Lenta ma viene la giustizia anche nei paesi dove meno si pensava
potesse arrivare. Ieri in Guatemala l’ex-dittatore Efraín Ríos Montt è
stato condannato a 80 anni di carcere per genocidio e violazioni dei
diritti umani al termine di un processo iniziato nel gennaio 2012.
Soprattutto, per la prima volta, una sentenza conferma quanto sostenuto
dall’ONU e dalla chiesa cattolica: sì, in Guatemala vi fu un genocidio
costato la vita ad almeno 200.000 persone.
Nello specifico del processo Ríos Montt è stato condannato come
mandante di 15 massacri commessi dall’esercito. Questi costarono la vita
a 1.771 indigeni maya-ixiles nel dipartimento del Quiché, nel nord del
paese, avvenuti tra il 1982 e il 1983 durante il suo regime. Al processo
ha assistito la premio Nobel Rigoberta Menchú, anch’essa di etnia
Quiché e vittima del genocidio. A Ríos Montt, che si dichiara innocente e
considera illegale il tribunale, sono stati anche revocati gli arresti
domiciliari ai quali sottostava da oltre un anno, ed è stato trasferito
in un carcere di massima sicurezza.
La sentenza è di portata storica per molti motivi, dalla breccia
nell’impunità di un paese particolarmente ingiusto, al valore
riparatorio per le vittime, al riconoscimento storico di quella che non
fu guerra civile ma genocidio. Ríos Montt è colpevole di aver ordinato
la politica di “terra bruciata” su popolazioni indigene inermi, accusate
di aver collaborato con la guerriglia di sinistra dell’URNG. Durante il
processo oltre cento testimoni, vestiti nei tradizionali colori dei
popoli indigeni guatemaltechi, hanno dettagliato orrori inenarrabili,
torture, assassini indiscriminati, stupri. Ciò avvenne nel momento più
brutale di un conflitto sanguinoso iniziato col rovesciamento voluto
dagli Stati Uniti del governo democratico di Jacobo Árbenz nel 1954,
dagli Stati Uniti appoggiato in tutti i suoi passaggi più brutali e
terminato solo nel 1996. Inizialmente il processo contro Ríos Montt
prendeva in esame 266 massacri. L’avvicendarsi dei testimoni,
soprattutto donne umilissime, che hanno raccontato soprattutto gli
stupri sistematici, 1.400 dei quali erano oggetto del processo, è stato
in sé uno degli aspetti più importanti del giudizio celebrato: per la
prima volta erano chiamate a far sentire la loro voce, per la prima
volta potevano sperare di essere credute. «L’ordine era – ha
testimoniato con coraggio una donna allora adolescente – che prima
fossimo stuprate dai soldati sani, e solo alla fine da quelli ammalati
di sifilide e gonorrea. Soprattutto le più giovani di noi e le bambine
non sopravvivevano».
Per il paese centroamericano è un momento storico. Pastore
evangelico, Ríos Montt è considerato anche il principale impulsore
locale della penetrazione protestante nel paese e, anche dopo la fine
del suo regime militare, ha continuato ad essere uno degli uomini più
potenti del paese. Nel 2000 aveva fondato il Frente Republicano
Guatemalteco (FRG), e nel 2003 era riuscito a candidarsi alla presidenza
della repubblica ottenendo il 20% dei voti. L’attuale capo dello Stato,
Otto Pérez Molina, anch’egli militare e coinvolto -sia pure con minore
responsabilità- nella repressione, ha sostenuto che il governo
rispetterà la sentenza e ha voluto risaltare i passi avanti del paese
«20 anni fa questo processo non sarebbe stato neanche pensabile». Pérez
ammette che in Guatemala vi furono violazioni dei diritti umani, ma nega
che vi fu un genocidio, come invece, finalmente, la sentenza storica di
ieri stabilisce.
Sull’altro fronte per Hellen Mack, sorella di Myrna Mack (qui la biografia),
la grande antropologa assassinata nel 1990 proprio per le sue ricerche
sul genocidio, il processo e la condanna di Ríos marcano un passaggio
storico: «per la prima volta gli indigeni hanno potuto far sentire la
propria voce. Per la prima volta hanno potuto pensare che il parlare
avesse un senso. Per la prima volta hanno sentito che è possibile
arrivare alla verità e alla giustizia». È una verità e una giustizia a
lungo cancellata inascoltata anche dal complesso mediatico monopolista
internazionale, che ha preferito privilegiare la versione ufficiale da
guerra fredda della necessità della difesa dello Stato. Mentivano ed
erano complici dei carnefici. Nel paese centroamericano, come ha
sostenuto per decenni l’azione instancabile di molti tra i quali
Rigoberta Menchú e molti sacerdoti e suore cattoliche che hanno
collaborato alla scrittura dei quattro preziosissimi volumi del «Nunca
Más» (costato tra i tanti la vita a Juan Gerardi) come comincia oggi ad essere confermato da sentenze, vi fu un deliberato genocidio.
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