[...] Se dunque si rigetta il paradigma della scarsità e si nega
l’esistenza dell’equilibrio “naturale”, la conclusione è inevitabile: a
seguito delle politiche di austerity il sistema economico rimane in
condizioni di prolungato sottoutilizzo delle capacità produttive e
addirittura, nella crisi, finisce per distruggere quelle stesse
capacità. La rinuncia delle imprese a investire in nuovi mezzi di
produzione, infatti, non solo riduce la domanda e la produzione correnti
e lascia inutilizzate le forze produttive già esistenti, ma abbatte
anche il potenziale produttivo futuro della società. [...] Ma allora, se
questi sono i reali effetti dell’austerity, quali possono essere le
cause del fascino discreto che essa tuttora esercita tra le masse
popolari, e soprattutto tra gli eredi del movimento operaio? Una
parziale risposta risiede probabilmente in alcuni tipici luoghi comuni
diffusi tra le macerie di quella che un tempo veniva orgogliosamente
definita la cultura di sinistra, e che oggi pare essersi ridotta a una
zavorra ideologica, un intralcio alla comprensione della realtà. Tra di
essi vi è ad esempio l’illusione che una politica di restrizioni
finanziarie possa indurre i cambiamenti strutturali indispensabili per
rendere collettivamente fruibili i benefici del progresso tecnico, e
possa addirittura contribuire al trapasso verso una società maggiormente
rispettosa dell’ambiente, magari persino fondata sulla “decrescita”. E
vi è pure l’idea naive secondo cui l’arma dell’austerità
potrebbe essere finalmente rivolta non sui lavoratori ma contro i
dissipatori, i corrotti, i membri della “casta”. La realtà, tuttavia, è
un’altra.
I dati evidenziano che proprio nelle fasi in cui si impone la logica
dei tagli emergono pure nuove tipologie di dualismi tecnologici, di
aggressioni all’ambiente e al territorio, di dilapidazioni di risorse
pubbliche, di privilegi e di malversazioni, che in proporzione risultano
ancor più pervasive e letali di quelle che si verificavano in epoche di
minore restrizione dei bilanci pubblici. Un esempio emblematico su
tutti: i costi della famigerata “casta”, guarda caso, sono aumentati
proprio nella lunga epoca dei sistematici avanzi primari, vale a dire
del surplus di entrate fiscali sulla spesa pubblica calcolata al netto
del pagamento degli interessi sul debito (si veda la figura qui di
seguito)[1].
Contro il senso comune, ancora una volta, l’austerity è correlata
allo spreco e al privilegio di pochi. Se allora così stanno le cose,
come si poteva mai intendere l’austerità nei termini di una via per il
superamento del capitalismo? E a fortiori, come si può concepire oggi
una austerità di sinistra? In effetti non si può. Del tutto
indipendentemente dalla buona fede e dal grado di consapevolezza di chi
l’ha evocato, si tratta di un equivoco, di un puro controsenso.
Piuttosto, è vero il contrario: nel modo di produzione sociale vigente,
esortare le masse all’austerità significa di fatto assuefarle a
una crisi che per le stesse restrizioni che impone è destinata ad
auto-alimentarsi e a durare nel tempo. Anche per questo l’austerità è
una ideologia reazionaria, è restauratrice, è di destra in senso non banalmente parlamentare, ma antropologico.»
Tratto da E. Brancaccio e M. Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano 2012 (cap. 1, pp. 27-30).
[1] Ringrazio Carmen Di Caprio per la raccolta e la elaborazione dei dati riportati in figura.
Fonte
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