avido e famelico di corpi e di menti da ingurgitare, la cessione della propria libertà, della propria indipendenza, della propria soggettività alle necessità della governance tecnocratica, è divenuta un obbligo.

Le libertà democratiche e costituzionali, nate con l’Illuminismo e il diritto borghese – che pure come comunisti intendiamo superare, in quanto presupposti giuridico-filosofici di forme di governo liberali, piegate alle esigenze di mercato, proprietà privata e individualismo – rappresentano ormai solo un simulacro. Cui non si inchinano più neanche i fedeli dichiarati.

Un alibi per i detentori del Potere che ne evocano la copertura, un giorno sì e l’altro pure, ad esclusiva tutela dei propri interessi economici, politici e intellettuali.

Ma di cui si può evidentemente fare a meno quando a reclamarne la validità e la vigenza sono i ceti subalterni. O quegli intellettuali liberi che non praticano l’ossequio all’omologazione nella circolazione delle idee.

Ceti sociali e intellettuali, più o meno organici a quella classe, cui non è concesso contestare misure politiche o dispositivi di controllo che mettano a rischio la sopravvivenza materiale delle persone, ne violino sistematicamente i diritti o ne impediscano la piena libertà di espressione.

È così che il pregevole lavoro di decostruzione e ricostruzione storica, rigoroso e puntiglioso, portato avanti da Paolo Persichetti sugli anni ’70, la lotta armata e soprattutto sulle Brigate Rosse, con la pubblicazione di articoli e libri, diventa un lavoro che, palesemente, costituisce un “pericolo” per chi detiene qualche piccola leva del potere.

Per chi, cioè, ha tutto l’interesse che quella Storia rimanga sepolta sotto un cumulo di menzogne.

Ci riferiamo, ovviamente, innanzitutto agli eredi di quella Dc e di quel Pci che, già all’indomani del rapimento di Aldo Moro, si misero all’opera per la creazione di un’architettura narrativa che controvertisse la veridicità materiale degli eventi e della Storia.

Quarant’anni durante i quali, prima il Pci e la Dc, e successivamente i loro eredi, hanno inquinato fatti, alterato testimonianze, mistificato eventi, prodotto teoremi e narrazioni surreali sul conflitto sociale che ebbe luogo in Italia negli anni ’70.

Quarant’anni durante i quali – contemporaneamente – lo Stato ha assolto sé stesso per le stragi compiute con l’ausilio di manovalanza mafiosa e fascista.

Quarant’anni durante i quali si è preteso di occultare il fatto che in Italia ci fu una guerra civile a bassa intensità.

Una guerra civile dichiarata innanzitutto dalla concentrazione di potere allora esistente contro il movimento operaio, contro i ceti subalterni, contro le organizzazioni comuniste extraparlamentari e antagoniste (che peraltro, nel 1969, ancora non avevano prodotto particolari forme organizzative considerabili “pericolose”).

Quarant’anni durante i quali si è costruita una narrazione tossica e di comodo su quel contesto e quegli eventi, raggirando i cittadini.

Sono quarant’anni che, soprattutto ex esponenti del Pci e qualche mestatore attirato dal guadagno, rimestano in un torbido che è solo la proiezione della loro cattiva coscienza.

Un filone complottista sbugiardato da una storiografia seria e puntuale, prodotta da storici di vaglia che sembrano a volte i veri bersagli dell’”avvertimento” sperimentato su Persichetti.

Questo Mondo Nuovo non ci piace. E noi siamo qui per lottare e sovvertirlo!

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