Jorge Rafael Videla, il dittatore argentino dei 30.000 desaparecidos,
muore in carcere da sconfitto, da ergastolano, da genocida. Come ha
detto Estela Carlotto, la leader delle nonne di Plaza de Mayo, «era un
uomo disumanizzato» ed è fin troppo semplice applicare a lui la
categoria arendtiana di «banalità del male» di chi mise metodicamente in
atto un sistematico piano genocidiario, tendente al sequestro di
persona di massa, al furto di ogni bene mobile e immobile delle sue
vittime, all’assassinio e alla sparizione di persone. Lasciò i figli
senza genitori e i genitori senza figli. Ciò succede in molte guerre di
sterminio, ma a Videla e ai suoi non bastava. Perciò, peculiarità creola
dell’orrore, volle che i morti restassero senza nome, i desaparecidos, e
i vivi -i figli di questi, spesso appena neonati- restassero senza
identità. Le puerpere venivano lasciate in vita solo fino al parto e
centinaia di bambini furono smistati a caso «per salvare la società
Occidentale e Cristiana».
Non agiva da solo Jorge Videla. Molti sapevano, moltissimi
appoggiavano, come la confindustria, le classi dirigenti, potenti amici
come Licio Gelli. Qualcuno benediceva. Il nunzio apostolico Pio Laghi e
il cardinale primate Raúl Primatesta erano intimi del genocida. Magari
ci fosse un dio a giudicarli. Videla stava dalla parte dei buoni della
guerra fredda, agiva all’interno di norme stabilite nell’ambito del
Piano Condor, l’internazionale del terrore fondata con Augusto Pinochet e
la complicità di Henry Kissinger. Questi invitò Videla a far presto
nello sterminare l’opposizione, perché poi con Jimmy Carter non avrebbe
avuto la stessa mano libera. Perfino le tecniche di tortura rispondevano
a rigidi protocolli; sviluppate dai francesi tra Indocina e Algeria,
gli statunitensi erano stati prima allievi e poi avevano superato il
maestro –fino ad Abu Ghraib già nel nostro secolo- e docenti per 50.000
torturatori e assassini latinoamericani. Anche in altre culture e
sistemi politici si tortura e si uccide, ma sulla carne dei torturati
dell’ESMA e del Garage Olimpo c’è quel marchio di fabbrica.
Nel pensare Videla, nel pensare i desaparecidos, non possiamo
espungere l’idea che sia la nostra civiltà occidentale, la nostra
cultura, il nostro modello sociale ed economico ad aver generato un
simile mostro. Nel pensare Videla non possiamo dimenticare che virus e
anticorpi convivono nello stesso organismo e la difesa dei diritti umani
non finisce con la morte in carcere di un genocida.
Jorge Videla muore da eversore mai pentito. Appena un mese fa
invitava a prendere le armi contro il governo di Cristina Fernández de
Kirchner, colpevole di aver instaurato -sue parole- «un regime alla
maniera di Gramsci». Ma muore da ergastolano, muore solo come un cane in
una cella di un carcere all’alba di una mattina d’autunno australe,
incapace perfino di fare paura, lui che poté decidere la morte di decine
di migliaia di persone. Muore solo e impresentabile, infame fino
all’ultimo nel rivendicare di conoscere perfettamente la sorte di
7-8.000 dei 30.000 desaparecidos, ma scegliendo di portarsi nella tomba i
segreti che avrebbero potuto alleviare l’angustia permanente di chi
ancora cerca un indizio sulla sorte di un figlio, un genitore, un amico.
Ben pochi oggi ne rivendicano l’eredità e appare perfino ingiusto il
suo destino rispetto a quello del suo sodale in tutto Augusto Pinochet,
il dittatore cileno, morto impune e confortato dall’affetto dei suoi
clepto-familiari o da Henry Kissinger, che tra dieci giorni sarà un
rispettato novantenne che mai pagherà per quell’inferno.
Giova sempre ricordare che non più di un ventesimo dei desaparecidos
era guerrigliero, ammesso e non concesso che i guerriglieri meritassero
quella sorte. Il 95% erano sindacalisti, studenti, giornalisti,
giuristi, sacerdoti, militanti di sinistra, esponenti della società
civile che dovevano essere spazzati via per permettere il più grande
saccheggio della storia: l’imposizione del modello neoliberale, lo
svuotamento delle ricchezze del paese, la loro svendita ai capitali
finanziari transnazionali. Valga solo un dato: in Argentina, uno dei
paesi più avanzati e ricchi al mondo, ancora nel 1972 c’era la piena
occupazione. Nel 2002, calcolando disoccupati e sottoccupati, si sarebbe
arrivati a un 42% reale di persone senza un lavoro degno. In un paese
con milioni di ettari di terra fertile il neoliberismo reale portò a
migliaia di morti per fame. Così non furono i desaparecidos né le
inenarrabili violazioni di diritti umani la peggior colpa di Videla. La
peggior colpa di questi e dei poteri economici che lo appoggiarono fu
aver pianificato e perseguito la riduzione in miseria di milioni e
milioni di esseri umani. Il genocidio fu prodromico all’imposizione del
modello neoliberale. Videla fece il lavoro sporco disarticolando ogni
resistenza sociale, sindacale, culturale.
Nonostante tutto la società argentina mantenne sempre vivi i propri
anticorpi democratici. Dopo la caduta della dittatura, il coraggioso
Raúl Alfonsín nell’83 istituì la CONADEP (la commissione d’inchiesta sui
desaparecidos presieduta da Ernesto Sabato) e dichiarò
l’incostituzionalità della Legge N° 22.924 di auto-amnistia firmata
dalla Giunta militare poco prima di lasciare il potere. Quindi, con il
Decreto 158/83 rese possibile il processo alla giunta. Punire i capi era
più facile che perseguire i pesci piccoli. Quello che nell’85 condannò
Videla all’ergastolo fu un processo di capitale importanza perché le
Nazioni Unite recepissero la «sparizione forzata» di persone come
violazione dei diritti umani. Prima non era così. Purtroppo era solo il
primo round. Nel ‘90 il regime neoliberale di Carlos Menem avrebbe
indultato Videla e gli altri, dopo aver messo un punto finale
legislativo sulle violazioni dei diritti umani.
Fu il crollo inglorioso dell’Argentina neoliberale, alla fine del
2001, a riaprire la partita e portare al ribaltamento della politica dei
diritti umani in un paese che aveva visto dilagare l’impunità dalla
violazione dei diritti umani a qualunque altro contesto. Si è trattato
del trionfo di trent’anni di battaglia per la verità e la giustizia
portata avanti dal coraggio dello spezzone più avanzato della società
argentina, simboleggiato dalle madri di Plaza de Mayo, che solo dopo la
fine del regime neoliberale trovò la forza di farsi governo con la
sinistra peronista dei Kirchner. Così l’Argentina recuperò una politica
dei diritti umani encomiabile e tra le più avanzate al mondo. Già nel
suo discorso d’insediamento Néstor mise le cose in chiaro: «Siamo i
figli delle Madri e delle Nonne di Plaza de Mayo, e per questo motivo
insistiamo nell’appoggiare costantemente il rafforzamento del sistema di
protezione dei diritti umani, ed il processo e la condanna di quelli
che li violino».
Non faceva propaganda il «flaco de la JP», il ragazzo della gioventù
peronista massacrata da Videla divenuto presidente. Nel giro di pochi
mesi smantellò per intero il contesto d’impunità e le leggi di Punto
Finale e di Obbedienza Dovuta furono dichiarate dal Congresso
«insanabilmente nulle».
Il primo a essere condannato fu il sinistro Miguel Etchecolatz, capo
della polizia di Buenos Aires e responsabile di 21 campi di
concentramento clandestini. Nei confronti di Etchecolatz per la prima
volta in una sentenza in Argentina fu scritto che la condanna era emessa
per il crimine di «violazioni di diritti umani commesse nel contesto di
un genocidio». E così fu condannato il ministro dell’economia e uomo
del Fondo Monetario Internazionale della dittatura José Alfredo Martínez
De Hoz. Oggi in Argentina vi sono circa 3000 procedimenti penali ancora
aperti e circa 650 repressori stanno scontando la loro pena, spesso
l’ergastolo, in carceri comuni. Tra questi Jorge Videla che,
ripristinata la sentenza dell’85, era già un ergastolano. Un altro
ergastolo gli toccò per il piano sistematico di sottrazione di minori.
Nello specifico per il sequestro di 18 bambini. Un terzo per
l’assassinio di prigionieri politici a Cordoba. Infine era in dirittura
d’arrivo la condanna per la sua responsabilità diretta nel Piano Condor,
l’internazionale del Terrorismo di Stato che coinvolse tutti i regimi
latinoamericani con il coordinamento di Washington.
Muore in carcere e da genocida Jorge Videla affogando nel rancore e
nell’odio che nutriva per la società, per la diversità, per la bellezza.
Non sono molti i paesi che, come invece può fare l’Argentina, possono
dire di aver fatto i conti col proprio passato ed è per questo che il
suo corpo di canaglia può marcire lasciando noi in pace. Per quanti
passi ancora vadano fatti per rafforzare e difendere i diritti umani, in
Argentina, in America latina, nel mondo, la morte di Videla non lascia
un sapore amaro come quella dell’impune Pinochet, che pure dovette farsi
passare per demente per sfuggire al processo. Con Videla giustizia è
stata fatta.
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