Vi proponiamo la prima puntata di un reportage scritto dalla giornalista
Marinella Correggia che in questi giorni si trova in Siria.
* 7 maggio 2013
Nei giorni in cui
Israele attacca la Siria con raid aerei, in cui il magistrato Carla Del
Ponte membro della Commissione d’inchiesta dell’Onu sulla Siria (Coi) a
sorpresa dichiara che le famigerate armi chimiche – nella fattispecie il
gas sarin – sono state probabilmente usate in Siria dai gruppi armati
antigovernativi, e in cui il Pew Research Centre statunitense rende noto
che da sondaggio la maggioranza della popolazione nei paesi del Medio
Oriente è contro l’appoggio militare e finanziario dei gruppi armati
antigovernativi in Siria da parte di paesi arabi e occidentali, il
gruppo Isteam internazionale di sostegno al movimento siriano Mussalaha
(Riconciliazione) sta lavorando in Libano, in attesa di entrare in
Siria.
La Rete No War e Sibialiria fanno parte della delegazione
formata da attivisti di diversi paesi (a dire il vero quasi solo
anglosassoni…dal Canada all’Australia), impegnati per la pace e la
risoluzione nonviolenta dei conflitti. Guida la delegazione la Premio
Nobel per la pace del 1976, l’irlandese Mairead Maguire. Qui di seguito
un breve resoconto – con approfondimenti successivi – di alcune delle
molte visite e incontri effettuati a Beirut il 5 e 6 maggio. Nei giorni
precedenti la delegazione ha incontrato molti esponenti religiosi
cristiani e musulmani, tutti impegnati per la fine della guerra.
Appello di Mairead Maguire
Speriamo
di poter presentare ai politici, all’opinione pubblica e ai media
italiani l’appello che Mairead Maguire ha ripetuto in molte situazioni,
in questi giorni. Eccone un riassunto: “Andiamo in Siria senza voler
insegnare nulla. Siamo, con i nostri governi, parte del problema. Sulla
via di Damasco, andiamo a dire che crediamo in loro, ad ascoltarli. Il
popolo siriano ha bisogno di poter decidere in pace del proprio destino.
Le persone voglio diritti e cambiamenti ma in modo pacifico, invece per
colpa di tutti la Siria è piombata nella tragedia, con il rischio di
destabilizzare anche i paesi vicini, come il Libano. Noi diciamo basta.
Abbiamo visto distruggere l’Iraq, la Libia e l’Afghanistan, usando anche
una terribile propaganda. In Siria occorre un negoziato per la pace fra
tutte le parti, ma non avverrà se tante potenze al mondo non
smetteranno di soffiare sul fuoco appoggiando mercenari in armi.
Chiediamo a tutti quelli che stanno destabilizzando la Siria di
smetterla. Israele che ha attaccato la Siria deve farla finita con atti
di guerra. E Barack Obama, che tante speranze aveva suscitato alla sua
elezioni, onori finalmente il Premio Nobel per la pace che ha ricevuto, e
la sua promessa di un mondo di pace.
Nei campi dei rifugiati dalla Siria, a Beirut e a Baalbek: “Non sappiamo perché”
Il
Libano ha accolto almeno 400mila siriani (più i tanti non registrati)
in fuga dagli scontri. Vivono in condizioni di fortuna spesso estreme,
con pochissimo aiuto internazionale. Per un paese con poco più di
quattro milioni di abitanti, un simile massiccio afflusso è un
potenziale fattore di destabilizzazione. A Beirut, il primo gruppo che
visitiamo, a Makesset, è costituito da centinaia di persone –
provenienti soprattutto dai dintorni di Aleppo – accampate in tende nel
cortile di un liceo retto dallo sceicco di una enclave sunnita al centro
di un’area soprattutto sciita. Bagni chimici, acqua intermittente
(quando c’è karaba, la corrente elettrica). Molti bambini giocano nella
polvere del cortile spelacchiato e sorridono chiedendo sura (foto).
Mentre gli uomini dichiarano al cameraman australiano che ci
accompagnava il loro sostegno all’opposizione richiamando la lotta dei
palestinesi contro Israele (che però appunto proprio in quelle ore
bombardava la Siria…), parliamo con le donne, alcune con bambini molto
piccoli, nati a Beirut. Ad esempio Fatima, mamma di Ahmed di un mese
soltanto e le sue amiche che vengono da Aleppo. Alla domanda: ma perché
non vi siete spostati in aree dove non ci sono scontri, rimanendo
all’interno della Siria?” hanno risposto: “Perché ci hanno detto che qui
saremmo stati aiutati di più” (ma non è successo). E perché questa
guerra, che cosa chiedono i combattenti? “Non lo sappiamo”. Carmel, una
suora che ci accompagna, fa loro notare che in Siria la sanità e
l’educazione erano ben più garantite che in Libano, e le donne
confermano.
Un altro campo è al centro di Baalbek. In realtà
ospita da sempre rifugiati palestinesi, senzaterra da decenni. Ma nei
piccoli appartamenti, negli spazi forniti dai Comitati popolari
palestinesi e nei tendoni allestiti da un’organizzazione umanitaria
locale nei locali di un ex centro sportivo disabilitato e perfino a
ridosso del cimitero, si ammucchiano adesso oltre 4mila scappati dalla
Siria. Sono in gran parte palestinesi provenienti da Yarmuk, teatro di
scontri fra opposti schieramenti. Come gli iracheni che si erano
rifugiati in Siria, i palestinesi di Yarmuk (che essi chiamano Jalil,
Galilea, la loro vera patria) conoscono un secondo esodo. Con aiuti
pari praticamente a zero – mancanza di fondi – da parte dell’Unrwa,
organismo Onu per i rifugiati palestinesi, gli abitanti del campo si
soccorrono da sé. Anche l’Alto commissariato Onu per i rifugiati è
praticamente assente. E’ normale che in un stanza (per quelli che
abitano in case) una famiglia già numerosa ne ospiti un’altra,
palestinese o siriana, generosamente. Lo stesso nei séparés creati con
pareti di juta nei tendoni. Miracolosamente gli spazi appaiono puliti, a
terra i tappeti (si entra senza scarpe), la cucina gestita a turno.
L’acqua arriva con la cisterna. La povertà è assoluta. Tutti sono
disoccupati. I Comitati popolari non vogliono parlare di politica, “qui
non stiamo a guardare chi è pro-opposizione o pro-governo, è un lavoro
umanitario il nostro” dice Usama Atwani. Le donne sono sorridenti e
ordinate, alcune scherzano chiamando guerrigliero il fotografo
dell’associazione locale. Alla domanda: “Ma in Siria ci sono tanti
guerriglieri, di vari paesi, che dite?”. “Che è haram, vietato”, dice
una di loro.
Se le donne comandassero…
Fadi, palestinese
non proveniente dalla Siria, osserva: “Certo, sappiamo bene che la
guerra è alimentata dall’esterno con uomini e mezzi. Ma noi non possiamo
fare nulla. Siete voi semmai, voi dell’Occidente, a poter e dover
chiedere che finisca”.
Fonte
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