Il prezioso regalo alle industrie “sporche” – che di fatto manda a farsi benedire il principio su cui si fonda la politica dell’Unione europea in materia ambientale – è contenuto nel cosiddetto decreto del Fare, confezionato dal governo Letta ed ora all’esame del Parlamento. In allarme le associazioni ambientaliste
Chi inquina non dovrà più pagare. Il prezioso regalo alle industrie
“sporche” – che di fatto manda a farsi benedire il principio su cui si
fonda la politica dell’Unione europea in materia ambientale – è contenuto nel cosiddetto decreto del Fare, confezionato dal governo Letta ed ora all’esame del Parlamento per la conversione in legge.
Ad allarmare le associazioni ambientaliste, Wwf
in primis, è l’articolo 41: una norma di modifica del Testo Unico
dell’Ambiente (decreto legislativo 152/2006), con conseguenze non da
poco in materia di bonifiche di siti contaminati. “Nei
casi in cui le acque di falda contaminate determinano una situazione di
rischio sanitario – recita l’articolo 41 del decreto del Fare, che
sostituisce l’articolo 243 del T. U dell’Ambiente – oltre
all’eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile, devono essere adottate misure di attenuazione della diffusione della contaminazione”.
In
sostanza l’intervento di bonifica di un sito inquinato è un processo
lungo e complesso, ma soprattutto, sottolinea neppure troppo velatamente
il decreto, costoso. Ed è proprio per questo che l’esecuzione diventa
quasi un optional. Richiede infatti, in un primo tempo, uno studio approfondito
d’indagine ambientale e, successivamente, la rimozione dei terreni
contaminati dall’immissione di sostanze pericolose, connesse
all’attività industriale. Dunque se l’azienda non possiede le risorse
economiche necessarie per bonificare il sito che ha inquinato – “basterà
un’autocertificazione per dimostrare l’indigenza?” si chiede
polemicamente il Wwf – pazienza. Può semplicemente limitarsi ad
attenuare la diffusione della contaminazione. “Nei casi in cui – si
legge ancora nel nuovo articolo – non è possibile eliminare, prevenire o
ridurre a livelli accettabili il rischio sanitario” (ma qual è il
confine tra accettabile e inaccettabile?), l’azienda può scegliere di
percorrere un’altra strada economicamente sostenibile, in altre parole
conveniente: il “trattamento delle acqua di falda contaminate”:
emungerle, depurarle e reimmetterle “nello stesso acquifero da cui sono
state emunte”. Poco importa se, magari dopo qualche anno, le sostanze
inquinanti presenti in quei terreni non rimossi filtreranno nuovamente
nella falda acquifera. Insomma “si interviene sui sintomi e non sulla
cura della malattia”, commenta l’associazione ambientalista. Perché,
anche in presenza di un conclamato “rischio sanitario”, le esigenze
economiche dell’azienda (che ha inquinato) vengono prima di ogni altra
cosa. Hanno la priorità anche sulla salubrità dell’ambiente e sul
diritto alla salute dei cittadini.
Una norma che
avrebbe un impatto devastante sull’intero territorio nazionale,
letteralmente invaso da migliaia di siti inquinati. Non ci sono soltanto
i cosiddetti siti di interesse nazionale – peraltro ridotti dal
precedente governo da 57 a 39 –, tra cui Taranto, Marghera, Bussi e Priolo. In Italia infatti sono oltre 4mila i siti inquinati e 15mila quelli potenzialmente inquinati.
E adesso chi li ha ridotti in quello stato potrebbe non essere più
costretto a bonificarli. A questo punto l’auspicio delle associazioni
ambientaliste è che i gruppi parlamentari intervengano per stralciare o
modificare profondamente la norma. Il Movimento 5 Stelle
ha già risposto favorevolmente. E, ricordandogli di aver recentemente
dichiarato che quello della tutela dell’acqua è tra i temi prioritari
per il suo mandato, il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua lancia
un appello al ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando: “il Governo riveda profondamente una posizione del tutto inaccettabile su un bene comune come l’acqua”.
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