di Guido Salerno Aletta
La recente polemica sulla difficoltà di trovare manodopera stagionale nel settore del turismo e della ristorazione vede contrapporsi l'opinione di coloro che sostengono che i salari offerti sarebbero troppo bassi rispetto a quella di coloro che ritengono, al contrario, che il Reddito di cittadinanza è troppo generoso e rappresenta un disincentivo al lavoro.
Questa contrapposizione riporta al centro del dibattito la questione salariale, che da troppi anni trascura sia il tema della formazione professionale che quello della produttività.
La posizione dei sindacati è radicalmente cambiata nel corso dei decenni: negli anni sessanta, gli aumenti di salario venivano rivendicati come variabile indipendente, negli anni settanta resistevano nella difesa della scala mobile che era considerata colpevole di alimentare l'inflazione con la rincorsa tra prezzi e salari; all'inizio degli anni novanta si sedettero al tavolo della concertazione per sottoscrivere gli accordi sulla moderazione salariale.
Da allora, in pratica da trent'anni, il sistema produttivo italiano e la normativa sul lavoro si sono concentrati solo sul controllo della dinamica salariale intervenendo soprattutto sulla flessibilità del lavoro, in particolare quello dei più giovani, usando la leva della precarizzazione del rapporto e l'introduzione di forme atipiche di impiego rispetto al tradizionale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato: l'obiettivo è stato solo quello di ridurne comunque il costo al fine di migliorare la competitività delle imprese.
Se ogni imprenditore cerca correttamente di ottimizzare tutti i suoi costi di produzione, quello del lavoro è divenuto centrale nella dinamica economica italiana. Ma puntare solo sulla riduzione dei salari ha significato, a livello macroeconomico, ridurre la capacita di spesa complessiva delle famiglie e dunque anche i loro consumi.
D'altra parte, se i consumi interni non crescono non c'è alcuna convenienza ad investire per soddisfare la maggiore domanda: non resta che puntare sul mercato estero. È pur vero che la deflazione salariale ha portato in attivo il saldo commerciale, ma la componente dell'export non è assolutamente in grado di compensare la carenza di domanda interna.
Come se non bastasse, a partire dal 2012 il Fiscal Compact ha puntato su una crescita non inflazionistica dell'economia, individuando paradossalmente come obiettivo politico il mantenimento della disoccupazione ad un livello elevato, che non va dunque ridotto, tale da evitare richieste salariali incompatibili con la stabilità dei prezzi. Praticamente, la lotta all'inflazione è stata fatta tenendo alta la disoccupazione e bassi i salari.
La chiave di tutto, per aumentare i salari senza creare inflazione mantenendo il necessario profitto per le imprese, sta nella dinamica sostenuta degli investimenti nell'economia reale: non in quelli finanziari, speculativi, che non modificano affatto né la produttività del lavoro né quella generale.
Aumentare la produttività del lavoro significa fare in modo che per ogni ora lavorata il prodotto abbia un valore maggiore sul mercato: un risultato che si raggiunge migliorando l'organizzazione produttiva, rendendola più efficiente con macchinari più moderni, che consumano meno energia o che producano meno scarti, o realizzando prodotti di migliore qualità che si vendono a prezzi superiori.
A fronte degli investimenti netti, quelli che si aggiungono al mero rimpiazzo di quelli preesistenti che vengono ammortizzati, ci sono i maggiori incassi dalle vendite che consentono all'impresa di aumentare i salari orari senza compromettere il profitto. Solo così c'è crescita economica e crescita dei salari.
Sono i numeri dell'economia italiana ad essere impietosi.
A prezzi costanti riferiti ai valori del 2015, la spesa per consumi finali delle famiglie era stata di 920 miliardi di euro nel 1997. Nel 2021, ben venticinque anni dopo, la spesa era stata di 984 miliardi rispetto al picco di 1.050 miliardi del 2008. Le famiglie italiane spendono dunque ancora meno soldi rispetto a tredici anni prima.
Gli investimenti fissi netti sono crollati: venticinque anni fa, nel 1997 erano stati pari a 49 miliardi di euro: dopo essere aumentati a 72 miliardi nel 2002, sono scesi in continuazione, arrivando a livelli addirittura negativi nel quinquennio 2013-2017: in pratica, la dotazione di investimenti fissi si è ridotta.
Nel 2018 gli investimenti fissi netti sono arrivati ad appena 5 miliardi di euro, per salire a 6,7 miliardi nel 2019 e poi precipitare ad un drammatico rosso di -22 miliardi nel 2020 quando c'è stata la crisi indotta dalla epidemia di Covid. Ancora nel 2021, con appena 24 miliardi di euro, sono stati pari alla metà di quelli effettuati nel 1997.
I risparmi delle famiglie, i profitti delle imprese ed i dividendi sono stati investiti sempre di più in prodotti speculativi che poco o nulla hanno a che vedere con l'economia reale.
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