In una serie di ricerche pubblicate in collaborazione con Carmen
Reinhart, l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Ken
Rogoff aveva sostenuto che nei casi in cui il debito pubblico supera la
soglia del 90% del Pil, la crescita media del reddito nazionale risulta
più bassa di almeno un punto percentuale rispetto ai casi in cui quel
limite non viene superato. Questo risultato è stato più volte citato da
vari tecnocrati europei ed esponenti politici tedeschi per giustificare
le politiche di austerity. Ma un giovane ricercatore, allievo
dell’economista eterodosso Robert Pollin, ha individuato una serie di
errori di calcolo in uno degli studi di Reinhart e Rogoff. La scoperta
di questi errori ha acceso i riflettori dei media sui contributi di
Pollin e del suo allievo, e più in generale sulle numerose analisi che
già da tempo avevano segnalato i limiti della tesi secondo cui un alto
debito pubblico implica una bassa crescita economica (1). Contestata sul
terreno scientifico, la dottrina dell’austerity è dunque destinata a
cedere il passo anche in ambito politico? Un’opinione diffusa è che,
mentre l’Europa resterà ancorata alla dottrina dell’austerity, gli Stati
Uniti in realtà non si sono mai fatti condizionare dai suoi dogmi ed è
per questo che sono usciti molto più in fretta dalla crisi. Siamo certi
tuttavia che la ripresa americana sia così robusta come sembra e non sia
causata da una nuova bolla speculativa? Ne discutono Federico Rampini
(Repubblica) ed Emiliano Brancaccio (Università del Sannio). Conduce
Maria Rosaria de Medici
(1) Tra le ricerche esistenti, si veda ad esempio un working paper di
due economisti italiani: Ugo Panizza e Andrea F. Presbitero,
Public debt and economic growth: is there a causal effect?, MoFiR working paper, n° 65, 2012.
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