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07/06/2022

Non vi è altro modo per alzare i salari, se non alzare i salari

Esistono interviste educative, che andrebbero lette anche se dicono il falso. Anzi, proprio perché dicono il falso. È il caso di una recente, breve intervista a Carlo Cottarelli. Educativa, perché dipana in maniera lampante il portato di parte della teoria economica dominante che, lungi dall’essere asettica e neutrale, svolge il compito di ancella degli interessi dominanti, fornendo loro una parvenza di scientificità.

Dice il noto economista, “Non vi è altro modo per alzare i salari, in Italia, se non far crescere la produttività”, perché il problema dell’Italia è che non cresce la produttività, “non che sono cresciuti i profitti. Che si, sono cresciuti un po’, ma non tanto”.

Dove non arriva la scienza, dovrebbe arrivare la storia. Ma nel caso di Cottarelli, pare una speranza vana. Può essere utile ripassare alcuni concetti, per comprendere come sia tendenziosa l’asserzione di Cottarelli, persino all’interno dell’approccio economico dominante.

Consideriamo, per iniziare, il valore aggiunto, vale a dire ciò che avanza da una produzione dopo averle sottratto il costo dei beni intermedi. Esso sarà diviso tra salari e profitti. La produttività del lavoro, quindi, viene definita come il rapporto tra il valore aggiunto e la quantità di lavoratori (o ore lavoro) necessarie a produrlo.

Supponiamo che un’impresa compri delle materie prime per 35€ e realizzi un prodotto che vende a 50€. Il valore aggiunto (VA) sarà pari a 15€, e supponiamo si divida tra 10€ di profitti (P) e 5€ di salari (W). Supponiamo anche che nel processo produttivo siano impiegati 3 lavoratori (L). In questo contesto, la produttività del lavoro sarà pari a VA/L=15€/3=5€, il che vuol dire che ogni lavoratore concorre a produrre 5€ di valore “nuovo”. Il salario per lavoratore, chiamato anche saggio del salario, sarà uguale a W/L=5€/3=1,67€.

Possiamo quindi porci una domanda: è necessario aumentare la produttività per aumentare i salari? La risposta è presto data: no.

Ritorniamo un attimo al valore aggiunto pari a 15€ e supponiamo che esso si divida ora tra 9€ di profitti e 6€ di salari. I profitti, dunque, saranno diminuiti (passando da 10€ a 9€); la produttività del lavoro rimarrà invariata, ma aumenteranno il monte salari (6€ invece che 5€) e il salario per lavoratore (2€, invece che 1,67€). Come si può notare, i salari sono aumentati indipendentemente dal fatto che sia aumentata la produttività.

Ma allora perché si dice che è necessario che aumenti la produttività affinché aumentino i salari? Una motivazione è che all’aumento dei salari, a produttività data, corrisponderebbe una riduzione dei profitti (che nel nostro esempio, ripetiamolo, passano da 10€ a 9€). A questo punto i capitalisti potrebbero rispondere aumentando i prezzi e lasciando dunque invariato il salario reale, che è il rapporto tra salario monetario e livello dei prezzi e potrebbe innescarsi una ‘famigerata’ spirale inflazionistica.

Come abbiamo già avuto modo di argomentare, tuttavia, che l’aumento dei prezzi avvenga e sia di entità tale da compensare completamente l’aumento dei salari monetari, lasciando dunque invariati i salari reali, è tutto da vedere. Ad esempio, un disincentivo all’aumento dei prezzi potrebbe derivare dal fatto che i capitalisti nazionali, così facendo, potrebbero perdere quote di mercato nei confronti dei concorrenti esteri che mantengano inalterato il prezzo delle loro merci.

Vi è, inoltre, un’altra evidenza, sconcertante per la teoria dominante, che sta animando ricerche e dibattiti e di cui Cottarelli non fa – ipocritamente – menzione. I dati ci dicono, ormai senza possibilità di smentita, che dalla fine degli anni ’70 in poi, la produttività del lavoro nei paesi capitalistici è cresciuta costantemente ad un ritmo più alto dei salari. Vuol dire ciò che i lavoratori si sono appropriati di una quota sempre minore di ciò che concorrono a produrre, nonostante la produttività del lavoro crescesse. Questo dimostra che, per far crescere i salari, la crescita della produttività non solo non è necessaria, ma neanche sufficiente.

Chi lo sostiene lo fa perché non ha interesse che avvenga un cambiamento nella distribuzione del reddito a favore dei salari e si nasconde quindi dietro la presenza di un vincolo di carattere tecnico che impedisce la crescita delle retribuzioni. Lo scenario prodotto da queste posizioni lo conosciamo: in Italia, come abbiamo spesso sottolineato, la quota salari è crollata e tra i paesi OCSE è l’unica che ha visto i salari reali ridursi nell’ultimo trentennio.

La causa di ciò è il progressivo indebolimento della classe lavoratrice, che ha visto il suo potere contrattuale erodersi sempre di più per varie cause. Tra di esse, spicca senza dubbio il precariato, alimentato dalle ormai note e famigerate riforme del mercato del lavoro. È di questi giorni la notizia, certificata dall’ISTAT, che in Italia è stato raggiunto un nuovo record: sono ben 3 milioni e 166 mila i lavoratori e le lavoratrici con contratto a termine. Il valore più alto dall’inizio della serie storica (1977).

Del resto, come dimostrato da molte analisi (alcune delle quali anche da parte del pensiero mainstream) la produttività è danneggiata proprio dalla precarietà del lavoro e addirittura dalla compressione salariale, invertendo in modo completo il ragionamento propostoci da Cottarelli.

Pare allora davvero risibile il tentativo di correlare l’andamento dei salari dei lavoratori con il sentiero della produttività del lavoro. Si tratta soltanto di una maschera ideologica per nascondere il processo storico di redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale che ha drammaticamente segnato gli ultimi quaranta anni di storia.

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