di Francisco Soriano
Dalle storiche elezioni del 1989 che sancivano la fine del comunismo, mai si erano viste in Polonia elezioni politiche così partecipate e affluenze record ai seggi elettorali come negli ultimi tempi. Più del 60% della popolazione si è recata al voto in ottobre dell’anno scorso per le elezioni legislative e, quest’anno, per il ballottaggio presidenziale fra il leader nazionalista Andrej Duda e lo sfidante liberale Rafal Trzaskowski: quest’ultimo ha perso di misura il confronto, a dimostrazione di quanto la Polonia sia divisa in due blocchi decisamente contrapposti.
La questione più rilevante è che il conservatore Duda ha annunciato più volte la prosecuzione di un piano di riforme improntato al rispetto della tradizione e dei principi religiosi del popolo polacco. L’obiettivo è di intervenire sulla giustizia, sull’interruzione della gravidanza e sui diritti rivendicati dalla comunità Lgbtq. Un’idea di società che appare, anche ai più moderati analisti politici, come una scelta oscurantista che compromette molto seriamente la tenuta dei diritti civili e umani, soprattutto delle donne. L’onda populista e nazionalista legittimata dal consenso elettorale ha una storia abbastanza preoccupante in Polonia. Nel 2015 la destra del PIS aveva vinto le elezioni con la solita retorica intrisa di conservatorismo sociale, con accenti provinciali e beceri e la promessa di aiuti finanziari che avrebbero aumentato le spese pubbliche dello Stato. L’immissione nel sistema finanziario polacco di risorse economiche ricevute da Bruxelles ha determinato un miglioramento del tenore di vita delle fasce sociali più fragili. Inoltre una delle soluzioni chiave del successo è stata l’introduzione di un sussidio generale per chi aveva figli. La riuscita di queste politiche è avvenuta nelle aree rurali e nelle piccole città dove le effettive difficoltà economiche aggredivano maggiormente le famiglie. La propaganda è stata allestita sotto il vessillo della riscoperta dei valori della famiglia e della chiesa, quest’ultima presentata come l’ultimo baluardo salvifico alla crisi identitaria della Polonia e dell’Europa. Per questi motivi una parte consistente dell’elettorato, composto dai ceti meno abbienti e dagli anziani rappresenta oggi una base solida in termini di consenso politico: un serbatoio di voti abbastanza sicuro per la destra conservatrice polacca.
Il populismo in Europa non ha smarrito la sua potente fase originaria e, anche in Paesi come l’Ungheria, mostra il suo volto più violento. Vengono aggredite, non solo verbalmente, le comunità di coloro i quali vengono considerati diversi o corruttivi dell’etica dei padri e della tradizione. In Polonia Jarosław Kaczyński il leader del PIS, già partito di governo, è stato nominato vice-primo ministro di Mateusz Morawiecki. Kaczyński rappresenta la vera eminenza grigia del potere, peraltro cofondatore del PIS, acronimo di “Diritto e Giustizia”. Egli non perde occasione di attaccare e rilanciare politicamente le sue idee su questioni valoriali e di etica sociale, fondando la sua critica alla società contemporanea rappresentandola come permeata da corrosive forme di degrado umano. Inoltre egli esprime di continuo l’intenzione di intraprendere, in modo sempre più deciso e preoccupante, la battaglia contro “l’ideologia Lgbt”. A suo dire questa sorta di “calamità sociale” ha già “distrutto altre società europee. Coloro che non hanno combattuto – e ci sono diversi esempi in Europa – hanno perso. Io non voglio perdere contro quella che considero una minaccia alla nostra civiltà. Questa tendenza, che in questo momento ci sta attaccando con forza, deve essere affrontata in modo ragionevole. E questo non significa non combattere o farlo in modo leggero o senza utilizzare in modo adeguato le risorse dello Stato. Sono favorevole a contrastare queste minacce alla nostra società in modo attivo, perché le esperienze di passività portano ai risultati che abbiamo visto altrove”. Dopo queste dichiarazioni e di altre prese di posizione particolarmente aggressive degli altri leader della destra polacca, l’influente arcivescovo della Chiesa cattolica, Wojciech Polak, percependo il profondo solco scavato dalle istituzioni governative nella società civile, ha voluto spezzare una lancia in favore di una ragionevole conciliazione fra tutte le forze politiche del Paese con un appello diretto proprio a Duda: “nella situazione in cui vediamo costante discordia, divisioni, fratture nella società, lui dovrebbe essere una figura unificante, il presidente di tutti i polacchi”.
La questione però non è risolvibile con dichiarazioni o atti di buona volontà. È la visione di futuro nella conduzione e nella gestione del Paese che minaccia seriamente le conquiste civili e la difesa dei diritti delle donne. Infatti il progetto sociale del PIS ha messo in allarme leader e istituzioni europee: ci si spaventa soprattutto delle controverse riforme che hanno seriamente pregiudicato l’indipendenza della magistratura e dell’informazione. Tutti sono consapevoli che questi baluardi democratici non possono essere sottoposti a negoziazioni o mutazioni perché proprio dalla critica e dalla capacità di una libera dialettica, la democrazia trae la linfa vitale per realizzarsi nella sua pienezza. Il sostegno popolare alle destre non è venuto meno neppure dopo una raffica di scandali, accuse di corruzione e abuso di potere che diversi politici e amministratori del PIS hanno subito durante la campagna elettorale. Nelle scorse elezioni politiche, Kaczynski ha portato a casa risultati rilevanti ottenendo la maggioranza della Camera bassa, la Sejm. Non ha tuttavia realizzato lo stesso successo al Senato dove i numeri sono molto risicati seppur a suo favore. E l’opposizione? Il partito di Donald Tusk, liberale ed europeista a capo della Coalizione Civica si è ben distinto al Senato, risultando invece molto debole alla Camera bassa. La coalizione di sinistra chiamata Lewica ha una buona presenza nella Sejm, ma soltanto due seggi al Senato. Partiti minori dell’ultradestra rimangono invece una minoranza e ai margini delle altre compagini governative.
La Polonia si distingue, in Europa, per la sua strategia politica connotata da una enorme dose di ambiguità. Da una parte le forze governative continuano a vagheggiare un forte euroscetticismo, soprattutto in termini di valori politici e civili mentre, dall’altra, usufruiscono dei vantaggi per i fondi strutturali europei ricevuti negli anni: 86 miliardi fra il 2014 e il 2020. La crescita esponenziale dal punto di vista economico è dovuta, soprattutto, a questa immissione di denaro in un Paese che era uscito davvero malconcio dalla sua storia passata. Le risorse europee non sono affatto un fattore negativo, ma l’atteggiamento di Kaczyński e i suoi sodali che non mancano occasione di attaccare l’Europa per poi indietreggiare quando è necessario in termini di convenienza, con una collaudata politica da equilibristi circensi, desta una seria riflessione. Una contraddizione che viene però a galla anche per gli interventi della von Der Leyen, indispettita dalle strategie dei Paesi del blocco di Visegrad 4, inclini alla retorica critica nei confronti delle ideologie social-globaliste di Bruxelles. La strategia ambigua dei governanti polacchi non si ferma solo a queste dinamiche in seno all’Europa. I progetti di espansione economica creano vari disagi anche ai Paesi dell’Unione, perché le loro strategie consentono facili delocalizzazioni di imprese con benefici fiscali e accesso al credito bancario davvero enormi. La delocalizzazione avviene in tranquillità, in un Paese vicino e con una certa affidabilità. L’Italia è una delle vittime di queste politiche ben orchestrate dalla Polonia che ha stabilito una tassazione al 19% e con la prospettiva di non aumentarne in futuro la richiesta. In questo contesto sono state consolidate ben 14 zone economiche definite “speciali” con agevolazioni fiscali per gli investitori esterni, con il solo obbligo di assumere in loco per almeno 5 anni e investendo la cifra minima di 100.000 euro. Attualmente in Italia fa discutere la delocalizzazione del “Gruppo Elica”, un esempio fra i tanti e ultimo in ordine cronologico, leader nel settore delle cappe da cucina. Dalle Marche, il centro propulsivo della fabbricazione, ha deciso di delocalizzare in Polonia trasferendo le attività lavorative allo stabilimento di Jelcz-Laskowice. La tesi dei dirigenti dell’azienda è sempre la stessa e ricorrente in occasioni come queste: è un provvedimento e una “condizione necessaria per salvaguardare il futuro del Gruppo”. Per i 400 lavoratori italiani invece la logica è semplicemente quella del profitto, senza alcuna motivazione riscontrabile nel settore che non sembra aver sofferto della crisi di questi ultimi mesi.
Poche settimane fa più di 200 firmatari fra rappresentanti della società civile polacca, studiosi e giurisperiti hanno redatto una lettera diretta alla Commissione europea. I firmatari avanzano accuse gravissime nei confronti dei gruppi dirigenti governativi che, attraverso minacce e restrizioni nei confronti dei giudici, trascinano la Polonia in un vortice autoritario, privo di dialettica politica con il fine di silenziare la giustizia e l’attività dei tribunali. La richiesta contenuta nella missiva a Ursula von der Leyen e ai commissari Vera Jourová e Didier Reynders è il deferimento della Polonia alla Corte di Giustizia europea per il “funzionamento” della sua Camera disciplinare. In pratica i giudici che cercano di applicare la legge del diritto europeo corrono il rischio di venir accusati di commettere crimini con la minaccia di subire misure restrittive. La Commissione ha risposto con un parere sull’applicazione della “legge museruola”, redatta per restringere le attività della magistratura polacca: chiedeva l’immediata sospensione entro il 21 febbraio del 2021. Le autorità polacche non solo hanno ignorato la richiesta di sospensione, ma hanno continuato a non rispettare le condizioni minime di uno stato di diritto nell’applicazione delle leggi, non solo nei confronti dei cittadini ma soprattutto dei propri giudici. Nella missiva inviata alla Commissione così si legge: “Allo stesso tempo, le autorità polacche hanno significativamente e deliberatamente aumentato le loro attività volte a produrre effetti legali irreversibili e organizzare una violazione permanente della richiesta europea di una magistratura indipendente”. Una situazione che allarma anche per le intenzioni dei parlamentari polacchi che vorrebbero apportare emendamenti alla legge sulla Corte suprema: alcuni vorrebbero che il presidente polacco venisse autorizzato a nominare nella Corte presidenti ad interim delle camere senza elezioni.
In questi mesi una forte coscienza popolare e femminista sta reagendo alla deriva conservatrice del Paese. La proposta di una totale abolizione dell’aborto getta ombre sulla possibilità che ci possa essere una dialettica con le forze governative sulle questioni che riguardano i diritti delle donne. L’interruzione di gravidanza è già operativa in Polonia anche se limitata a soli tre casi: pericolo di vita della madre, stupro e gravissima malformazione del feto. Le proteste delle donne e dei movimento per i diritti di genere sono un segnale che lo stesso Duda ha percepito come un pericoloso rafforzamento delle opposizioni: per questo motivo si è affrettato a proporre una modifica che consiste nel dare la possibilità di abortire solo quando la diagnosi prenatale accerti che il feto possa nascere morto. Le donne sono scese in piazza con il movimento dello “Straik Kobiet”, che ha finalmente posto in luce una reazione che ha avuto un’eco internazionale al di fuori dei confini polacchi. Una svolta e una soluzione che lascia ben sperare e riporta sotto la lente d’ingrandimento la questione dei diritti umani nell’Est d’Europa.
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