Con un’inflazione al 7% in Italia – l’8% nell’eurozona – le autorità economiche del paese dovrebbero essere preoccupate per la prevedibile caduta dei consumi, che trascinerà con sé buona parte delle attività economiche minori (piccole e medie imprese produttive, ristorazione di livello “popolare”, turismo familiare, ecc.).
Non serve infatti un premio Nobel per capire che il potere d’acquisto della gran massa della popolazione – quella che vive di salario o pensioni – scende in proporzione esatta con l’aumento dei prezzi. Specie se i salari restano fermi o addirittura, come avvenuto negli ultimi 30 anni, arretrano.
In questo scenario abbiamo almeno tre soggetti principali che occupano la scena e determinano, ognuno a proprio modo, il risultato finale.
Il protagonista più spietato ed ottuso è ovviamente il mondo delle imprese, con Confindustria come leader. Questo “soggetto” ha come unica preoccupazione l’aumento esponenziale dei margini di guadagno “individuale” (ogni singola impresa) e se ne frega totalmente delle ricadute sistemiche del suo agire. Come si usa dire, se dovessimo rintracciare la “responsabilità sociale” degli imprenditori servirebbe un cane da tartufi. Ma bravo...
Una autentica confessione involontaria è arrivata dal loro presidente, Carlo Bonomi, che probabilmente non si rende più conto di quel che dice, convinto dai salamelecchi giornalistici di avere comunque sempre ragione.
“Quando cerchiamo i giovani per dargli lavoro abbiamo un grande competitor che è il reddito di cittadinanza“, ha detto dall’assemblea di Assolombarda.
Facile fare i conti: se il reddito di cittadinanza – 780 euro come massimale, 580 percepito in media – è una soglia “competitiva” con i salari offerti dalle imprese legali (quelle illegali non fanno contrattazione...), quanto vorrebbe pagare i dipendenti? La stessa cifra, par di capire, o anche meno.
Qualunque sia questo livello salariale, comunque, il discorso di Confindustria è chiarissimo: alle imprese non va chiesto nulla, se mai va dato ancora di più e il peso dell’inflazione va scaricato integralmente sui salari.
La loro idea di “concorrenza”, per erodere quote di mercato nell’eurozona o nel mondo, come sempre, sta tutta e solo nei salari bassi, bassissimi, i più bassi d’Europa (Grecia a parte, non a caso).
L’altro soggetto centrale è il governo e l’insieme delle istituzioni economiche. Qui il ragionamento dovrebbe essere più articolato, perché in fondo le istituzioni sono lì per rappresentare formalmente interessi sociali differenti – imprese, lavoratori, pensionati, studenti, non autosufficienti, ecc. – con l’obiettivo di tenere insieme una società il più possibile “armoniosa”.
Il problema è però che i criteri usati sono quelli suggeriti dal neoliberismo imperante da oltre 30 anni, nella versione “ordo” imposta dala Germania a tutto il sistema europeo. E dunque, scorrendo le conclusioni del governatore della Banca d’Italia, emerge che, pur comprendendo gli effetti sociali dell’inflazione – “I rincari dei beni agroalimentari e le difficoltà nel loro approvvigionamento rischiano di colpire soprattutto gli strati più vulnerabili della popolazione mondiale e i paesi più dipendenti dalle loro importazioni” – nulla deve esser fatto per ridurre quantomeno il danno che l’aumento dei prezzi provoca sui salari.
Anzi, proprio quegli effetti vengono ritenuti “benefici” nel medio termine, perché concorrerebbero a determinare una riduzione dei prezzi stessi. Leggiamo: “Il peggioramento delle ragioni di scambio e la perdita di potere d’acquisto tenderanno a contenere la domanda finale, attenuando la pressione sui prezzi. Non va però trascurato il rischio di un aumento delle aspettative d’inflazione oltre l’obiettivo di medio termine e dell’avvio di una rincorsa tra prezzi e salari”.
Si potrebbe far notare al Governatore, se non si offende, che un’inflazione esogena come quella dei beni energetici, causata non da un “eccesso di domanda”, ma da uno choc di offerta – la guerra che limita per ragioni politiche e militari le fonti di approvvigionamento – non ha quasi nessuna possibilità di essere ridotta, neanche se i poveracci stringono oltremisura la cinghia.
Tanto più se, come ora, i prezzi che salgono sono gli stessi in tutto il pianeta (quelli energetici e di altre materie prime, specie alimentari) e poi finiscono per scaricarsi, in misura tutto sommato omogenea, in ogni paese del mondo, quale che sia il suo sistema economico.
Insomma, se anche si portano alla fame 50 milioni di cittadini italiani, “il mercato” quasi non se ne accorge. E quei prezzi continuano a restare alti lo stesso.
Visco lo sa benissimo, tanto da scrivere: “L’aumento dei corsi delle materie prime non può essere contrastato direttamente dalla politica monetaria. Quello che la politica monetaria può fare è assicurare la stabilità dei prezzi nel medio termine, preservando l’ancoraggio delle aspettative d’inflazione e contrastando vane rincorse tra prezzi e salari.”
Tradotto: su quei prezzi non ci possiamo fare niente, ma se teniamo i salari fermi prima o poi un nuovo equilibrio si crea. In definitiva, insomma, anche per Bankitalia e governo il peso dell’inflazione va scaricato integralmente sui salari.
Il terzo soggetto sono – sarebbero – i sindacati di regime, CgilCislUil. Che cominciano a sentire qualche malumore tra i lavoratori che teoricamente dovrebbero rappresentare e, dunque, accennano a parlare di qualche adeguamento salariale, anche parziale e una tantum. Quel che basti, insomma, a salvare la faccia davanti ai “rappresentati”.
Ma al di là di qualche chiacchiera nei talk show, non tireranno fuori molto. Quasi trenta anni di collaborazionismo non passano invano. Le poche isole di “resistenza” si attivano solo in occasione di chiusure e delocalizzazioni. Per il resto silenzio assoluto e soprattutto nessuna iniziativa. Stanno lì per evitare che la prateria del malessere prenda fuoco, mica per altro. Dunque, danno per scontato anche loro che il peso dell’inflazione va scaricato integralmente sui salari. Cercheranno di lucrare altrimenti sul loro ruolo (enti bilaterali, fondi pensione, ecc).
Nel resto dell’Occidente la situazione è marginalmente migliore. Anche paesi di antica industrializzazione come Germania, Francia, Corea del Sud, Canada, ecc., mostrano una dinamica salariale più accentuata, con aumenti del salario minimo, là dove esiste.
Niente di entusiasmante, certo, ma la dimostrazione che altre classi dirigenti si rendono conto che una qualche capacità di spesa della popolazione in fondo torna utile anche al sistema economico e dunque agli imprenditori.
In Italia, invece, abbiamo degli avidi imbecilli come il contadino della favola: “Il mio asino mi costa una fortuna di foraggio e biada. Mangia tre volte al giorno, uno sproposito! Se si abituasse a mangiare di meno, io potrei vendere il foraggio che consuma e guadagnerei dei soldi.” Naturalmente l’asino alla fine muore e il contadino è rovinato...
Inutile insomma attendere un soprassalto di intelligenza da parte di questi tre attori.
Ma è inutile anche attendere che “la classe” – parola o categoria sempre evocata da chi non la frequenta quotidianamente – scopra da sola la via per reagire. Certo, prima o poi la pressione del malessere diventa troppo forte e la pentola esplode. L’incazzatura è sempre un ottimo carburante per il cambiamento sociale, ma occorre un motore (e uno chassis, delle ruote, un sistema di guida, ecc.) per trasformare l’energia in movimento che persegue obiettivi razionali e rivoluzionari. Altrimenti, se pure prende fuoco, dura il tempo della fiammata, senza altri risultati.
C’è infine il sindacalismo conflittuale, quasi esclusivamente “di base”, cresciuto negli anni ai margini della ritirata dei sindacati concertativi da alcuni terreni troppo “conflittuali” per le loro possibilità. È un micro-universo diviso per tante ragioni, ognuna storicamente comprensibile ma nessuna di qualche utilità sociale.
Il 20 maggio ha dato vita al secondo sciopero generale unitario dopo quello di ottobre, ed è forse un indizio nella direzione giusta (che è quella “utile per la classe”, non per astratte ragioni ideologiche).
Il 22 aprile nelle strade della Capitale si è palesata in un corteo di operai e studenti quella parola d’ordine “Abbassate le armi, alzate i salari” che sintetizza alla grande una sorta di programma di fase.
Ma la strada per ricostruire un’organizzazione di classe all’altezza dello scontro è molto lunga. Senza scorciatoie, ma con occasioni che possono far fare in alcuni mesi balzi in avanti che richiederebbero anni.
La questione del salario, degli aumenti, dell’istituzione di un salario minimo di almeno 10 euro netti l’ora (in Germania stanno per approvarlo a 12 euro), sta lì davanti a tutti noi. Impensabile dare risposta individualmente. Già l’unità di quel che c’è sarebbe insufficiente, figuriamoci quali possibilità potrebbe avere una “concorrenza” tra sigle presenti – quando va bene – a macchia di leopardo sul territorio nazionale e tra le varie categorie.
I “tre attori” della controparte sanno che alla lunga non è possibile ignorare la necessità di adeguare le retribuzioni all’inflazione, ma divergono strutturalmente sul come realizzare questa eventualità e su chi dovrebbe farse carico.
La via maestra sarebbero ovviamene gli aumenti salariali in busta paga, a carico delle imprese che in questi decenni hanno massimizzato i profitti. Ma queste non ne hanno alcuna intenzione.
Per loro la soluzione sarebbe nel taglio dei contributi previdenziali e di altri oneri fiscali. Il che equivale a pretendere che sia lo Stato a mettere la mano in tasca, rinunciando a delle entrate. Che andrebbero poi recuperate in altro modo (ad esempio con l’aumento delle imposte indirette), costruendo così una gigantesca “partita di giro” per cui alla fine sarebbero i lavoratori stessi a pagarsi qualche euro in più sullo stipendio netto nel mentre, con l’altra mano, pagano più tasse invisibili.
Lo Stato, che funziona per favorire le imprese, è moderatamente favorevole a questa soluzione (si accenna, nelle recenti bozze di decreto, a una progressiva eliminazione dell’Irap, tassa con cui si finanzia la sanità pubblica), ma facendo attenzione ai costi – enormi – che finirebbero per gravare sul debito pubblico sotto forma di minori entrate.
Ai sindacati complici va bene tutto, purché loro possano “gestire” agli occhi dei lavoratori qualche modesto incremento del netto in busta...
Ma nessuna proposta, di qualsiasi genere, può essere favorevole per i lavoratori se non passa per un conflitto vero, in grado di “far male” alle imprese. Se non si rompe la gabbia della rassegnazione, dell’individualismo, del ”io speriamo che me la cavo”... fin quando il posto di lavoro non salta.
Non si tratta insomma “solo” di individuare i giusti obiettivi – aumenti salariali uguali per tutti, salario minimo di 10 euro netti l’ora, ecc. – ma di aprire una stagione di mobilitazioni di dimensioni tali da poter essere vincenti. Altrimenti le condizioni di vita continueranno a peggiorare, senza limiti.
Si presenta insomma l’occasione storica di affrontare una svolta radicale nei rapporti tra le classi, “grazie” alla guerra, alla crisi sistemica, all’inflazione. Per coglierla bisogna ragionare in grande, come classe, appunto.
Mettersi insomma all’altezza della Storia e smettere di sognare che la storia possa presentarsi con una statura pari a quella di ognuno di noi. Bassina, diciamo...
Non accade mai. Men che meno quando – come oggi – l’umanità si trova a un bivio che può metterne in dubbio l’esistenza.
Si parla di aumenti salariali, ma si lotta per cambiare – e quindi salvare – il mondo.
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