Cominciamo col dire che a luglio 2012 secondo la Rilevazione continua delle forze del lavoro (RCFL) dell’ISTAT gli occupati (dipendenti e autonomi) erano 23 milioni e 25 mila, dato che corrisponde ad un tasso di occupazione del 56,7%. Mentre, stando ai dati forniti dall’INPS, al 31 dicembre del 2010 i pensionati italiani erano 16 milioni e 708 mila. Aggiungiamo poi che le ultime rilevazioni quantificano i disoccupati in 2 milioni e 171 mila unità, stimano i lavoratori a nero in 2 milioni e 587 mila e i cosiddetti Neet (Not in Employement, Education and Training) in poco più di 2 milioni e 110 mila. Ora, è evidente che queste ultime tre voci presentano tra di loro ampie aree di sovrapposizione però, seppure in parte approssimativa, una prima foto, scattata da lontano, potrebbe essere questa:
Proviamo ora a zoomare un po’. L’ISTAT distingue gli occupati in funzione di due parametri: il regime orario (tempo pieno o parziale) e il carattere dell’occupazione (permanente o a termine). Dalla combinazione di questi due parametri gli occupati vengono classificati come standard (a tempo pieno e indeterminato), parzialmente standard (part time) o atipici (a tempo determinato). Utilizzando i dati del rapporto annuale 2012 potremmo così scattare quest’altra fotografia:
Questa seconda immagine ci permette di fare qualche prima considerazione. Innanzitutto da questa distanza è già possibile vedere come il 23,86% degli occupati censiti non rientri più nei canoni del lavoro standard, e come poi questa percentuale sia estremamente più alta (38,07%) per l’occupazione femminile. Alcune informazioni complementari aiutano però a rendere l’immagine ancora più nitida:
1) dal 1993 al 2011 gli occupati a tempo
determinato sono cresciuti del 48,4% a fronte di un incremento
complessivo dell’occupazione del 13,8%;
2) la quota maggiore dei lavoratori non standard (2.950.000) appartiene alla classe di età compresa tra i 30 e i 49 anni;
3) secondo l’ISFOL la continuità del rapporto di lavoro per i dipendenti a termine ha una durata compresa tra i 7 e i 12 mesi mentre per gli altri “atipici” la durata è ancora minore;
4) sempre l’ISFOL spiega che mentre nel periodo tra il 2008/2010 il tasso di trasformazione del lavoro non standard in lavoro standard era del 46%, ora questo valore si è abbassato al 37%;
5) il rapporto sulla coesione sociale dell’ISTAT informa inoltre che nel primo semestre del 2011 su un totale di 5.3 milioni di rapporti di lavoro attivati, 3 milioni e 603 mila sono stati con contratti a tempo determinato (67.7%), 458.951 con contratti di collaborazione (l’8.6%), 1.013.938 con contratti standard (19%) e poco più di 160 mila con contratti di apprendistato (3%).
2) la quota maggiore dei lavoratori non standard (2.950.000) appartiene alla classe di età compresa tra i 30 e i 49 anni;
3) secondo l’ISFOL la continuità del rapporto di lavoro per i dipendenti a termine ha una durata compresa tra i 7 e i 12 mesi mentre per gli altri “atipici” la durata è ancora minore;
4) sempre l’ISFOL spiega che mentre nel periodo tra il 2008/2010 il tasso di trasformazione del lavoro non standard in lavoro standard era del 46%, ora questo valore si è abbassato al 37%;
5) il rapporto sulla coesione sociale dell’ISTAT informa inoltre che nel primo semestre del 2011 su un totale di 5.3 milioni di rapporti di lavoro attivati, 3 milioni e 603 mila sono stati con contratti a tempo determinato (67.7%), 458.951 con contratti di collaborazione (l’8.6%), 1.013.938 con contratti standard (19%) e poco più di 160 mila con contratti di apprendistato (3%).
La progressiva precarizzazione del mercato del lavoro, nonostante i proclami degli alfieri delle riforme, non ha creato nessun posto di lavoro aggiuntivo ma ha dato luogo esclusivamente a lavoro sostitutivo. E’ un dato di fatto ormai assodato però, visto che l’opinione pubblica italiana è malata di Alzheimer, ribadirlo non fa mai male.
Fin qui le foto di gruppo che abbiamo scattato hanno tenuto insieme indistintamente lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, proviamo adesso a ritrarli separatamente cominciando da questi ultimi. In Italia stando all’Osservatorio sulle partite IVA dell’Agenzia delle Entrate il numero complessivo di partite IVA è di 8.8 milioni. Di queste quelle realmente operative sono 6.5 milioni, 1 milione delle quali appartenente a società di capitali. Sono dunque circa 5 milioni e 500 mila le persone che lavorano autonomamente, pari a un quarto degli occupati, il doppio di quanto si registra in Francia, Germania ed Inghilterra. Questo dato non si discosta più di tanto da quello fornito dall’ISTAT che calcola per il 2011 in 5 milioni e 727 mila il numero lavoratori indipendenti. Tra questi i titolari di partita iva iscritti ad ordini professionali (architetti, commercialisti, farmacisti, ecc.) sono circa 1 milione, mentre gli artigiani sono poco più di un milione. Scorporate queste quote di lavoro autonomo comunque tutelato restano fuori dunque 3.3-3.5 milioni di partite iva individuali, per di più concentrate nel settore dei servizi e nelle regioni del nord. Una platea consistente che corrisponde al 15.5% degli occupati e tra cui si annida il cosiddetto popolo del “false partite IVA”: lavoratori con un unico committente, di fatto dipendenti ma retribuiti dietro presentazione di fattura. I vantaggi legati a questa forma di rapporto per un padrone sono noti, non solo per la flessibilità del lavoro, ma anche per l’enorme risparmio sui costi previdenziali che sono pari al 4% del valore della prestazione. Senza indugiare oltre vale solo la pena ricordare che in questi anni ogni aumento del contributo INPS è stato sempre e solo a carico del lavoratore, senza alcun aggravio per il padrone. L’ISFOL quantifica in 400 mila le false partite Iva, un dato che secondo gli stessi sindacati confederali sarebbe enormemente sottostimato. Sorridete. Dite cheese. Ecco la foto…
Ora ci è possibile scattare un’altra foto di gruppo dei lavoratori non standard, questa volta però avviciniamo di più l’obiettivo…
Ovviamente non è possibile fare la somma in colonna 3 perché alcune voci si sovrappongono ciò nonostante è evidente come il numero dei lavoratori che non rientrano più nelle relazioni industriali di tipo “fordista” sia estremamente più consistente di quanto si intravedeva dalla prima foto. C’è però un’altra foto che ci sembra interessante scattare, ed è quella ai cosiddetti lavoratori dipendenti “garantiti”. Gli occupati standard sono, come scrivevamo sopra, 17 milioni e 485 mila, di questi i lavoratori dipendenti ammontano a 12 milioni 707 mila. A questa cifra vanno però sottratti i 203.698 lavoratori in cassa integrazione ordinaria, i 217.206 in CIG straordinaria e i 199.798 in cassa in deroga (dato al maggio 2012). Dunque i lavoratori dipendenti standard che non rischiano di perdere il lavoro sarebbero poco più di 12 milioni. Ma anche in questo caso il condizionale è d’obbligo perché questo dato va incrociato con quello della dimensione aziendale desumibile dall’Archivio statistico delle imprese attive (Asia) dell’ISTAT. Nel 2010 risultavano attive in Italia 4.470.748 imprese con 17.510.988 dipendenti. La dimensione media è particolarmente bassa (3.9 dipendenti); se si considerano le imprese fino a 9 dipendenti (in cui sono incluse anche quelle coincidenti con il solo titolare) si arriva a 4.241.565 unità, pari al 94.8% del totale (8.176.574 addetti) mentre le imprese fino a 19 dipendenti arrivano a comprendere il 98,1% del totale e ad occupare 10.092.655 lavoratori, il 57.6% di tutti i lavoratori dipendenti. Purtroppo le classi dimensionali adottate dall’ISTAT non permettono di quantificare in maniera precisa quanti lavoratori vengono occupati in aziende con meno di 15 dipendenti, soglia di applicazione dello Statuto dei lavoratori, però tenendo conto di quanto appena scritto e considerando anche l’incidenza delle forme di lavoro non standard il numero degli occupati dipendenti standard effettivamente protetti è stimato in 8.772.000 contro gli 8.468.000 occupati dipendenti poco o per nulla protetti (Pelos, 2012). Il dato, è utile ribadirlo, non tiene conto dei lavoratori dipendenti a nero e ci da la seguente fotografia:
Questa foto è a nostro avviso molto importante perché ci restituisce l’immagine di un paese in cui, vuoi per la dimensione aziendale, vuoi per la forma contrattuale, quasi la metà dei lavoratori dipendenti è ormai poco o per nulla protetta. E’ perfino banale constatare come il tasso di sindacalizzazione sia inversamente proporzionale al numero degli addetti delle imprese e che spesso in queste situazioni dietro contratti formalmente standard si nascondano zone di lavoro più o meno “grigio”. Ciò ha una evidente ricaduta pratica: per quanto siano sacrosante gran parte alcune delle battaglie politiche e sindacali (difesa dell’articolo 18, rinnovi contrattuali, ecc.) “storiche” finiscono oggettivamente per non interessare più una gran massa di lavoratori. Per dirla con altre parole alcune vertenze e alcune parole d’ordine hanno definitivamente perso la loro generalità, un dato di fatto che non può essere eluso se si vuole ricostruire un insediamento sociale.
Messa così, e per ritornare alla domanda iniziale da cui eravamo partiti, sembrerebbero dunque aver ragione i “moltitudinari”: il tessuto produttivo italiano, insieme a quello europeo, si è enormemente trasformato, anche qualitativamente. In questi ultimi decenni abbiamo assistito alla progressiva terziarizzazione delle metropoli capitaliste e se a cavallo tra gli anni ‘60 e ’70 del novecento il 44% dei lavoratori europei era impiegata nell’industria manifatturiera oggi questa percentuale oscilla tra il 16,8% della Gran Bretagna e il 37% della Repubblica Ceca. Una foto scattata grazie alle serie storiche dell’ISTAT, anche se vecchia di 12 anni, descrive bene questo fenomeno nel nostro paese.
E dunque? Siamo diventati un popolo di precari cognitivi? Di lavoratori della conoscenza? La “rude razza pagana” si è estinta? Prima di rispondere ci concentriamo su un altro dato per nulla marginale: i salari e le pensioni. Stando alle cifre fornite nella primavera del 2012 dall’Eurostat, il centro statistico dell’Unione Europea, in Italia il salario medio netto dei lavoratori dipendenti è di 1.286 euro mensili. Superiore di appena 175 euro a quella che l’ISTAT individua come la soglia di povertà relativa per una famiglia di 2 persone (1011,31 euro). Sempre l’istituto di statistica nazionale riporta come nel 2010 i compensi lordi medi erano nel complesso pari a 23.700 euro annui con forti differenziazioni tra le diverse dimensioni aziendali. I lavoratori delle microimprese percepiscono mediamente una retribuzione annua procapite di 18.400 euro pari al 65.6% di quella percepita in media dai dipendenti delle imprese con più di 250 addetti e oltre (28.100 euro). Il salario medio degli oltre 3 milioni di lavoratori con contratto a termine è di 836 euro (927 per gli uomini, 759 per le donne). I dati INPS, aggiornati al 2012, ci dicono che il 17% dei pensionati percepisce meno di 500 euro al mese, il 35% percepisce tra i 500 e i 1.000 euro al mese, il 24% tra i 1.000 e i 1.500 euro al mese mentre il 2.9% ha una pensione superiore ai 3.000 euro. Insomma più della metà dei pensionati italiani ha un reddito mensile lordo inferiore a 1.000 euro. La situazione però si ribaltano quando si tratta di pagare le tasse. Negli ultimi due anni i lavoratori dipendenti hanno versato il 76.5% del totale del gettito IRPEF e dei contributi, i pensionati hanno versato il 13% mentre le aziende e gli autonomi hanno versato il 10.5%. Forse, ma il nostro è solo un “suggerimento”, la questione del salario (diretto, indiretto e differito) se agitata nelle giuste forme potrebbe contenere in se i crismi della generalità di cui sopra, o no? Detto questo prendiamo di petto l’ultima questione: il proletariato ha fatto dunque posto al “cognitariato”? Secondo noi, lo diciamo chiaramente, assolutamente no. In occidente la “fabbrica diffusa” non ha affatto significato la scomparsa del lavoro materiale ed operaio, semmai ne ha provocato la dilatazione sul piano territoriale e la tracimazione nel settore dei servizi e più in generale del terziario. E lo spaccato sul mondo della logistica che stanno rivelando le lotte di questi mesi ne è una chiara dimostrazione. I principi del taylor-fordismo, mentre venivano superati nella produzione manifatturiera, si sono andati invece imponendo, anche grazie all’ausilio dell’informatica, proprio in quello dei servizi attraverso una rigida divisione del lavoro sempre più sistematica, una rigida separazione tra programmazione ed esecuzione e la standardizzazione esasperata dei processi, delle attività e dei compiti richiesti. E se non si vuole arrivare fino all’Ikea di Piacenza basta fermarsi in un Fast Food, in un Outlet o far visita ad un Call Center per rendersene conto. I lavoratori del terziario sono ormai oltre il 60% del totale ma quelli impegnati nel cosiddetto terziario avanzato ne rappresentano una minoranza. Assistenti domiciliari, segretarie, centraliniste, facchini, commessi, baby sitter, addetti alle pulizie, camerieri, autisti, sorveglianti… e la lista potrebbe proseguire per un bel pezzo. Sono questi i service workers di cui parliamo. Mansioni che esistevano anche all’ombra della fabbrica fordista ma che con la decentralizzazione dell’attività produttiva manifatturiera hanno assunto un peso preponderante. Quello che sosteniamo è che all’interno di quell’universo eterogeneo che oggi definamo come precariato, accanto ad un piccolo nucleo di nuove professioni altamente qualificate e in cui sono messe a valore le facoltà relazionali, cognitive e finanche affettive si è andata delineando una nuova figura, maggioritaria, che potremmo definire come “proletariato dei servizi” e che sembra avere nell’instabilità e nella precarietà tanto del lavoro quanto dell’esistenza il proprio comun denominatore. L’ultima foto del mondo dei lavoratori non standard scattata a partire dal RCFL Istat del 2010 può tornarci utile fornendo una base empirica a queste riflessioni…
Ci piaccia o meno questo è il nostro album di famiglia.
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