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08/05/2013

Siria. Mussalaha contro musallahin

Vi proponiamo la prima puntata di un reportage scritto dalla giornalista Marinella Correggia che in questi giorni si trova in Siria.

* 7 maggio 2013

Nei giorni in cui Israele attacca la Siria con raid aerei, in cui il magistrato Carla Del Ponte membro della Commissione d’inchiesta dell’Onu sulla Siria (Coi) a sorpresa dichiara che le famigerate armi chimiche – nella fattispecie il gas sarin – sono state probabilmente usate in Siria dai gruppi armati antigovernativi, e in cui il Pew Research Centre statunitense rende noto che da sondaggio la maggioranza della popolazione nei paesi del Medio Oriente è contro l’appoggio militare e finanziario dei gruppi armati antigovernativi in Siria da parte di paesi arabi e occidentali, il gruppo Isteam internazionale di sostegno al movimento siriano Mussalaha (Riconciliazione) sta lavorando in Libano, in attesa di entrare in Siria.

La Rete No War e Sibialiria fanno parte della delegazione formata da attivisti di diversi paesi (a dire il vero quasi solo anglosassoni…dal Canada all’Australia), impegnati per la pace e la risoluzione nonviolenta dei conflitti. Guida la delegazione la Premio Nobel per la pace del 1976, l’irlandese Mairead Maguire. Qui di seguito un breve resoconto – con approfondimenti successivi – di alcune delle molte visite e incontri effettuati a Beirut il 5 e 6 maggio. Nei giorni precedenti la delegazione ha incontrato molti esponenti religiosi cristiani e musulmani, tutti impegnati per la fine della guerra.

Appello di Mairead Maguire

Speriamo di poter presentare ai politici, all’opinione pubblica e ai media italiani l’appello che Mairead Maguire ha ripetuto in molte situazioni, in questi giorni. Eccone un riassunto: “Andiamo in Siria senza voler insegnare nulla. Siamo, con i nostri governi, parte del problema. Sulla via di Damasco, andiamo a dire che crediamo in loro, ad ascoltarli. Il popolo siriano ha bisogno di poter decidere in pace del proprio destino. Le persone voglio diritti e cambiamenti ma in modo pacifico, invece per colpa di tutti la Siria è piombata nella tragedia, con il rischio di destabilizzare anche i paesi vicini, come il Libano. Noi diciamo basta. Abbiamo visto distruggere l’Iraq, la Libia e l’Afghanistan, usando anche una terribile propaganda. In Siria occorre un negoziato per la pace fra tutte le parti, ma non avverrà se tante potenze al mondo non  smetteranno di soffiare sul fuoco appoggiando mercenari in armi. Chiediamo a tutti quelli che stanno destabilizzando la Siria di smetterla. Israele che ha attaccato la Siria deve farla finita con atti di guerra. E Barack Obama, che tante speranze aveva suscitato alla sua elezioni, onori finalmente il Premio Nobel per la pace che ha ricevuto, e la sua promessa di un mondo di pace.

Nei campi dei rifugiati dalla Siria, a Beirut e a Baalbek: “Non sappiamo perché”

Il Libano ha accolto almeno 400mila siriani (più i tanti non registrati) in fuga dagli scontri. Vivono in condizioni di fortuna spesso estreme, con pochissimo aiuto internazionale. Per un paese con poco più di quattro milioni di abitanti, un simile massiccio afflusso è un potenziale fattore di destabilizzazione. A Beirut, il primo gruppo che visitiamo, a Makesset, è costituito da centinaia di persone – provenienti soprattutto dai dintorni di Aleppo – accampate in tende nel cortile di un liceo retto dallo sceicco di una enclave sunnita al centro di un’area soprattutto sciita. Bagni chimici, acqua intermittente (quando c’è karaba, la corrente elettrica). Molti bambini giocano nella polvere del cortile spelacchiato e sorridono chiedendo sura (foto). Mentre gli uomini dichiarano al cameraman australiano che ci accompagnava il loro sostegno all’opposizione richiamando la lotta dei palestinesi contro Israele (che però appunto proprio in quelle ore bombardava la Siria…), parliamo con le donne, alcune con bambini molto piccoli, nati a Beirut. Ad esempio Fatima, mamma di Ahmed di un mese soltanto e le sue amiche che vengono da Aleppo. Alla domanda: ma perché non vi siete spostati in aree dove non ci sono scontri, rimanendo all’interno della Siria?” hanno risposto: “Perché ci hanno detto che qui saremmo stati aiutati di più” (ma non è successo). E perché questa guerra, che cosa chiedono i combattenti? “Non lo sappiamo”. Carmel, una suora che ci accompagna, fa loro notare che in Siria la sanità e l’educazione erano ben più garantite che in Libano, e le donne confermano.

Un altro campo è al centro di Baalbek. In realtà ospita da sempre rifugiati palestinesi, senzaterra da decenni. Ma nei piccoli appartamenti, negli spazi forniti dai Comitati popolari palestinesi e nei tendoni allestiti da un’organizzazione umanitaria locale nei locali di un ex centro sportivo disabilitato e perfino a ridosso del cimitero, si ammucchiano adesso oltre 4mila scappati dalla Siria. Sono in gran parte palestinesi provenienti da Yarmuk, teatro di scontri fra opposti schieramenti. Come gli iracheni che si erano rifugiati in Siria, i palestinesi di Yarmuk (che essi chiamano Jalil, Galilea, la loro vera patria)  conoscono un secondo esodo. Con aiuti pari praticamente a zero – mancanza di fondi – da parte dell’Unrwa, organismo Onu per i rifugiati palestinesi, gli abitanti del campo si soccorrono da sé. Anche l’Alto commissariato Onu per i rifugiati è praticamente assente. E’ normale che in un stanza (per quelli che abitano in case) una famiglia già numerosa ne ospiti un’altra, palestinese o siriana, generosamente. Lo stesso nei séparés creati con pareti di juta nei tendoni. Miracolosamente gli spazi appaiono puliti, a terra i tappeti (si entra senza scarpe), la cucina gestita a turno. L’acqua arriva con la cisterna. La povertà è assoluta. Tutti sono disoccupati. I Comitati popolari non vogliono parlare di politica, “qui non stiamo a guardare chi è pro-opposizione o pro-governo, è un lavoro umanitario il nostro” dice Usama Atwani. Le donne sono sorridenti e ordinate, alcune scherzano chiamando guerrigliero il fotografo dell’associazione locale. Alla domanda: “Ma in Siria ci sono tanti guerriglieri, di vari paesi, che dite?”. “Che è haram, vietato”, dice una di loro.

Se le donne comandassero…

Fadi, palestinese non proveniente dalla Siria, osserva: “Certo, sappiamo bene che la guerra è alimentata dall’esterno con uomini e mezzi. Ma noi non possiamo fare nulla. Siete voi semmai, voi dell’Occidente, a poter e dover chiedere che finisca”.

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