L’intervallo che ci separa dal 37° vertice NATO, in programma a Vilnius per 11 e 12 luglio, si riduce sempre di più e, in rapporto proporzionalmente inverso, va crescendo il numero di soldati ucraini e mercenari stranieri che non arriveranno a vedere quelle date.
Letteralmente spintonata a dimostrare quotidianamente la propria scrupolosa ubbidienza agli ordini, Kiev, mentre continua a bombardare, come fa dal 2014, scuole, ospedali, edifici civili del Donbass, non si fa nemmeno scrupolo di sacrificare centinaia e centinaia di propri soldati.
D’altra parte, le capitali “europeiste”, ormai in deficit di soldi e di armi da inviare ai nazigolpisti (per quanto vecchie e al limite temporale di efficienza), devono pur “dimostrare” ai propri cittadini che questi e quelle, in mano ai banderisti ucraini, vengono ben utilizzati nella «lotta della civiltà contro l’inciviltà» (Draghi dixit) e non “smarriti” sul mercato nero mondiale.
E Kiev, per convincere i propri cittadini che l’ultimo sforzo verso il radioso orizzonte dell’ingresso in UE e NATO è ormai a portata di mano e richiede “soltanto” poche altre migliaia di vittime, proprio in vista di Vilnius accelera gli ennesimi raid, che dovrebbero apparire propedeutici alla “controffensiva”.
È stato così per Mariupol e Artëmovsk (o Bakhmut), quando la junta, per dimostrare agli “alleati” di poter vincere e sentirsi così in diritto di chiedere sempre nuovi blindati e corazzati, ha condannato alla disfatta “kantiani” azoviti (poco male) e soldati di truppa.
Migliore non è stata nemmeno la sorte dei “risolutivi” Leopard e di centinaia di blindati e corazzati francesi, tedeschi o americani.
Quantomeno problematico dire se la junta riesca davvero a persuadere gli ucraini del “necessario” sacrificio: un sondaggio condotto qualche settimana fa dall’Istituto sociologico di Kiev parlava di un 63% di popolazione che ha perso al fronte un amico, un parente, una persona cara; e di un 78% che ha avuto un parente ucciso o ferito; con numeri simili, nel 1945, a Berlino, le SS riuscivano a mantenere il “consenso” solo con nuove fucilazioni e impiccagioni.
Anche per questo, data l’ormai fisiologica carenza di sangue ucraino da gettare al macello, a Ovest si punta su altri “nemici storici” di Mosca: Polonia e Paesi baltici, sempre più “pompati” di armamenti yankee, britannici, tedeschi, sudcoreani, israeliani, svedesi – carri armati, artiglierie, obici, sistemi anti-aerei e anti-missilistici – e anche di truppe di paesi NATO, stanziate non più a rotazione, ma in forma permanente.
Si intensificano nella regione le manovre dell’Alleanza atlantica: “Spring Storm”, “Baltops 23”, “Griffin Shock 23-1”, “Griffin Storm 2023”, per non parlare delle più estese manovre aeree nella storia della NATO, le “Air Defender 23”.
Evidentemente a Ovest ci si prospetta non un “regime change”, ma un cambio di cavallo, ora che il palafreno golpista è azzoppato e l’unico rimedio sembra l’abbattimento.
In ogni caso, come cinicamente ha dichiarato al Financial Times il ministro della guerra golpista, Aleksej Reznikov, «la guerra in Ucraina rappresenta il primo caso in cui armi NATO vengono utilizzate in larga scala contro l’esercito russo. Ciò offre ai militari occidentali informazioni inestimabili sulle caratteristiche dei loro armamenti... Per l’industria mondiale degli armamenti non si sarebbe potuto trovare un miglior poligono di prova».
Ovviamente, il teatro ucraino serve anche a mettere alla prova tattiche e strategie NATO contro la Russia: per di più, almeno finora, versando quasi soltanto sangue ucraino, cosa che poco sembra preoccupare i nazigolpisti di Kiev, forse fiduciosi di poter comunque, alla fine, salvare pelle e bottino, alla maniera del famoso ultimo elicottero su un qualunque tetto d’ambasciata yankee.
Con ogni evidenza, non a questo scopo il golpista-capo ha presentato alla Rada un progetto di legge sull’attribuzione alla lingua inglese di un valore pari quasi a seconda lingua di stato, da utilizzarsi nei rapporti interetnici ucraini.
Saranno tenuti a conoscerla i funzionari statali civili e militari, amministratori locali, magistrati; per l’accesso a un master, si dovrà prima sostenere l’esame di inglese. Questo, in un paese in cui nemmeno tutti gli ucraini padroneggiano l’ucraino ufficiale e utilizzano una sorta di russo con varie particolarità locali.
Poco importa: l’inglese sarà la lingua della nuova “nobiltà” golpista. Il popolo comune potrà anche non conoscere l’inglese, così come nella Russia ottocentesca gli aristocratici si distinguevano dal popolino parlando francese.
La cosa curiosa, scrive Andrej Dobrov su RenTV, è che la questione della lingua inglese è soprattutto una eredità non yankee, ma dell’impero britannico, che aveva «educato le proprie colonie all’amore per l’inglese: in Belize, Gambia, Zambia, Kiribati, l’inglese è lingua ufficiale; oppure India, Bangladesh, Botswana, Camerun, Pakistan, ecc., in cui lingua ufficiale è quella locale, ma l’inglese è seconda lingua di Stato. Tutti ex paesi coloniali; e ora l’Ucraina ambisce» a istituzionalizzare il proprio stato di colonia, ma a stelle e strisce.
La proposta, unita a quella dell’anticipazione dal 7 gennaio (ortodosso) al 25 dicembre (cattolico) delle festività natalizie – il 6 luglio, funzionari del Ministero della “cultura”, insieme a numerosi poliziotti e sostenitori della scismatica “Chiesa ortodossa ucraina”, hanno accerchiato la Lavra Kievo-Pecerskaja, uno dei principali luoghi dell’ortodossia canonica, e l’hanno transennata, impedendone l’accesso ai fedeli – o quelle sulle date di alcune solennità civili e, soprattutto, ai recenti e sempre più frequenti contatti con il governo reazionario polacco, non contribuisce a tacitare le voci sui disegni di sopravvivenza del regime golpista a spese di svendite territoriali ucraine sui famigerati “Kresy Wschodnie” di pilsudskiana memoria.
Si aggrappano a ogni pagliuzza e svendono il vendibile, pur di dimostrare il proprio cinismo, ormai da tempo evidente anche ai più strenui lottatori per «la civiltà contro l’inciviltà», solo che optino sinceramente per una soluzione negoziata del conflitto e non per «l’unica soluzione possibile: la vittoria di Kiev».
Un’“unica soluzione” che fa appunto gli interessi non del popolo ucraino, ma dei suoi macellai e delle “iene d’Europa” circostanti.
Per il momento, più prosaicamente, secondo il noto “spirito pratico” americano e a causa dei debiti accumulati dalla junta, Kiev si orienta alla svendita delle maggiori aziende statali ucraine al capitale USA.
Secondo la cinese CCTV News, solo negli ultimi tre mesi Morgan Stanley ha ottenuto un rendimento degli investimenti del 47%, con l’acquisizione di obbligazioni e azioni ucraine.
Ancor prima del 24 febbraio 2022, Joe Biden aveva autorizzato la fornitura di armi all’Ucraina; trattandosi però di un “contratto d’affitto”, logicamente il “locatario” si attende che Zelenskij restituisca o le armi o i soldi.
La CCTV sostiene che, in base ai termini sottoscritti, Zelenskij si sarebbe impegnato a trasferire varie risorse chiave ucraine – imprese statali, infrastrutture, reti elettriche, beni agrari e industriali – a BlackRock, la quale non avrebbe versato alcuna indennità, impegnandosi però a saldare i debiti di Kiev.
In base a fonti tedesche, solo nell’ultimo anno, il volume di aiuti USA-UE all’Ucraina si aggirerebbe sui 170 miliardi di euro: che lo dicano, ai propri popoli, ai disoccupati, ai pensionati, agli operai in cassa integrazione senza stipendio – lo dicano, quelli che urlano per «l’unica soluzione possibile».
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