Avevano braccato Bernardo Provenzano già agli inizi degli anni duemila. Ma le loro segnalazioni sarebbero finite sempre nel vuoto, ignorate, depistate e dimenticate nei cassetti: il ragioniere di Cosa Nostra, l’uomo che per i magistrati della procura di Palermo è il garante del patto Stato – mafia, non doveva essere arrestato. E così è stato fino all’11 aprile del 2006, quando Binnu ‘u tratturi viene ammanettato a favore di telecamera tra i pizzini e la cicoria di Montagna dei Cavalli, in un casolare nei pressi di Corleone. Una latitanza lunga 41 anni e garantita – secondo la stessa procura palermitana – soprattutto da alcune coperture istituzionali.
Coperture che avrebbero funzionato fino al 2006 grazie ai “protettori di Binnu”, elementi intermedi tra la regia politica del patto scellerato firmato da pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra, e la parte operativa che operando sul territorio doveva “evitare” di fermare il boss, neutralizzando le singole attività investigative che potevano portare all’individuazione di Provenzano. Solo che oggi, a sette anni dall’arresto del boss corleonese e a pochi giorni dall’inizio del processo sulla Trattativa, le denunce su quelle omissioni nelle indagini per prendere Binnu iniziano a moltiplicarsi. Il grado di fondatezza degli esposti lo deciderà la magistratura, ma è un fatto che dopo la denuncia del maresciallo Saverio Masi, attuale capo scorta di Nino Di Matteo, il sostituto procuratore che coordina le indagini sulla Trattativa Stato – mafia, c’è un altro carabiniere che ha raccontato i vari ostacoli trovati durante la caccia al capo di Cosa Nostra nei primi anni duemila. Il militare che sarebbe stato più volte bloccato mentre tentava di arrestare Provenzano si chiama Salvatore Fiducia, è un luogotenente dei Carabinieri alle soglie della pensione, e ha presentato un esposto circostanziato alla Guardia di finanza di Palermo. Già in passato Fiducia aveva denunciato la strana scomparsa di una relazione di servizio in cui faceva cenno ad un confidente che aveva parlato proprio della latitanza di Provenzano. Quella denuncia è stata però recentemente archiviata dalla procura di Palermo. Oggi però Fiducia va oltre, e in quelle pagine depositate ai finanzieri racconta come alcune relazioni di servizio fornite ai suoi superiori nel periodo 2001 – 2004, sarebbero state ignorate, corrette ed in certi casi alterate.
Una denuncia pesante quella di Fiducia, dato che in quelle relazioni si faceva esplicito riferimento a possibili covi in cui si nascondeva Bernardo Provenzano. Un modus operandi, quello dell’intralciamento delle indagini, che sarebbe proseguito anche in seguito, quando nel mirino di Fiducia era finito l’altro super latitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. “Intorno al 2004 il mio cliente racconta di aver individuato un casolare in cui era possibile la presenza di Provenzano, ma i suoi superiori gli intimarono più volte di evitare quel posto” racconta al fattoquotidiano.it l’avvocato Giorgio Carta, legale dei due carabinieri.
“Masi e Fiducia denunciano le stesse tipologie di ostacolo. Prima Masi e poi Fiducia – continua il legale – sostengono di aver individuato casolari dove avrebbero potuto rifugiarsi i latitanti, e anziché essere incoraggiati, sono stati stroncati. Venne chiesto loro di coordinarsi con il Ros, dopo di che hanno perso di vista le indagini”. E proprio la testimonianza di Masi è stata citata da Di Matteo nella lunga requisitoria del processo per la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso nel 1995. Imputati di favoreggiamento a Cosa Nostra ci sono i due ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. Il procedimento per la mancata cattura a Mezzojuso nasce dalla denuncia di un altro carabiniere, Michele Riccio, che sarebbe stato intralciato mentre, grazie alle confidenze dell’infiltrato Luigi Ilardo, era riuscito a localizzare Provenzano in un casolare della provincia palermitana.
Le denunce di Masi e Fiducia però riguardano un periodo successivo, ma nei loro esposti, fino ad oggi mantenuti segreti nella forma integrale, fanno i nomi di quei superiori che avrebbero “distratto” le indagini dei due carabinieri su Provenzano prima, e su Messina Denaro dopo. “Masi e Fiducia, pur lavorando entrambi per il comando provinciale di Palermo, lavoravano separatamente, senza avere contatti, ma riferendo comunque agli stessi superiori” racconta sempre l’avvocato Carta che collega alla delicata vicenda il processo a carico di Masi, condannato in primo grado per falso e tentata truffa: il carabiniere avrebbe tentato di farsi annullare una multa da 100 euro, dichiarando che nonostante la vettura multata fosse nelle sue disponibilità private, in quel momento si trovava in servizio. “Usavamo le macchine di amici perché i mafiosi conoscevano le nostre auto di servizio” ha raccontato due anni fa durante la deposizione al processo contro Mori e Obinu. Se Masi venisse condannato in via definitiva rischierebbe la destituzione dall’Arma. Nel frattempo però, oltre a Fiducia e Masi, altri due militari sarebbero pronti a “saltare il fosso” e raccontare le stesse pressioni subite dai superiori affinché lasciassero perdere le indagini su Provenzano. Il periodo è sempre quello tra il 2001 e il 2005 quando Provenzano, malato di tumore alla prostata, ha bisogno di cure. E di protezione.
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