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10/11/2013

Cina, il Plenum del dragone

di Michele Paris

Tra sabato e martedì prossimo andrà in scena a Pechino il terzo e più importante plenum del 18esimo Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC), aperto nel novembre del 2012. La nuova leadership della seconda potenza economica del pianeta, secondo ogni previsione, presenterà ai quasi 400 membri del Comitato Centrale del partito i propri piani per liberalizzare ulteriormente il sistema economico e finanziario, da implementare tra profonde divisioni interne alla classe dirigente cinese e gravi tensioni che la nuova accelerazione capitalista provocherà tra la popolazione.

Come previsto dal protocollo del regime, le prime due riunioni plenarie del PCC seguite all’inaugurazione di un nuovo Congresso a durata quinquennale riguardano quasi interamente questioni relative alla nomina dei nuovi vertici del partito, mentre il terzo serve a introdurre la visione economica e politica della leadership entrante dopo che essa ha più o meno consolidato il proprio potere.

Le aspettative per l’evento che sta per aprirsi sono altissime sia in Cina che tra i governi e gli investitori stranieri, tanto che in questi giorni si stanno sprecando i paragoni con un episodio cruciale della storia recente di questo paese, vale a dire il terzo plenum nel 1978 quando Deng Xiaoping lanciò il proprio programma di riforme di libero mercato.

Se i contenuti delle proposte del presidente Xi Jinping e del primo ministro Li Keqiang saranno resi noti solo alla chiusura della seduta plenaria, le linee guida per il prossimo futuro del sistema economico cinese appaiono in gran parte scontate. La crescita, cioè, dovrebbe essere favorita attraverso una maggiore competitività, l’incoraggiamento del settore privato, la deregolamentazione del settore finanziario, lo stimolo ai consumi individuali e l’allentamento dei controlli governativi sul flusso di capitali, sui tassi di interesse e sui prezzi delle risorse energetiche.

Alcuni provvedimenti di questo genere erano stati peraltro già adottati lo scorso mese di luglio, quando, tra l’altro, è stato lanciato un progetto pilota per una Zona Economica Speciale a Shanghai per testare alcune delle “riforme” di libero mercato che dovrebbero essere adottate a livello nazionale, sia pure in maniera più laboriosa.

Più in generale, come ha spiegato al New York Times il presidente della compagnia di investimenti cinese Primavera Capital Group, la sfida della nuova dirigenza riguarderà “fondamentalmente il ruolo dello stato in un’economia moderna”. Le attenzioni dei vertici di Pechino saranno concentrate in particolare sui colossi pubblici su cui si è basata gran parte dell’impetuosa crescita della Cina negli ultimi decenni.

I piani del presidente Xi e del premier Li appaiono ovviamente tutt’altro che semplici, come dimostra la cautela dei loro predecessori - rispettivamente Hu Jintao e Wen Jabao - i quali avevano fatto anch’essi simili promesse un decennio fa, nonché le resistenze che un simile percorso sta già provocando nel partito.

Le grandi aziende statali, infatti, sono estremamente potenti ed hanno legami consolidati ad altissimo livello nel PCC. Esse e i loro referenti politici temono principalmente la concorrenza sia degli attori privati che delle compagnie straniere e la fine dei privilegi a loro riservati, come l’accesso al credito a bassissimo costo o la garanzia di operare spesso in regime di monopolio.

La disputa interna al PCC per la direzione da dare al paese, risoltasi almeno formalmente con il successo della fazione favorevole all’apertura dell’economia cinese, è apparsa evidente in particolare con la vicenda di Bo Xilai, l’ex potente segretario della città di Chongqing caduto in disgrazia.

La purga ai danni di quest’ultimo ha rappresentato un passaggio cruciale nel superamento almeno temporaneo delle resistenze alla liberalizzazione dell’economia che Bo impersonava. Come è noto, l’ex membro del Politburo è stato condannato all’ergastolo in appello per corruzione proprio un paio di settimane fa dopo che le sue speranze di entrare nel Comitato Permanente del Politburo del partito erano crollate già nel marzo del 2012.

In quell’occasione, Bo e la moglie, Gu Kailai, condannata a morte lo scorso anno con pena sospesa per l’assassinio di un uomo d’affari britannico, erano stati arrestati nell’ambito di un’indagine scaturita in gran parte da motivazioni politiche.

Probabilmente non a caso, poco prima dell’inizio dei guai giudiziari di Bo, la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto denominato “Cina 2030” in collaborazione con il Centro di Ricerca e Sviluppo del Consiglio di Stato (governo) cinese, nel quale venivano delineate con chiarezza le iniziative da perseguire per “ristrutturare” l’economia del paese e aprirla ai capitali stranieri.

Tra le proposte avanzate dallo studio vi era, appunto, lo smantellamento dei monopoli statali nei settori strategici dell’economia, a cui Bo Xilai era legato e che manifestavano una netta opposizione alla strada prospettata dalla Banca Mondiale, a sua volta portavoce degli ambienti economici e finanziari internazionali.

Bo, inoltre, era considerato anche il leader della “Nuova Sinistra” neo-maoista, presa di mira dalle fazioni rivali perché responsabile di avere alimentato tra le fasce più disagiate della popolazione pericolose aspettative legate ad una società più equa attraverso la difesa del ruolo assegnato alle grandi aziende statali.

Queste ultime, in realtà, ben lontane dall’essere gestite nell’interesse pubblico, risultano essere pressoché esclusivamente strumenti per l’arricchimento di una cerchia relativamente ristretta di persone legata ai vertici del Partito Comunista che si oppone perciò ai cambiamenti non per ragioni ideologiche ma esclusivamente per la difesa dei propri interessi. L’eliminazione di Bo ha dunque spianato la strada all’avanzamento delle “riforme” in senso capitalista che attendono la Cina nei prossimi anni.

I cambiamenti che verranno proposti nel corso del plenum del PCC che aprirà i battenti sabato, in ogni caso, sono state salutate in maniera euforica dalla stampa ufficiale di mezzo mondo, impegnata a spiegare come il rallentamento in corso dell’economia cinese abbia inevitabilmente spinto la nuova leadership di Pechino ad imprimere una svolta più decisa verso l’apertura del sistema.

Inoltre, senza timore di cadere in contraddizione, analisti e commentatori continuano a sottolineare come “riforme” che dovrebbero includere, tra l’altro, il ridimensionamento delle aziende pubbliche e una maggiore flessibilità della manodopera, abbiano l’obiettivo di ridurre il gap tra ricchi e poveri e creare maggiore occupazione.

In realtà, le liberalizzazioni si accompagneranno come di consueto ad inevitabili e massicce perdite di posti di lavoro, nonché ad un’ulteriore precarizzazione degli impieghi e ad un aggravamento delle disuguaglianze sociali. Come ha ricordato un’analisi di questa settimana della Associated Press, infatti, la precedente e più significativa fase di “riforme” economiche lanciata sul finire degli anni Novanta durante la premiership di Zhu Rongji, caratterizzata da un’ondata di privatizzazioni e progetti di “modernizzazione” delle compagnie statali, fu seguita dalla rovinosa perdita di milioni di posti di lavoro.

Per questa ragione, oltre a superare l’opposizione interna, la dirigenza cinese si troverà costretta a fronteggiare le resistenze e le tensioni sociali che si diffonderanno ben presto tra una sterminata popolazione che pagherà le conseguenze delle “riforme” stesse.

Assieme alla campagna lanciata dagli organi di propaganda del regime per presentare i piani che saranno in discussione al plenum come un passo avanti verso la creazione di un paese più prospero, i vertici del partito negli ultimi mesi hanno così proceduto a rafforzare il controllo sulla società cinese, intensificando la censura dei media e restringendo gli spazi a disposizione per qualsiasi opinione che possa alimentare pericolose illusioni di liberalizzazioni politiche o di un possibile percorso verso una sistema più equo.

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