Ci sono anche aziende italiane tra i committenti delle fabbriche della
morte in Bangladesh. Benetton smentisce ma la Campagna Abiti Puliti
chiede alla multinazionale di risarcire le vittime della strage di
operai.
Ogni giorno che passa aumenta il triste bilancio della tragedia
del ‘Rana palace’, il palazzo che si è letteralmente sbriciolato lo
scorso 24 aprile alla periferia di Dacca seppellendo migliaia di operi e
operaie impiegate in fabbriche tessili che lavoravano senza alcun
rispetto delle misure di sicurezza e con assoluta noncuranza per la vita
di chi permette alle multinazionali straniere enormi guadagni
nonostante i salari da fame e le condizioni di lavoro di semi schiavitù.
Con il recupero tra le macerie di altri innumerevoli cadaveri, è
ormai arrivato a quota settecento il conteggio delle vittime.
L'ultimo bilancio ufficiale si attesta infatti ad almeno 693 vittime,
mentre i superstiti tratti in salvo dai soccorritori ammontano a 2.437.
Ma sono ancora parecchi i dispersi, il che significa che a così tanti
giorni dal crollo è impossibile trovare superstiti ancora in vita sotto
le macerie. Nel palazzo di otto piani, che in base alla licenza di
costruzione non sarebbe dovuto andare oltre il quinto piano, al momento
del crollo si trovavano circa 3.000 persone, la maggior parte impiegata
in cinque fabbriche d'indumenti a basso costo per i colossi stranieri
delle vendite al dettaglio.
L’ennesima strage sul
lavoro in una delle fabbriche tessili del Bangladesh chiama in causa
anche alcuni marchi italiani dell’abbigliamento. La filiera produttiva
che porta le lavorazioni nei paesi a basso e bassissimo costo del lavoro
– nel Bangladesh è stato un vero e proprio boom negli ultimi anni – fa
sì che anche marchi prestigiosi e costosi sui mercati occidentali
ricavino altissimi margini di profitto dalle pessime condizioni di
lavoro nei paesi dell’Estremo Oriente.
La Campagna Abiti
Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, ha chiesto
all'azienda Benetton, attraverso una lettera aperta indirizzata ai
vertici della società, un impegno concreto per affrontare l'emergenza
scaturita dalla tragedia del Rana Plaza. In particolare, scrivono gli
attivisti in un comunicato, viste le ultime dichiarazioni rilasciate dal
marchio alla stampa internazionale, con cui si è detto disponibile a
contribuire al risarcimento delle vittime del crollo, e alla luce delle
numerose prove che nonostante le smentite legano l'azienda a una delle
fabbriche del Rana Plaza, la Campagna Abiti Puliti chiede a Benetton
d'inviare immediatamente una sua delegazione in Bangladesh, stabilendo
un contatto diretto con Abiti Puliti e i sindacati locali per fornire
immediato supporto alle vittime della tragedia che hanno bisogno di
cure, cibo e assistenza; di contribuire al fondo di risarcimento
negoziato con i sindacati bengalesi e IndustryALL – la federazione
internazionale dei sindacati tessili – in base a una lista trasparente
che elenchi tutte le vittime e i feriti. La cifra totale, secondo le
prime stime, non potrà essere inferiore ai 30milioni di dollari, per
risarcire le vittime o le famiglie dei deceduti, per gli stipendi
mancati per l'intero ciclo di vita e i danni psicologici subiti. Sono
esclusi i costi dell'assistenza medica per centinaia di feriti. La
Campagna Abiti Puliti chiede inoltre a Benetton di siglare
il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un programma specifico
di azione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione
dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e
revisione strutturale delle norme di sicurezza per rimuovere alla radice
le cause che rendono le fabbriche del paese insicure e rischiose per
migliaia di lavoratori. Inoltre, che l'azienda renda pubblica e
trasparente la lista dei propri fornitori, i report degli audit
effettuati e le azioni correttive intraprese per consentire alle
organizzazioni non governative e ai consumatori di valutare in maniera
indipendente la qualità dei loro controlli e l'effettivo miglioramento
dei livelli di salute e di sicurezza presso i fornitori.
Oggi
circa quattrocento operai sopravvissuti al disastro hanno inscenato
un sit-in di protesta, bloccando l'autostrada che collega Dacca al sud e
al sud-ovest del Bangladesh, reclamando dai proprietari degli opifici
distrutti, anche a nome dei colleghi, il pagamento degli stipendi
arretrati e la corresponsione dei risarcimenti per i danni subiti. Al di
là delle promesse e degli impegni presi dalle multinazionali straniere,
molte realtà sindacali del Bangladesh manifestano da giorni affinché il
governo del paese imponga a chi vuole investire nel paese precisi
obblighi per quanto riguarda la sicurezza, i salari, i diritti. Cosa che
neanche dopo la tragedia del 24 aprile – l’ennesima e la più grave
degli ultimi anni – l’esecutivo di Dacca sembra disponibile a fare…
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