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20/05/2013

Maurizio Landini e il futuro della Costituzione

Tre sono i filoni di discussione sul futuro della Costituzione italiana, escludendo dibattiti più coperti o più tecnici, che tanto occupano la scena pubblica quanto sono destinati all'inefficacia politica.

Il primo è il dibattito, parte etico e parte epistemologico, sulla classificazione dei beni comuni. Si nutre dell'illusione politica che vuole, dichiarando "comune" un bene, il processo di conversione al pubblico di un qualcosa posseduto dal privato come un processo già messo ad attivazione. La vicenda del referendum 2011 dovrebbe invece insegnare molto. Ovvero che, ad esempio, è il durissimo lavoro di sradicamento, su un piano sia microfisico che altamente complesso, delle multiutility dell'acqua e della loro governance finanziaria che è realmente efficace. Persino più della affermazione formale della volontà popolare tramite referendum. Ogni dichiarazione di "bene comune" in questa Twilight Zone delle privatizzazioni, che si serve della forza capillare di una finanziarizzazione della vita che è a livelli sconosciuti ai dibattiti politici attuali, è buona o cattiva retorica del piano etico ma terribilmente inefficace sul piano sia comunicativo che concretamente politico.

Il secondo è il dibattito sui poteri che contano che non sono più in Italia, ma immancabilmente altrove, in una Europa della quale si confondono i processi di integrazione economica e finanziaria con quelli di costruzione del legame sociale e politico. Non è infatti la sola propaganda della governance Ue a confondere Europa ed eurozona come si trattasse dello stessa dimensione. Anche a livello di movimento si pensa che  la necessaria rottura della suicida gabbia d'acciaio dell'eurozona, che rischia di allontanare l'Italia dal mondo globale per decenni, nasconda una qualche nostalgia per uno stato-nazione non più riproponibile. Ci sarebbe piuttosto da riflettere come mai, vicini al quarto di secolo da Maastricht, non si sia mai prodotto un movimento europeo permanente ed incisivo. Responsabilità dell'eurozona? Non solo ma più di quanto si pensi visto che l'eurozona è un pretesto per una più feroce competizione nazionalista sulle risorse (in termini finanziari e di quote di mercato) fattesi scarse o difficili da ottenere. Così arriviamo al paradosso, visibile in molti mondi di sinistra, che si accusa di nazionalismo chi critica l'eurozona legittimando un dispositivo neomercantilista della competizione tra stati ed aree geografiche, che sposa governance e nuove forme feroci, aggressive, di silenzioso, implicito nazionalismo.

Passiamo al terzo di filone di dibattito o, se si preferisce, di attenzione ai temi costituzionali. In questo caso Maurizio Landini rappresenta la dimensione di massa, un po' ristretta e sfiduciata ma pur sempre massa, di una tensione collettiva alla riaffermazione del nesso inscindibile tra Costituzione e lavoro. E qui sorgono, per la verità sono sorte da decenni ma è giusto ribadire il problema, almeno due questioni non facilmente eludibili. Pena l'espulsione dalla sfera della politica nonostante i tentativi di Repubblica, per motivi editoriali e di tattica, di rappresentare l'esistenza di un'ala sinistra del Pd. La prima è se la Costituzione ha un futuro, non quella italiana ma la forma costituzionale in sé, e la seconda se il lavoro stesso ha, anche lui, un futuro. Entrare in questi temi, dai quali Landini e i suoi supporter si tengono lontani, non è fare avanguardia culturale, l'espressione non ha più senso da anni, ma posarsi finalmente su un robusto e concreto terreno politico.

Cominciamo dalla questione legata al futuro della Costituzione. La versione che arriva al dibattito politico pubblico, quella mediata dal mainstream, su questi temi esclude di netto molti dibattiti tecnici di notevole importanza. Risulta stupefacente infatti che, in tutte le discussioni sulla Costituzione, ci si dimentichi di andare ad approfondire i dibattiti sul suo futuro. Eppure proprio dalla Germania, il paese comunque percepito come vincente dal processo d'instabile e progressiva unificazione dell'eurozona, sono partite significative discussioni proprio su questo interrogativo. Ci si riferisce, per semplificare, al dibattito aperto da Dieter Grimm già nei primi anni '90 (Dieter Grimm, Die Zukunft der Verfassung, Suhrkamp, 1991). Grimm, che è forse il più importante costituzionalista tedesco vivente, scrisse questo testo dal titolo "il futuro della costituzione" in contemporanea con la chiusura del trattato di Maastricht e pochissimi anni dopo la caduta del muro di Berlino.
Per Grimm già allora con lo sviluppo dei processi di governance europea, e l'eurozona e l'Ue come le conosciamo dovevano ancora evolvere, si intravedeva un processo di svuotamento della costituzione. Nonostante infatti, già all'epoca, pochissime nazioni non fossero dotate di costituzione si intravedeva quindi un processo di svuotamento materiale della forza reale di un dettato costituzionale. Perché sottoposto a vincoli di sovranità popolare i cui risvolti in materia di diritti concreti non erano, già allora, materialmente esigibili. A causa dei nuovi vincoli della governance europea che non solo si pone, dal punto di vista dei poteri, come gerarchicamente superiore (pur rispettando le forme) alla costituzione di un singolo paese. Ma anche aspira risorse dalla dimensione nazionale per redistribuirle ovunque in modo ineguale e di fatto senza mandato di sovranità popolare. Sappiamo oggi che la Germania tende a risolvere questa contraddizione tra costituzione nazionale e governance continentale, in qualche modo, europeizzando le necessità materiali e giuridiche di Berlino. L'ormai storica sentenza della corte costituzionale di Karlsruhe del 2009, che ribadiva il primato della costituzione nazionale sulla governance europea, rappresenta il punto di mediazione su questi temi tutto interno ad esigenze tedesche. Così come l'attesa della sentenza del 2012, sempre della corte di Karlsruhe, sul fiscal compact perché diventasse operativo e quella sulle elezioni politiche tedesche del 2013 per capire il futuro politico dell'eurozona.

Lo scorso anno, per fissare un ventennio di dibattito su questi temi, Dieter Grimm ha pubblicato un Die Zukunft der Verfassung II (Suhrkamp, 2012) e, a questo punto, una domanda sorge spontanea. Ma Maurizio Landini, assieme a chi lo supporta a vario titolo, è consapevole di guidare un sindacato, e dietro di lui un movimento di opinione, che sui temi della costituzione è vicino a sfiorare il ridicolo? Già perché sul piano italiano, a parte alcuni dibattiti specialistici e non politici, la discussione sul futuro della Costituzione è assente. E l'epoca è impegnativa per cui il dibattito, quello politico non quello storiografico, non deve stare solo sul tema del futuro della Costituzione italiana (che è comunque in preda al binomio dell'orrore Violante-Quagliarello) ma anche su quello del futuro della costituzione in sé. E qui sorgono alcune domande. Se la Germania tende a risolvere la contraddizione tra costituzione nazionale e governance continentale, spaccatura aperta dai processi di cessione di sovranità richiesti da finanza ed economia globali, germanizzando i processi europei quale è il destino della Costituzione italiana? Delle due l'una: o in questo paese si ripristina il primato della costituzione nazionale sulla governance continentale, e allora la governance non dura lo spazio di un trimestre travolta da un effetto domino in Europa, oppure la Costituzione del '48 non ha futuro. Destinata ad essere progressivamente, come accade da un ventennio, disgregata dalle evoluzioni della governance europea. O da un federalismo a guida berlinese come auspicato dalla Merkel. Oppure si teorizza il mantenimento dell'equilibrio tra poteri costituzionali e governance in un paese solo, la Germania, qualche decennio dopo le teorie sul socialismo in un solo paese. Il problema del futuro della Costituzione italiana e della costituzione in sé sono quindi assenti dall'orizzonte politico, e di implicito dibattito, promosso da Landini e dai suoi sostenitori.

Ma ci fosse solo questo problema,  che già fa guardare le bandiere della Fiom come un fenomeno che sta a metà tra l'archeologia politica e quei bagliori ai confini della realtà,  in fondo si potrebbe ancora ragionare in termini classici. E' che quando la realtà irrompe nei codici autoreferenziali del dibattito politico mainstream lo fa senza argini. Già perché non è solo in discussione il futuro della Costituzione, cosa vuoi che sia, ma anche il nesso tra Costituzione e lavoro. La Grundorm, la norma fondamentale della Costituzione italiana, dell'articolo uno sul diritto al lavoro. E non perché la Costituzione non garantisce di fatto ciò che tutela normativamente. Perché è il fenomeno in sé, il lavoro, che si sta esaurendo come forma generale della riproduzione della ricchezza individuale e sociale. Anche qui il fenomeno era ampiamente rilevabile dagli anni '80, analizzato in forma matura già negli anni '90 (ad esempio il breve e brillante Andrè Gorz, Il lavoro debole. Oltre la società salariale, Edizioni Lavoro, 1994). Perché il lavoro, oltre ad essere un processo sociale di subordinazione al capitale (ed in miriadi di forme nuove ed antichissime), oggi stabilmente non garantisce più le risorse per la riproduzione del sé e del legame sociale. I working poor degli anni '90 sono diventati la forma generale del lavoro, nelle società occidentali, anche per professioni più astratte e complesse del lavoro manuale. E per far si che il lavoro torni a pagare in termini di reddito si deve distruggere tanta di quella ricchezza da far impallidire i più cinici. Per fare un esempio su tutti: i lavoratori dell'auto serbi che sono tornati ad essere operai pochissimi anni fa. Dopo esserlo stato a 1000 marchi al mese ora lo sono a 400 euro. Dopo diverse guerre civili, distruzioni di capitali e città e severe ristrutturazioni economiche, sociali, politiche e organizzative. Davvero meglio che il lavoro non torni a rendere in Italia visto ciò che ci vuole per farlo rendere. La crisi generale del lavoro occidentale, come forma sociale di riproduzione della ricchezza, non può quindi essere risolta dal lavoro che in termini devastanti. Distruggendo il salario presente per riprodurre, dopo, condizioni salariali peggiori. Meglio non percorrere quella strada. Che poi è quella greca dove il lavoro è tornato a "rendere" dopo una distruzione di economia e salario così impressionante che si stima una ripartenza autonoma dell'economia greca attorno agli anni '30 di questo secolo. E sull'Italia bisogna ricordare che l'attuale ministro del lavoro, prima di diventare ministro, è stato chiaro sul destino materiale dell'oggetto lavoro. Mostrando dati di crescita dell'un per cento annuale fino al 2050. Questo significa che il lavoro ha davanti a sé un processo di contrazione della sua presenza nella società. Un tema di impressionante importanza, e portata, ma non proprio una sorpresa dal punto di vista dell'antropologia economica. La disciplina che vede le economie regolate sul "lavoro" e sul "mercato di capitali" come un'eccezione nella storia e non come la norma.

Se il futuro della Costituzione è in discussione, se la contraddizione tra governance europea e Costituzione del '48 è evidente, salvo le retoriche ecumeniche (e quelle furbe e generiche sul "ricontrattiamo lo stare in Europa"), se il nesso tra Costituzione e lavoro è saltato (non solo perché è in discussione il futuro della Costituzione ma anche quello del lavoro) è chiaro che lo spazio politico, e sindacale, di Maurizio Landini è poco più che testimoniale. E non c'è niente di male che lo sia. Perché alcuni diritti vanno comunque presidiati e certe retoriche sono utili in qualsiasi modo al dibattito pubblico. Solo, come si intuisce, il futuro della politica e dell'economia sta da un'altra parte. La crisi della Costituzione e del lavoro ce lo indicano, pieno di pericoli e di zone ai confini della realtà, ma vivo, sconfinato e vero. Il resto è materia per i numeri del giornale diretto da Ezio Mauro.

per Senza Soste, nique la police

19 maggio 2013


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