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15/10/2022

Germania - La formazione tecnico professionale in un paese a capitalismo maturo

Per la seconda volta nella mia “carriera” di docente ho avuto l’opportunità di recarmi all’estero per osservare e partecipare alla vita scolastica in un istituto superiore di un paese dell’Unione Europea. Grazie al programma Erasmus la mia, come molte altre scuole, può garantire mobilità studentesche e per i docenti in molti paesi europei: il viaggio e la permanenza sono completamente a carico dei fondi europei.

Nel mio caso si è trattato di una mobilità breve, di una settimana, in un istituto superiore della Germania.

Chiariamo subito che non c’è da farsi troppe illusioni sulle finalità di questi progetti: l’obiettivo è diffondere un certo modello di scuola, orientata agli interessi economici dell’imprenditoria europea e ad una politica socioculturale neoliberista, dove l’inglese è la principale lingua veicolare e le tematiche dei progetti (quanto meno per i docenti) hanno per lo più a che fare con le nuove tecnologie applicate alla didattica, con le discipline STEM, l’economia, la scuola-lavoro o con generiche buone pratiche, che per lo più sono volte al superamento della lezione frontale.

Non credo si possano trovare corsi o proposte di scambi sull’insegnamento delle lettere o della storia, qualcosa forse sugli insegnamenti umanistici, ma sempre in senso meramente metodologico e non di approfondimento contenutistico, secondo quel modello di scuola al servizio del mercato, di cui tanto si è parlato anche dalle colonne di questo giornale.

I progetti per i ragazzi possono essere più ampi, certo, ma sempre all’interno degli obiettivi UE: si parla, oltre che di tecnologie e STEM, di diritti umani, della cosiddetta cittadinanza attiva, delle competenze chiave europee, di una generica inclusione, ovvero di argomenti che, comunque li si legga, sono coperture didattiche per la costruzione di un modello di cittadino che accetti e subisca quanto il mercato unico europeo pretende: in termini di precarietà, necessità di emigrazione verso le aree dove è richiesta la tipologia di forza lavoro cui si afferisce, bassi salari e così via.

Ciò non toglie che queste mobilità siano anche occasioni interessanti di confronto con colleghi e studenti di tutto il continente e di partecipazione alla vita scolastica di altri paesi. La mia scuola negli anni ne ha organizzate in Spagna, Portogallo, Germania, Repubblica Ceca, Finlandia, Estonia, Svezia, per citarne solo alcune, quindi in paesi anche molto diversi tra loro, con differenti modelli scolastici.

La rilevanza dell’esperienza che ho appena fatto sta nella meta e nella tipologia di istruzione osservata: sono stata in una scuola del Nord della Germania ad indirizzo tecnico professionale, dove oltre all’istruzione professionale e tecnica, sono presenti quei percorsi che permettono, in un sistema scolastico diviso rigidamente in compartimenti stagni, con tratti schiettamente classisti come quello tedesco, di tornare da una scuola tecnica o professionale verso il percorso liceale e quindi verso l’accesso universitario.

Va ricordato infatti che in Germania a 12-13 anni vieni indirizzato verso il percorso che ti porterà all’Università o verso percorsi cui lo studio universitario è precluso, con una scelta molto precoce del proprio futuro.

Una scelta, a giudicare dalla composizione etnica delle classi che ho potuto osservare, che è sostanzialmente legata alla classe sociale di provenienza: pochi ragazzi di origine straniera nelle classi del Gymnasium, molti di più in quelle tecniche professionali, per capirci.

Sulla efficacia dei passaggi a un percorso scolastico di più alto livello, non c’è poi da farsi troppe illusioni, visto quanto affermano gli stessi colleghi con cui ho parlato: una buona parte degli studenti che tentano il passaggio alla fine non sosterrà l’Abitur, ovvero l’esame liceale che consente l’ingresso a tutte le Università, per sostenere l’esame devono raggiungere infatti una certa media voti.

Le parole sono state più o meno queste: se avessero avuto la forza di sostenere l’Abitur, non sarebbero in questa scuola. A quanto pare anche in Germania la scuola non è (se mai lo è stata) veicolo di mobilità sociale verso l’alto.

Ho potuto in sostanza osservare un sistema di istruzione tecnica e professionale che spesso viene preso a modello e a cui pretenderebbero di ispirarsi anche quello italiano dell’Alternanza Scuola Lavoro (oggi PCTO) e in generale quei modelli scolastici che vedono una stretta relazione tra scuola e contesti di lavoro.

Per una docente di un paese dove quest’anno sono morti ben tre ragazzi durante gli stage della Formazione Professionale regionale e il PCTO e dove da alcuni anni si procede a continue riforme dei percorsi professionali statali, con la possibilità sempre più ampia e solitamente riservata agli studenti in difficoltà, di passare gran parte del proprio tempo in azienda fin dal secondo anno di scuola superiore, e dove è stato perseguito un impoverimento costante delle discipline umanistiche da un lato e laboratoriali dall’altro (tanto poi vanno in azienda), questa è stata un’esperienza importante.

Non si può poi dimenticare che l’ultimo governo si è apprestato a una pesante riforma anche dell’istruzione tecnica (e nuovamente di quella professionale), con l’obiettivo di adeguarla alle richieste del mondo produttivo e che sulle scuole stanno piovendo centinaia di migliaia di euro del PNRR per digitalizzare la didattica e gli ambienti scolastici, mentre edifici e strutture cadono a pezzi e i ragazzi sono ammassati in aule troppo piccole.

Nella riforma voluta dal governo Draghi si esplicita peraltro la volontà di orientare la formazione tecnica e professionale con molta forza verso l’approccio per competenze, un approccio che secondo molti studiosi critici, tra cui mi permetto di ricordare Nico Hirtt e i suoi molteplici interventi a proposito, non fa che svuotare i saperi dei contenuti e la relazione didattica dello spirito critico, sostituendola con abilità e procedure, impreziosite da metodologie per così dire attive e in quanto tali migliori per assunto della lezione frontale tradizionale.

Sia chiaro, nessun docente fa o dovrebbe fare solo lezioni frontali. Stare in classe significa dialogo e la lezione deve vedere momenti di protagonismo e attività degli studenti, ma se non esiste un momento in cui c’è anche un passaggio di conoscenze da chi sa di più a chi sa di meno, su quali contenuti dovrebbero esercitarsi alla fin fine queste metodologie attive?

Quello che ho visto in Germania, un paese che risente di una grave carenza di lavoratori manuali, questione all’ordine del giorno delle agende politiche dei partiti, è un forte investimento sulla formazione tecnica professionale.

Un paese in cui la cosiddetta formazione duale (la formazione superiore di grado più basso possibile), che prevede tre anni in cui si va a scuola un giorno a settimana e quattro in azienda, è retribuita. Gli studenti ricevono un salario, basso all’inizio per gli standard tedeschi (tra i 500 euro e gli 800 mensili), che incrementa però di anno in anno e che solitamente, alla fine del percorso di istruzione, porta all’assunzione del giovane lavoratore.

Un paese che investe molto in formazione: nella scuola che ho visitato il Land aveva appena costruito una officina meccanica per auto da 1 milione e mezzo di euro ad uso didattico e un laboratorio di elettrotecnica per lavorare sui motori elettrici e ad idrogeno del valore di 250mila euro.

Nulla di simile è pensabile in Italia, se non coi fondi e nelle maglie del PNRR e della sua spinta a digitalizzare l’insegnamento, quindi, in ultima analisi, a superare il ruolo del docente e della scuola stessa.

L’interconnessione tra privato e pubblico è molto forte, tanto che la parte di istituto dedicata alle professioni sanitarie, ristrutturata di recente, è condivisa tra la scuola pubblica del Land e la scuola di formazione di una clinica privata.

Quanto le stanze di ospedale riprodotte nell’istituto, complete di servizi igienici e letti, le nursery, le sale per infermieri dotate di reale materiale sanitario sono frutto di questa collaborazione? Esisterebbero se la scuola fosse solo pubblica?

In sostanza quello che ho visto è un paese ad economia forte che investe nella formazione della propria forza lavoro a tutti i livelli. D’altronde è stato la locomotiva d’Europa fino ad oggi, anche perché è il paese che si è costruito un’Unione Europea funzionale ai propri interessi economici e alla propria espansione.

Un paese che investe in forza lavoro e nella sua formazione, anche perché può permettersi di farlo.

Un paese dove si muore meno sul lavoro, sicuramente, ma comunque si muore (soprattutto nell’edilizia): 397 morti su 83 milioni di abitanti nel 2018, rispetto ai 523 rilevati da Eurostat in Italia lo stesso anno, su 60 milioni di abitanti (e sappiamo che questi sono dati al ribasso).

Un paese che cerca una “convergenza virtuosa” tra interessi privati e pubblici, infatti molti dei ragazzi che avrebbero finito il Gymnasium quest’anno, avevano già optato per un percorso a metà tra tirocinio e università, qualcosa a cui sembrano ispirarsi i nostrani corsi ITS, oggi ITS Accademy, rivolti a quegli studenti delle scuole superiori che vogliono specializzarsi ma andare a lavorare abbastanza in fretta, durano infatti solo due anni e il secondo anno è quasi tutto di tirocinio. Peccato che il tirocinio, come l’alternanza e gli stage delle scuole superiori, non sia retribuito.

I temi degli ITS sono però decisi dal tessuto imprenditoriale regionale, ovvero dagli interessi, non sempre o forse quasi mai lungimiranti, del mercato.

Se dovessi riassumere in una sola espressione quello che in primo luogo mi sono portata a casa è la sensazione precisa dell’Europa a due velocità. Dunque in Germania si struttura un rapporto scuola-lavoro più rispettoso degli studenti e meno improntato allo sfruttamento, perché ci sono le risorse per farlo e forse anche perché si operano scelte politiche più lungimiranti; quello stesso rapporto non può che declinarsi in termini di sfruttamento in un paese PIGS che non ha la forza di costruire un rapporto tra imprese e scuola che veda la scuola al centro e che certo non ha un problema di carenza di lavoratori manuali e, dove deve supplire a eventuali carenze, lo fa sottopagando e tagliando sulla sicurezza.

Sul piano culturale, invece, il processo di attuazione della didattica per competenze è in Germania molto più avanzato rispetto all’Italia e quello che ho visto è un contesto di lezioni partecipate, che vedono gli studenti più al centro della relazione, sebbene, anche questo va detto, con modalità sempre identiche e standardizzate, che lasciano non poco perplessi (se il modo in cui ti attivi in una lezione è sempre lo stesso, non è che è meno noioso che ascoltare un docente parlare per un’ora: metti in atto sempre lo stesso comportamento, gli stessi prevedibili schemi, ora dopo ora), ma anche un contesto con un livello di contenuti per nulla esaltante, uno schematismo e una semplificazione concettuale che non incoraggiano.

Questo a fronte di un’alta professionalità e serietà dei docenti.

Il punto è il modello di scuola: è chiamare “spirito critico” discussioni così guidate da non lasciare particolare spazio al libero pensiero degli studenti.

Molti sono gli interrogativi che una esperienza come questa scatena: sulla Germania c’è da chiedersi se, a fronte della recessione tecnica, che colpirà anche la Germania questo inverno e della guerra che sta gettando l’intera Europa in difficoltà sempre maggiori, tutto questo investimento in istruzione continuerà ad esistere, perché si sa che nel sistema capitalistico si investe in formazione quando i profitti sono soddisfacenti, che questo accada quando non lo sono più, è tutt’altro che scontato.

Ma più in generale è necessario interrogarsi su cosa può essere la scuola in questo sistema capitalistico maturo, come viene chiamato; o ormai marcio, direi io.

Nei fatti, a seconda della forza che puoi mettere sul mercato come paese, avrai il sistema di formazione della forza lavoro che puoi “permetterti”, con buona pace del diritto all’istruzione e della libera scelta dei giovani.

La scuola non è mai stata e mai sarà un’isola a parte rispetto alla società e alle sue dinamiche sociali ed economiche, come si è illusa fosse invece tanta sinistra negli ultimi cinquant’anni, permettendo nei fatti che le migliori pratiche pedagogiche progressiste venissero usate a favore del mercato.

La pedagogia e la filosofia dell’educazione, poi, non possono che rispecchiare la logica della classe al potere, su questo è ora di smetterla di illudersi.

È necessario tornare ad un dibattito serio sul rapporto tra scuola e lavoro, scuola e società reale, sui contenuti dell’insegnamento, sul senso e la fatica dello studio, in un contesto capitalistico feroce e globale, senza illusioni appunto, ma consapevoli che la scuola è anche uno dei luoghi dove le contraddizioni del sistema possono emergere e dove un insegnante comunista deve combattere per farle emergere.

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