Sabato 11 maggio è stata la giornata
dei riti stanchi. I riti di una sinistra dispersa, malridotta, messa
all'angolo dai propri errori, dalle proprie sordità e destinata a
proporre il ritorno dell'uguale.
La scena peggiore si è svolta a Roma, all'assemblea nazionale del Pd. Abbiamo assistito alla decisione di procedere con il rinnovamento eleggendo segretario un già segretario della Cgil, uomo di altra generazione e di antichi riti e intimo sodale di coloro che hanno portato il Pd sull'orlo del suicidio. Basterebbe questo per sottolineare l'inconsistenza dell'assise democratica. Ma in realtà non basta. Perché il Pd è ancora in grado di ballare sopra la propria disgregazione senza aprire una discussione politica quale essa sia. Ci hanno provato alcuni interventi a indicare un profilo futuro, il più legato possibile a un'identità socialista o socialdemocratica come argine alla crisi economica. Non si sono accorti, però, che anche la socialdemocrazia ha ormai i suoi guai. Come dimostra l'esperienza disastrosa di François Hollande in Francia o la proposta della Spd tedesca di sciogliere l'Internazionale socialista in una nebulosa, per ora, "Alleanza progressista".
Quello che il Pd non riesce a fare è andare al cuore del problema. Che riguarda la propria identità politica, la natura delle proprie scelte e la definizione di un progetto politico. Soprattutto ora che è venuto meno il collante dell'antiberlusconismo militante, sacrificato sull'altare di una governabilità purché sia. Il Pd è da tempo un partito che ha rotto con gli antichi legami di classe e con gli interessi dei ceti popolari ma non può dirlo ad alta voce perché in quell'ambito pesca ancora parte dei propri consensi. A oltre trent'anni dal "guado", che caratterizzò il Pci, incapace allora di scegliere l'approdo definitivo alla socialdemocrazia occidentale, anche il Pd non sceglie di compiere definitivamente la propria traiettoria moderata e centrista. Allo stesso tempo, gli è preclusa la strada di un riformismo moderato impedito dalla fine dei margini di mediazione e di compromesso sociale esauriti dalla crisi. Per imboccare, davvero, una strada alternativa di fronte alla durezza della recessione internazionale, un partito dovrebbe chiedere la fine del fiscal compact, la rinegoziazione del debito, una politica di espansione finanziaria che però impatterebbe contro i parametri imposti da Maastricht. Un po' troppo per chi si definisce campione dell'europeismo liberale.
Alla crisi di identità si somma, e ne discende, la lotta interna tra cordate in guerra perenne. Quando si sta insieme su obiettivi poco chiari, del resto, a prevalere è lo spirito di clan, l'appartenenza a logiche di potere di cui è stata maestra la Democrazia cristiana o il Psi. Il Pd, con la vicenda degli scrutini per il Quirinale, è riuscito a incarnare i vizi della peggior Dc che, però, nella sua lunga storia è riuscita a trovare al proprio interno vincoli di unità che il Pd non sa trovare.
L'elezione di Epifani si è svolta su questa traccia nascondendo il vero scontro che sta covando in quel partito, quello tra Enrico Letta e Matteo Renzi per la futura leadership di un governo di centrosinistra. Sempre che gli avvenimenti dei prossimi mesi rendano possibile questo scenario e non si assista a rivolgimenti ulteriori.
Un altro rito si è consumato, sempre a Roma, ma stavolta in piazza. Quella di Sinistra, Ecologia e Libertà, infatti, è stata la classica manifestazione di partito contrabbandata per rifondazione della sinistra. Percorso annunciato, da circa venti anni, dagli stessi protagonisti e mai avvenuto. Nel comizio conclusivo, Nichi Vendola ha fatto chiaramente capire che, pur seguendo un itinerario diverso e cercando di capitalizzare lo scontento a sinistra per il governo Letta-Alfano, la strategia è quella di attendere la "conversione" del Pd e il suo ritorno nell'alveo del centrosinistra. E' una prospettiva di fondo a cui Sel non può rinunciare, pena la modifica della propria natura. Ma pensare di costruire una sinistra che, al fondo, deve attendere il Pd, significa rinunciare all'impresa. Significa, di fatto, precludersi la necessaria ricerca di un programma all'altezza della crisi - rifiuto del debito, patrimoniale, riforma fiscale, diritti del lavoro, etc. - su cui provare a innescare una riscossa sociale e una lotta per il governo. E' questo che spiega il successo del movimento grillino che, ponendosi con chiarezza fuori dai classici schieramenti italiani e su un programma eclettico ma radicale, ha ottenuto uno sfondamento elettorale di portata storica. Grillo è lo specchio in cui la sinistra tradizionale può osservare tutti i propri errori, il volto che ricorderà sempre le tante occasioni mancate.
Diverso il discorso di Stefano Rodotà, vero protagonista della manifestazione, che in questi giorni sta frequentando diversi tavoli e diverse piazze - sabato 18 sarà in quella della Fiom - proponendo un'ipotesi, più intelligente, di accumulazione delle forze anche sul piano programmatico, prima di procedere alla proclamazione "frettolosa" di nuovi partiti o partitini. Un intento lucido, visti gli errori finora compiuti, ma che non definisce una traiettoria comprensibile e non si discosta da una concezione "giuridica" del conflitto sociale. Anche perché, anche lui, si muove nel solco del "no" alla divisione della sinistra, intendendo per sinistra anche il Pd.
Su un altro piano, per la natura e la storia dei soggetti in campo, si colloca la vicenda che ha portato a Bologna alla nascita del movimento anticapitalista "Ross@", capeggiato da Giorgio Cremaschi. Qui siamo fuori dagli errori della sinistra di governo - fatta eccezione per quella componente di Rifondazione che continua a non chiarire dove vuole stare -. Siamo però nel campo di una storia che riguarda, o ha riguardato, settori che si sono battuti per il cambiamento e la trasformazione sociale e compagni di strada di un percorso storico. Per quanto, sia pure da posizioni distanti, si possano fare gli auguri ai promotori dell'iniziativa, la delusione per l'assemblea bolognese è stata forte. Quello che, finora, è stato il gruppo trainante dell'esperienza del Comitato No Debito nulla ha detto sulla conclusione di quella esperienza e sul fatto che, oggi, i proponenti del nuovo progetto siano in numero ridotto rispetto a quelli originari. Ma è l'orizzonte delineato, la sequenza, e l'età politica (non anagrafica) dei vari dirigenti, a offrire la sensazione di una "coazione a ripetere".
Sul piano dei contenuti colpiscono, negativamente, i riferimenti ideologici al "socialismo del XXI secolo" da conquistare "progressivamente", la riproposizione consolatoria di un'identità "rossa", socialista addirittura, su cui non è fatta alcuna riflessione, o la sordina posta su temi internazionali, pensiamo alla Siria, che imporranno scelte scottanti. Ma a renderci distanti è, soprattutto, la scelta di riproporre il meccanismo tradizionale della soggettività incardinata sulla proposta di un micro-soggetto pre-definitivo rispetto ai conflitti e alle esperienze politiche, soprattutto quelle delle nuove generazioni. Alle quali si finirà per proporre, inevitabilmente, una "linea" costruita tutta dall'esterno, senza la mescolanza di esperienze, coscienze e progetti, resa necessaria dalla disfatta subita storicamente e dalle grandi modificazioni avvenute nel capitalismo contemporaneo. Quelle relative alla composizione di classe, l'assottigliarsi dei linguaggi e delle categorie storiche, la sostanziale fine del movimento operaio come lo abbiamo conosciuto nel Novecento. Lo stesso "tsunami" realizzato dalla vicenda Grillo, un sommovimento nella relazione tra "masse" e politica, rendono quello schema desueto e inefficace. Si tratta, ovviamente, di un giudizio di parte ma come tale lo proponiamo.
Il problema è che non si riesce a cogliere la portata epocale delle trasformazioni avvenute. Quello che accade oggi al Pd, che a cascata riguarda Sel e le altre forze di sinistra, è quello che è già accaduto in passato alla sinistra radicale. Bertinotti è stato steso un po' prima di Bersani. La crisi però è la stessa ed è la crisi che si è affermata con l'89 e con l'incapacità della sinistra storica, radicale e moderata, rivoluzionaria e riformista, di riconnettersi al tempo presente. “Dobbiamo stare di più nei luoghi del conflitto” è stato ripetuto a dismisura per anni e anni. Nessuno, però, si è posto l'altra domanda: per dire cosa? La capacità di dire qualcosa e il diritto, l'autorevolezza, di poterlo fare in luoghi sfuggenti del conflitto e in ambiti fluidi della movimentazione sociale, costituiscono i corni del problema della ricostruzione di una nuova soggettività.
Il futuro ha bisogno di un'irruzione e di una novità. Ha bisogno di sperimentazioni, sociali, politiche e poi miste. Ha bisogno di rotture epistemologiche con la storia passata e di recupero della memoria nel senso benjamiano. Occorre aprirsi a questa opzione e fare in modo che si possa affermare "quello che ancora deve venire al mondo". Il nuovo non scaturisce dall'antico per germinazione, per filiazione legittima, ma in virtù della trasgressione di ciò che esiste e dell'ordine stabilito.
Fonte
La scena peggiore si è svolta a Roma, all'assemblea nazionale del Pd. Abbiamo assistito alla decisione di procedere con il rinnovamento eleggendo segretario un già segretario della Cgil, uomo di altra generazione e di antichi riti e intimo sodale di coloro che hanno portato il Pd sull'orlo del suicidio. Basterebbe questo per sottolineare l'inconsistenza dell'assise democratica. Ma in realtà non basta. Perché il Pd è ancora in grado di ballare sopra la propria disgregazione senza aprire una discussione politica quale essa sia. Ci hanno provato alcuni interventi a indicare un profilo futuro, il più legato possibile a un'identità socialista o socialdemocratica come argine alla crisi economica. Non si sono accorti, però, che anche la socialdemocrazia ha ormai i suoi guai. Come dimostra l'esperienza disastrosa di François Hollande in Francia o la proposta della Spd tedesca di sciogliere l'Internazionale socialista in una nebulosa, per ora, "Alleanza progressista".
Quello che il Pd non riesce a fare è andare al cuore del problema. Che riguarda la propria identità politica, la natura delle proprie scelte e la definizione di un progetto politico. Soprattutto ora che è venuto meno il collante dell'antiberlusconismo militante, sacrificato sull'altare di una governabilità purché sia. Il Pd è da tempo un partito che ha rotto con gli antichi legami di classe e con gli interessi dei ceti popolari ma non può dirlo ad alta voce perché in quell'ambito pesca ancora parte dei propri consensi. A oltre trent'anni dal "guado", che caratterizzò il Pci, incapace allora di scegliere l'approdo definitivo alla socialdemocrazia occidentale, anche il Pd non sceglie di compiere definitivamente la propria traiettoria moderata e centrista. Allo stesso tempo, gli è preclusa la strada di un riformismo moderato impedito dalla fine dei margini di mediazione e di compromesso sociale esauriti dalla crisi. Per imboccare, davvero, una strada alternativa di fronte alla durezza della recessione internazionale, un partito dovrebbe chiedere la fine del fiscal compact, la rinegoziazione del debito, una politica di espansione finanziaria che però impatterebbe contro i parametri imposti da Maastricht. Un po' troppo per chi si definisce campione dell'europeismo liberale.
Alla crisi di identità si somma, e ne discende, la lotta interna tra cordate in guerra perenne. Quando si sta insieme su obiettivi poco chiari, del resto, a prevalere è lo spirito di clan, l'appartenenza a logiche di potere di cui è stata maestra la Democrazia cristiana o il Psi. Il Pd, con la vicenda degli scrutini per il Quirinale, è riuscito a incarnare i vizi della peggior Dc che, però, nella sua lunga storia è riuscita a trovare al proprio interno vincoli di unità che il Pd non sa trovare.
L'elezione di Epifani si è svolta su questa traccia nascondendo il vero scontro che sta covando in quel partito, quello tra Enrico Letta e Matteo Renzi per la futura leadership di un governo di centrosinistra. Sempre che gli avvenimenti dei prossimi mesi rendano possibile questo scenario e non si assista a rivolgimenti ulteriori.
Un altro rito si è consumato, sempre a Roma, ma stavolta in piazza. Quella di Sinistra, Ecologia e Libertà, infatti, è stata la classica manifestazione di partito contrabbandata per rifondazione della sinistra. Percorso annunciato, da circa venti anni, dagli stessi protagonisti e mai avvenuto. Nel comizio conclusivo, Nichi Vendola ha fatto chiaramente capire che, pur seguendo un itinerario diverso e cercando di capitalizzare lo scontento a sinistra per il governo Letta-Alfano, la strategia è quella di attendere la "conversione" del Pd e il suo ritorno nell'alveo del centrosinistra. E' una prospettiva di fondo a cui Sel non può rinunciare, pena la modifica della propria natura. Ma pensare di costruire una sinistra che, al fondo, deve attendere il Pd, significa rinunciare all'impresa. Significa, di fatto, precludersi la necessaria ricerca di un programma all'altezza della crisi - rifiuto del debito, patrimoniale, riforma fiscale, diritti del lavoro, etc. - su cui provare a innescare una riscossa sociale e una lotta per il governo. E' questo che spiega il successo del movimento grillino che, ponendosi con chiarezza fuori dai classici schieramenti italiani e su un programma eclettico ma radicale, ha ottenuto uno sfondamento elettorale di portata storica. Grillo è lo specchio in cui la sinistra tradizionale può osservare tutti i propri errori, il volto che ricorderà sempre le tante occasioni mancate.
Diverso il discorso di Stefano Rodotà, vero protagonista della manifestazione, che in questi giorni sta frequentando diversi tavoli e diverse piazze - sabato 18 sarà in quella della Fiom - proponendo un'ipotesi, più intelligente, di accumulazione delle forze anche sul piano programmatico, prima di procedere alla proclamazione "frettolosa" di nuovi partiti o partitini. Un intento lucido, visti gli errori finora compiuti, ma che non definisce una traiettoria comprensibile e non si discosta da una concezione "giuridica" del conflitto sociale. Anche perché, anche lui, si muove nel solco del "no" alla divisione della sinistra, intendendo per sinistra anche il Pd.
Su un altro piano, per la natura e la storia dei soggetti in campo, si colloca la vicenda che ha portato a Bologna alla nascita del movimento anticapitalista "Ross@", capeggiato da Giorgio Cremaschi. Qui siamo fuori dagli errori della sinistra di governo - fatta eccezione per quella componente di Rifondazione che continua a non chiarire dove vuole stare -. Siamo però nel campo di una storia che riguarda, o ha riguardato, settori che si sono battuti per il cambiamento e la trasformazione sociale e compagni di strada di un percorso storico. Per quanto, sia pure da posizioni distanti, si possano fare gli auguri ai promotori dell'iniziativa, la delusione per l'assemblea bolognese è stata forte. Quello che, finora, è stato il gruppo trainante dell'esperienza del Comitato No Debito nulla ha detto sulla conclusione di quella esperienza e sul fatto che, oggi, i proponenti del nuovo progetto siano in numero ridotto rispetto a quelli originari. Ma è l'orizzonte delineato, la sequenza, e l'età politica (non anagrafica) dei vari dirigenti, a offrire la sensazione di una "coazione a ripetere".
Sul piano dei contenuti colpiscono, negativamente, i riferimenti ideologici al "socialismo del XXI secolo" da conquistare "progressivamente", la riproposizione consolatoria di un'identità "rossa", socialista addirittura, su cui non è fatta alcuna riflessione, o la sordina posta su temi internazionali, pensiamo alla Siria, che imporranno scelte scottanti. Ma a renderci distanti è, soprattutto, la scelta di riproporre il meccanismo tradizionale della soggettività incardinata sulla proposta di un micro-soggetto pre-definitivo rispetto ai conflitti e alle esperienze politiche, soprattutto quelle delle nuove generazioni. Alle quali si finirà per proporre, inevitabilmente, una "linea" costruita tutta dall'esterno, senza la mescolanza di esperienze, coscienze e progetti, resa necessaria dalla disfatta subita storicamente e dalle grandi modificazioni avvenute nel capitalismo contemporaneo. Quelle relative alla composizione di classe, l'assottigliarsi dei linguaggi e delle categorie storiche, la sostanziale fine del movimento operaio come lo abbiamo conosciuto nel Novecento. Lo stesso "tsunami" realizzato dalla vicenda Grillo, un sommovimento nella relazione tra "masse" e politica, rendono quello schema desueto e inefficace. Si tratta, ovviamente, di un giudizio di parte ma come tale lo proponiamo.
Il problema è che non si riesce a cogliere la portata epocale delle trasformazioni avvenute. Quello che accade oggi al Pd, che a cascata riguarda Sel e le altre forze di sinistra, è quello che è già accaduto in passato alla sinistra radicale. Bertinotti è stato steso un po' prima di Bersani. La crisi però è la stessa ed è la crisi che si è affermata con l'89 e con l'incapacità della sinistra storica, radicale e moderata, rivoluzionaria e riformista, di riconnettersi al tempo presente. “Dobbiamo stare di più nei luoghi del conflitto” è stato ripetuto a dismisura per anni e anni. Nessuno, però, si è posto l'altra domanda: per dire cosa? La capacità di dire qualcosa e il diritto, l'autorevolezza, di poterlo fare in luoghi sfuggenti del conflitto e in ambiti fluidi della movimentazione sociale, costituiscono i corni del problema della ricostruzione di una nuova soggettività.
Il futuro ha bisogno di un'irruzione e di una novità. Ha bisogno di sperimentazioni, sociali, politiche e poi miste. Ha bisogno di rotture epistemologiche con la storia passata e di recupero della memoria nel senso benjamiano. Occorre aprirsi a questa opzione e fare in modo che si possa affermare "quello che ancora deve venire al mondo". Il nuovo non scaturisce dall'antico per germinazione, per filiazione legittima, ma in virtù della trasgressione di ciò che esiste e dell'ordine stabilito.
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