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16/05/2025

Mattarella e Draghi fanno l’ultima chiamata per l’autonomia strategica UE

Mattarella e Draghi, la diarchia che ha segnato l’Italia dei primi anni post-pandemici, si è trovata riunita a Coimbra. Parlo di diarchia non per gioco retorico, ma perché queste due figure hanno davvero espresso la verticalizzazione della politica italiana, la gerarchizzazione e il ‘bacchettamento’ dei partiti che non si volevano allineare ai dettami di Bruxelles.

Ciò avveniva in una fase di forte sollecitazione per le mire strategiche unioneuropeiste, e dunque avviene di nuovo in questi mesi, in cui la rottura dell’illusione dell’unità euroatlantica sta costringendo la UE ad assumere quell’autonomia strategica a cui ha sempre aspirato o a perdere definitivamente il treno della competizione globale.

Senza tenere a mente questa cornice analitica, non si può capire il valore delle parole che entrambi i politici hanno pronunciato nella città portoghese, dove si è svolto il 17esimo summit sull’innovazione organizzato dalla fondazione Cotec Europa. Non a caso, il titolo era “A call to action”, che è poi il senso dei loro discorsi.

Partiamo dal discorso tenuto da Draghi, che fa il paio con quello dello scorso febbraio, quando l’economista era intervenuto al Parlamento Europeo chiedendo al consesso di “fare qualcosa”, e di non dire sempre di no a tutto. Soprattutto perché ora i dazi di Trump hanno aperto una faglia che non si richiuderà.

“È un azzardo credere che torneremo alla normalità nel nostro commercio con gli Stati Uniti”, ha detto Draghi, aggiungendo poi che “dovremmo chiederci come mai siamo finiti nelle mani dei consumatori statunitensi per guidare la nostra crescita. E dovremmo chiederci come possiamo crescere e generare ricchezza da soli”.

Anche se l’ex presidente della BCE e del governo italiano ha ribadito che la UE deve cercare un accordo per salvaguardare le proprie esportazioni e mantenere l’accesso al mercato stelle-e-strisce, l’obiettivo deve essere quello di promuovere relazioni e dotarsi di strumenti che garantiscano la crescita europea, con o senza Washington.

Per dirla in altre parole, serve aumentare innanzitutto la domanda interna del Vecchio Continente, quella stessa domanda che è stata strozzata dalle politiche di austerità di cui lo stesso Draghi è stato promotore. Come già altre volte negli ultimi mesi, il buon ‘SuperMario’ si scorda di dirlo, perché significherebbe dichiarare al mondo il fallimento della trentennale politica mercantilista della UE.

Ad ogni modo, Draghi ha ribadito che l’unico modo perché si venga a capo di questa situazione è una maggiore integrazione europea, a partire dall’emissione di debito comune. “Quando il debito è già elevato – ha detto – l’esenzione di categorie di spesa pubblica dalle regole di bilancio può arrivare solo fino a un certo punto”, con ovvio riferimento ai piani di riarmo.

“Nelle occasioni in cui l’UE ha fatto salti significativi verso una maggiore integrazione, tre fattori sono stati tipicamente presenti: una crisi che dimostra oltre ogni dubbio che il sistema precedente è diventato insostenibile; un grande shock politico che sconvolge l’ordine istituzionale; un piano d’azione già esistente cui tutte le parti possono aderire”.

L’ex-presidente della Bce ha affermato che “oggi, per la prima volta in forse 30 anni, tutti e tre i fattori sono presenti di nuovo. Dal 2020 abbiamo perso il nostro modello di crescita, il nostro modello energetico e il nostro modello di difesa. Gli europei avvertono in modo acuto il senso di crisi”.

In maniera complementare, Mattarella ha dichiarato solennemente che “stare fermi non è più un’opzione”, rivelando poi quello che è alle fondamenta del progetto europeo: egli ha infatti invitato a “progredire senza indugi e con efficacia proprio sulla strada della competitività, condizione indispensabile all’ulteriore approfondimento del progetto d’integrazione continentale”.

“I rischi dell’immobilismo – ha continuato – sono ben identificati nel Rapporto Draghi come in quello Letta, sul futuro del mercato interno: le ipotetiche conseguenze per l’Europa, ad esempio in termini di arretramento nelle condizioni materiali di benessere diffuso o di un allontanamento irreversibile dalla frontiera tecnologica, ne accrescerebbero anche le vulnerabilità sui piani strategico e geopolitico”.

Il benessere diffuso è in caduta libera già da tempo nella UE, e viene tirato fuori solo in maniera strumentale. Non è la riduzione delle disuguaglianze, non è la pace e la promozione dello sviluppo la ragione d’esistere della UE, ma lo è la capacità dell’imperialismo continentale di stare al passo degli altri grandi attori globali.

Mentre Israele porta a compimento il genocidio dei palestinesi, mentre appena al di là del mare la Libia torna a infiammarsi, mentre da oltre tre anni l’Occidente usa gli ucraini come carne da cannone, un presidente della Repubblica guerrafondaio parla di “ingiustificate ritrosie” rispetto al piano di riarmo, difesa comune ed economia di guerra licenziato da Bruxelles.

Insomma, il binomio Draghi-Mattarella ha tracciato i possibili scenari futuri della UE. O un salto di qualità nell’integrazione, a partire dal diventare una realtà politica armata fino ai denti, o la condanna a giocare un ruolo minore nello scenario internazionale. Ovviamente, sempre finché il nodo rimarrà quello di come garantire il profitto di pochi sulla vita di molti.

Per chiunque voglia invece intraprendere una strada alternativa, per un modello fondato sui bisogni popolari e su relazioni internazionali pensate non come una questione di dominio, ma di sviluppo complementare con altri paesi, la rottura della gabbia europea è la parola d’ordine da agitare.

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