Draghi ha depresso i mercati finanziari dicendo la più scontata – e fin
qui negata – delle verità: la “ripresa” non arriverà nemmeno per la fine
di quest'anno.
Requiem per le volgari promesse di un Mario Monti al momento di
gettarsi nell'abisso della politichetta italiana... Ricordate? “Vedo la
luce in fondo al tunnel”, e qualcuno – in Confindustria – chiosava
nervoso “sì, quella del treno che ci sta arrivando addosso”.
Il
problema enorme per chi ancora professa idee economiche di ascendenza
monetarista – i neoliberisti duri e puri, quelli che non vogliono sentir
parlare di “intervento pubblico nell'economia” – è che la politica
monetaria (quella messa in pratica dalla banche centrali più importanti:
Fed, Bce, BoJ giapponese e BoE inglese, altro discorso è quello della
banca cinese) non ha più alcun effetto sull'economia reale. In altre
parole, a qualsiasi livello siano i tassi di interesse base, qualsiasi
siano le “politiche non convenzionali” messe in atto (altrimenti dette
“iniezioni di liquidità”), i “soldi facili” non arrivano alle imprese.
Ma restano nelle banche. Con effetto cocaina per i mercati azionari,
verso cui si dirige la liquidità in eccesso, e depressivo per gli altri
settori. Quindi, mentre dall'andamento delle borse sembra che le cose
vadano bene, dalle cifre dell'economia reale – produzione, occupazione,
ecc – il quadro è praticamente opposto.
Ben tre articoli de IlSole24Ore, tra ieri e oggi, picchiano su questo punto (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-04-05/lillusione-tassi-063621.shtml?uuid=AbX2vQkH&fromSearch , http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-04-05/liquidita-globale-record-54mila-063834.shtml?uuid=AbhawQkH&fromSearch e http://web24ore.com/articolo/sommersi-di-soldi-ma-l-economia-non-se-ne-accorge), a testimonianza della preoccupazione che monta nel mondo delle imprese. Specie quelle dei paesi in difficoltà.
Il paradosso non potrebbe essere più apparente: siamo sommersi dai soldi, ma non solo pochi se ne accorgono, ma addirittura ci viene detto che dobbiamo impoverirci al massimo per poter rilanciare la competitività del paese in cui viviamo. In tutti i paesi, naturalmente. E nello stesso momento.
Non è necessario aver compulsato seriamente Il Capitale di Marx per poter riconoscere i segni chiari della crisi di sovrapproduzione: c'è in giro troppa ricchezza, non poca.
E non ci riferiamo tanto ai “soldi”, quanto alla capacità produttiva
esistente (basti pensare al settore automobilistico globale), alla
sovrabbondanza di manodopera, alla quantità di merci – anche alimentari –
che non trovano un compratore e finiscono in discarica. Se lo scopo
dell'economia fosse la soddisfazione delle necessità vitali delle
popolazioni la situazione sarebbe ottima; ma se è il profitto individuale
di ogni impresa allora la situazione è pessima, perché il profitto va
nutrito in percentuali crescenti (è nella sua natura).
Il bivio
davanti all'umanità si va dunque disegnando con sconcertante chiarezza,
anche se proprio in questo momento la capacità di comprensione
collettiva sembra ridotta a zero: da questa condizione si esce o usando
la potenza produttiva esistente per far vivere meglio e in modo
ecologicamente sostenibile la maggior parte possibile dell'umanità,
oppure scatenando quella “competitività” che si traduce in guerra tra
economie, tra paesi o aree monetarie, tra imprese, tra gli stessi
lavoratori.
Naturalmente, nonostante le premesse di una
“competizione dura” vadano accumulandosi, il tentativo della governance
globale è di allontanare il pericolo. Quindi si cercano con ancora più
tenacia soluzioni “non convenzionali” in grado di dare fiato al sistema e
rinviare il momento dell'esplosione delle contraddizioni.
Questo significa ancora “più liquidità”, in forme ancora più fantasiose.
Alla Bce, per esempio, starebbero studiando la possibilità di
“comprare” il debito delle aziende in crisi, in modo da impedirne il
fallimento o il ridimensionamento drastico. Molto “non convenzionale”,
quasi un “intervento pubblico in economia”, se la Bce fosse un soggetto
pubblico. In pratica, visto che le condizioni del credito privato –
ovvero quello concesso dalle banche – restano “molto restrittive”, la
banca centrale pensa di farsene carico in prima persona nell'unico modo
che le è concesso. Non potendo concedere credito direttamente, lo
farebbe “alleggerendo” il loro debito.
Una misura eccezionale,
ma quanto può tenere? Se le condizioni globali sono quelle di un
“eccesso di offerta” (impianti produttivi, merci, liquidità, persone,
ecc), ben poco. Come Draghi ha già detto alcune volte, “la Bce sta
comprando tempo”. Dal suo punto di vista è quello necessario a fare le
“riforme strutturali” e “risanare le finanze pubbliche” dei paesi Piigs
(ma l'acronimo ormai è troppo corto per tenere conto di tutti i paesi
nelle identiche condizioni: Cipro, Slovenia, Lettonia, Lussemburgo,
forse presto anche la Danimarca). Ovvero le misure per “rilanciare la
competitività”, con il cerchio di conseguenze già descritto.
Il Giappone persegue un obiettivo identico – rilancia la propria competitività
– con uno strumento simile, ma dichiaratamente opposto: 1.400 miliardi
di “stimolo” all'economia, fottendosene allegramente dei conti pubblici
(il debito statale è al 236%, quello italiano – maledetto dalla Ue –
“soltanto” al 126). Diciamo che la Bce inietta nuova liquidità in modo
fa farne pagare il conto alla spesa pubblica (soprattutto al welfare)
dei vari stati e ai salari dei lavoratori dipendenti; la banca del
Giappone, invece, scaricandone le conseguenze sul resto del mondo (come
gli Usa, insomma, ma senza avere lo stesso “peso”).
Entrambe le
vie preparano la più gigantesca ondata di iper-inflazione che la storia
abbia mai sperimentato. E non sarà uno tsunami cavalcabile da attori
comici.
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