L’ultimo lavoro cinematografico di Paolo Sorrentino sta riscuotendo un
buon consenso di pubblico mentre, sul versante della critica, assistiamo
ad una divaricazione di interpretazioni e commenti. Da diverse
angolazioni il film viene, di fatto, scandagliato e vivisezionato alla
ricerca di improbabili quanto inappropriati messaggi subliminali.
Chi scrive non è un critico cinematografico per
cui chiede venia ai lettori di Contropiano.org se le sue righe potranno
essere poco attente al bon ton della filologia dei maghi della
cinepresa.
Premesso ciò, doverosamente, credo di annoverarmi tra i
fan di una scrittura filmica dove la commedia non deve essere narrata
esclusivamente con i canoni del dramma (o del melodramma) ma può e deve
spaziare tra il fantastico, il surreale, l’allusivo ed il crudo
realismo.
Insomma se hai bisogno di
trasmettere una emozione, suscitare un'attenzione – meglio ancora un
autentico pugno nello stomaco – tutti gli stili e le modalità sono utili
alla bisogna.
Credo, quindi, che La grande bellezza possa
annoverarsi, tranquillamente, tra i riusciti esperimenti dove il
regista di turno, nel caso Paolo Sorrentino coadiuvato da Umberto
Contarello, è stato in grado di tenere incollato alla poltrona lo
spettatore attraverso le immagini di una città, a tutti cara, dove si
consumano tragedie umane, sflilacciamenti ed evaporazioni di corpi
sociali collocati in un humus di acclarato degrado culturale ed estetico
di tutti le relazioni esistenti.
Una Roma bellissima,
monumentale, silente, con voli radenti di uccelli al tramonto, interni
ameni di conventi e sottofondi di canti gregoriani. E poi le immagini
caleidoscopiche del Tevere, del Colosseo, dell'isola Tiberina e del
Circo Massimo. Un Toni Servillo - nei panni di Jep Gambardella -
giornalista, scrittore, un po' dandy, un po' irridente, capelli lunghi
sul collo oltre ogni ragionevole misura, mani in tasca, camminata
leggera e sempre impeccabile negli abiti di sontuosa artigiana sartoria.
Un
vero e proprio istrione che si connette con sapiente abilità ad una
fauna di personaggi posti sulla linea di confine tra la pacchianeria
spinta, una sessualità più evocata che praticata, dai tratti
marcatamente pecorecci ed un universo da derive metropolitane
post/felliniane. Infatti i rinvii al maestro romagnolo - evidenziati da
una triste Via Veneto e da omaggi e richiami alla “Dolce Vita” – non
vogliono configurarsi come una sorta di edizione riveduta, corretta ed
aggiornata del celebre film con Mastroianni e la Ekberg ma, secondo chi
scrive, vogliono segnalare l’inalveamento della società attuale e di un
suo particolare segmento dentro il montante paradigma della debordante
mediocrità con cui si palesa la contemporaneità post/fordista in cui
siamo tutti immersi.
Da questo punto di vista La grande
bellezza riesce a farci compiere un attraversamento nei sapori, negli
odori, nei tic, nei codici e nelle ritualità di un gruppo sociale – che
potremmo riscontrare e ritrovare a Parigi come a Berlino, a Tokio come a
Los Angeles – dove il tratto prevalente, oltre ogni alchimia
comportamentale e cognitiva, è la noia, il cinismo e la cattiveria
gratuita, la perdita di se e lo smarrimento verso tutto e tutti.
Clima da fine dell’Impero? Scene da ultimi giorni di Pompei? Polemica verso la Roma porosa e corruttrice?
Qui
ci fermiamo con le nostre impressioni e non ci azzardiamo nella
catalogazione obbligatoria delle intenzioni o nei deliri (?) del duo
Sorrentino/Contarello. Abbiamo chiaro la nostra invalicabile soglie del
limite ci ricordiamo di essere, soprattutto, attivisti politici.
Fonte
Io di cinema non capisco quasi nulla, ma leggere articoli come questi mi garba sempre moltissimo.
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