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05/06/2022

Salario minimo, una questione politica

In uno spazio economico comune, tra diversi paesi, logica economica vorrebbe che i salari fossero grosso modo uguali. Non tanto per ragioni di giustizia sociale (che non è mai l’obiettivo della regolazione capitalistica), ma soprattutto per mettere in condizioni di parità le stesse imprese. Salari molto differenti, infatti, favoriscono le imprese che possono pagare quelli più bassi, a parità di altre condizioni.

Pochi giornali italiani hanno dato il dovuto risalto alla notizia che dal primo ottobre il salario minimo garantito in Germania sarà di 12 euro l’ora. Il Parlamento tedesco ha infatti approvato l’aumento, che era stato tra i punti decisivi del programma elettorale del cancelliere Olaf Scholz.

La misura verrà applicata in due tempi. Dal primo luglio – tra meno di un mese – passerà da 9,82 a 10,45 euro e poi a 12 euro il primo di ottobre.

A beneficiare dell’aumento saranno appena 6,2 milioni di dipendenti su una popolazione attiva di 45,2 milioni, perché gli altri guadagnano già più di questa cifra. Secondo la Confederazione sindacale tedesca il potere d’acquisto complessivo dei lavoratori dipendenti verrà aumentato di 4,8 miliardi di euro. Che naturalmente finiranno in maggiori consumi e, quindi, in maggiori utili per le aziende fornitrici di beni di consumo, costruttori edili, ecc.

Come sapete, in Italia la proposta più “estremista” è quella avanzata da Potere al Popolo, Unione Sindacale di Base e altre sigle sindacali o politiche: 10 euro netti l’ora. Che sembrano tantissimi rispetto ai salari reali percepiti da lavoratori a tempo pieno, e a maggior ragione da precari, in nero, ecc.

Dieci euro netti l’ora sono circa 1.600 euro netti al mese (calcolando una settimana standard di 40 ore e 22 giorni lavorativi effettivi; ossia molte meno ore di quelle realmente lavorate in media). Un salario quasi da sogno, qui in Italia, considerato quasi da miserabili in Germania.

Ma naturalmente in Parlamento ci sono proposte ben più “moderate”, tra cui spicca quella della ex ministra del lavoro Nunzia Catalfo, che prevede il riconoscimento, nei contratti, di una retribuzione complessiva non inferiore a 9 euro l’ora. Per i non contrattualizzati, naturalmente, si resta appesi al buon cuore dell’imprenditore...

Ma quasi tutti i partiti sono contrari, ed anche quegli impagabili intermediatori chiamati CgilCislUil. Tutti pronti a soddisfare i desiderata di Confindustria, che di minimi salariali non ne vuole neanche sentir parlare, tanto da considerare un “competitore pericoloso” il reddito di cittadinanza, che vale in media 580 euro circa.

Evidente dunque la “logica” dell’imprenditoria italiana: se riusciamo a tenere ancora bassi i salari aumentiamo la nostra “competitività” senza spendere un euro in investimenti fissi (macchinari, tecnologie, ecc.).

Un ragionamento miope che presuppone l’impossibile: ossia che i diretti concorrenti europei, quelli che vivono e si arricchiscono all’interno del medesimo spazio economico, siano disponibili a sopportare uno squilibrio sistematico sui salari a vantaggio delle imprese italiane.

Questo squilibrio già è visibile nella dinamica dell’inflazione tra i vari paesi della UE. Il grafico qui di fianco, con i dati di aprile, parla da solo. Come si può capire, sulla diversità pesano ragioni locali. Il costo dell’energia cade su tutti nello stesso modo, perché esiste un solo prezzo internazionale per petrolio, gas e similari. Ma certo chi può contare su altre fonti – per esempio il nucleare – soffre un po’ meno per l’esplosione del prezzo degli idrocarburi (e non a caso la Francia è quella con il tasso di inflazione per ora più basso).


Per gli altri – fatta la tara per i costi delle importazioni di grano, fertilizzanti, semiconduttori e altre componenti (non tutto dipende dalla Russia e dalla guerra) – sicuramente c’è anche il diverso costo del lavoro, ossia i salari. Parliamo di paesi in cui i prezzi al dettaglio sono grosso modo simili, ma il potere d’acquisto dei salariati molto diverso.

Chiaro che per l’industria italiana i bassi salari costituiscano un vantaggio competitivo, che favorisce le esportazioni mentre deprime la domanda interna. Ma ci sono diversi “mezzi di persuasione”, a disposizione delle altre economie dello stesso spazio economico, per ridurre questo vantaggio.

Uno è tutto politico e passa per il “super-Stato in costruzione”, ovvero l’Unione Europea. Lunedì sera si riuniranno a Strasburgo i rappresentanti del Parlamento europeo e del Consiglio per arrivare all’approvazione finale della direttiva sul salario minimo proposta dalla Commissione europea nel 2020 e già approvata in prima lettura sia dall’Europarlamento che dal Consiglio.

In pratica, da Bruxelles arriverà ben presto “l’ordine” di elaborare una legge istitutiva del livello minimo di retribuzione legale, anche se nessun partito presente in Parlamento è d’accordo, anche se il governo (sentite i farfugliamenti di Brunetta) e pure i sindacati complici – in pratica tutta la “borghesia italiana” – sono contrari.

Chiaro che il conflitto – e la resistenza di Confindustria – si sposterà a quel punto dal “se” istituire un salario minimo al “come” fare una legge e al “quanto” sarà necessario pagare un lavoratore.

E infatti il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco – uno che sa benissimo come funzionano le leve del potere in Europa – apre già la discussione futura. “Il salario minimo ha vari effetti positivi – ha spiegato – Il rischio sta nel livello, perché se è eccessivo può portare a non occupare persone che potrebbero invece voler lavorare al di sotto di quel livello e che hanno una produttività sostanzialmente in grado di non arrivare a quel livello lì, ma credo non sia una cosa così importante.

Quello che è importante è non legare al salario minimo automatismi che poi ci possono costare, per esempio un salario minimo che ha piena indicizzazione ai prezzi al consumo se diventa il modello di riferimento per tutti i salari, tutte le contrattazioni, incorpora direttamente quel meccanismo automatico. Bisogna aumentare la produttività, se cresce anche i salari crescono“
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Insomma: il livello deve restare basso e non devono essere previsti meccanismi di adeguamento all’inflazione (indicizzazione, stile antica “scala mobile”). Che è poi un modo di mantenere quel “vantaggio competitivo” guadagnato con decenni di “contrattazione a togliere” (soldi, diritti, sicurezza, ecc) condotta da sindacati complici.

Ma c’è anche un secondo strumento, a disposizione della borghesia europea, per ricondurre alla ragione la straccionissima borghesia nazionale: il debito pubblico. Non a caso, si può dire, in queste ultime settimane lo spread (il differenziale di rendimento tra titoli di stato italiani e tedeschi) ha ripreso a salire. Nonostante la “garanzia euro-atlantica” rappresentata da Draghi.

Il ridisegno delle filiere produttive e delle politiche economiche (nonché di quelle fiscali) a livello continentale non può prevedere “privilegi competitivi” che non siano istituzionalizzati a beneficio dei capifila.

Detto altrimenti: Grecia, Bulgaria e paesi di quel livello possono e debbono funzionare come riserve di manodopera e beni a basso costo perché tutta la loro economia è “contoterzista” di quelle centrali in Europa. Ma l’Italia – che per un verso pretende un posto in “serie A” e per l’altro si comporta come un “furbetto del quartierino”, lucrando sui salari da fame e l’evasione fiscale generalizzata – deve “mettersi in riga”. Con le buone o le cattive.


La partita del salario minimo per legge è solo una di quelle che si vanno giocando a livello europeo e dunque, come si è visto, anche nazionale. Dal nostro punto di vista – quello della “classe”, ossia dei lavoratori – è una partita politicamente molto rilevante.

Non può sfuggire infatti il dato per cui, dovendo regolare per legge il livello minimo della retribuzione, la questione del salario smette di essere una “questione privata tra parti sociali” (imprese e sindacati) e diventa un tema politico che riguarda anche governo e partiti. Oltre che, naturalmente, movimenti e sindacati.

Nessuna forza politica potrà più sottrarsi alla necessità di pronunciarsi sui livelli salariali, esponendosi quindi alle ovvie ricadute elettorali. Nessun governo futuro potrà dirsi “neutrale”, trincerandosi ipocritamente dietro il “confronto tra le parti sociali”. E quelle parti sociali stesse – inutile dire dei vampiri di Confindustria – saranno messe sulla graticola nel rapporto con i “rappresentati” perché, egualmente, saranno obbligate a dire pubblicamente una parola chiara sul livello del salario.

Cambia insomma anche il terreno su cui si gioca la “normale” lotta di classe. La lotta sindacale si politicizza per ragioni oggettive, non solo per l’intenzionalità politica dei protagonisti. Perché, alla fin fine, investirà il governo e la maggioranza in Parlamento.

È un terreno su cui la storica “passività delle masse” e l’egemonia concertata dei “sindacati maggiormente rappresentativi” vengono messe in questione. Si può aprire, insomma, una stagione conflittuale con prospettive meno plumbee che nel passato recente.

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