di Gioacchino Toni
Jun Fujita Hirose, Il cine-capitale. Il Cinema di Gilles Deleuze e il divenire rivoluzionario delle immagini, Prefazione di Ubaldo Fadini, Ombre corte, Verona 2020, pp. 129, € 13,00
Il denaro è il rovescio di tutte le immagini che il cinema mostra e monta al dritto, cosicché i film sul denaro sono già, benché implicitamente, dei film nel film o sul film. Gilles Deleuze, L’immagine-tempo.
Il volume di Jun Fujita Hirose ruota attorno alla possibilità delle immagini di sottrarsi alla catena di montaggio a cui sono destinate dall’industria cinematografica sin dai suoi albori.
Riprendendo il convincimento di Gilles Deleuze (L’immagine-tempo) che vede nel cinema una macchina capace di produrre lo straordinario a partire dall’ordinario, Hirose indica in questo straordinario il plusvalore ottenuto mettendo al lavoro le immagini ordinarie. È nell’estrazione di plusvalore dal lavoro collettivo delle immagini ordinarie che, secondo lo studioso giapponese, si palesa il legame più stretto tra cinema e capitalismo (cine-capitale)
Il pluslavoro cinematografico si determina nello iato, non più tra il lavoro necessario e il lavoro giornaliero, ma tra “l’attuale” e “il virtuale”, vale a dire tra l’atto di lavoro effettivamente svolto e la forza lavoro impiegata come pura potenzialità – “l’insieme delle facoltà fisiche e intellettuali che esistono nel corpo di un uomo nella sua personalità vivente”, secondo Marx – di ogni immagine-lavoratore. Quando il cinema compera le immagini, paga solo per il loro aspetto attuale, mentre sussume in aggiunta il loro aspetto virtuale al processo di produzione.
Hirose prende in apertura di libro come caso esemplificativo il film Gli uccelli (The Bird, 1963) di Alfred Hitchcock in cui il regista anziché ricorrere a rapaci decide di utilizzare gabbiani, passeri e corvi che si producono in una “mobilitazione collettiva” priva di guida. Allo stesso modo, suggerisce lo studioso giappopnese, il cinema impone alle immagini di perdere le proprie specificità per farsi massa impiegata nella “produzione collettiva”.
In Gli uccelli, i gabbiani o i passeri vengono pagati solo per fare il gabbiano o fare il passero durante le riprese. Non sono pagati un solo centesimo per la loro capacità virtuale di diventare “uccelli hitchcockiani” nel loro lavoro collettivo. Gli uccelli sono pagati solo per le loro azioni ordinarie, sebbene il cinema sovraconsumi la straordinaria potenzialità che giace sotto le loro “piume”, rendendoli “hitchcockiani” a loro insaputa. In questo divario aperto tra atto e potenziale, il cinema fa pluslavorare e sfrutta le immagini ordinarie.
Pur ricevendo il suo salario solo come “individuo”, l’immagine cinematografica si mette al lavoro come “più che individuo”. «È precisamente questo “più”, la differenza non retribuita tra “individuo” e “soggetto”, che costituisce la fonte o il caput della produzione cine-capitalista del plusvalore straordinario» (p. 12). Nelle immagini è dunque possibile cogliere la rappresentazione del lavoro vivo e del soggetto moderno nella sua individualità e nella sua socialità.
Evidentemente il cinema non può essere pensato come una semplice combinazione di immagini; a queste ultime viene richiesta una prestazione cooperante. La catena di montaggio cinematografica stabilisce una relazione transindividuale tra le immagini-lavoratori per far entrare in reciproca risonanza il loro “plus” pre-individuale. Spetta al montaggio, mezzo cinematografico di produzione per eccellenza, «mette in rapporto differenziale le immagini ordinarie come “soggetti” per far loro produrre il surplus straordinario».
Hollywood riesce ad essere una potente “fabbrica dei sogni” soltanto celando allo schermo il vero dietro le quinte, cioè lo scambio tra denaro e immagine. Quando ciò accade, il cinema svela «la propria natura capitalista, che consiste nel fare pluslavorare le immagini per estrarre plusvalore dai sogni o dagli incubi. Ecco perché i film sul denaro sono necessariamente film nel film o sul film» (p. 18), come aveva argomentato Deleuze.
I film sul denaro fanno la loro comparsa nella storia del cinema quando la fabbrica dei sogni si trova a dover far fronte a delle difficoltà economiche, dovute principalmente a una “crisi” della produzione cine-capitalista. Una automazione sempre più sofisticata e standardizzata dei mezzi di produzione cinematografici (catene di montaggio) si traduce in una sovraproduzione di merci filmiche (troppi sogni, troppe storie), che porta il cine-capitale al limite della propria autovalorizzazione, vale a dire, al punto estremo della “tendenziale diminuzione del saggio di profitto”. Prodotti in eccesso, i sogni e le storie diventano ormai poco eccezionali, poco singolari, poco straordinari. Non sono più sogni ma cliché.
In un’epoca in cui si è ormai giocata persino la carta della valorizzazione dei cliché, Hirose tenta di individuare vie di fuga per le immagini che permettano loro di liberarsi dallo sfruttamento a cui sono state sottoposte dalla macchina cine-capitalista. Proporsi come un’immagine puramente ottica o sonora – cioè «un’immagine ordinaria in disoccupazione professionale, che si rifiuta di lavorare e che si mette a vivere in modo autonomo» – potrebbe rappresentare un’importante modalità di emancipazione dell’immagine. Non resta che compiere una scelta di campo, sostiene Hirose: o ci si schiera con il cine-capitale o con le immagini che insorgono contro di esso. O si è agenti del primo o si è complici delle immagini che si rifiutano di lavorare per esso.
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