di Michele Paris
Tra sabato e
martedì prossimo andrà in scena a Pechino il terzo e più importante
plenum del 18esimo Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC), aperto
nel novembre del 2012. La nuova leadership della seconda potenza
economica del pianeta, secondo ogni previsione, presenterà ai quasi 400
membri del Comitato Centrale del partito i propri piani per
liberalizzare ulteriormente il sistema economico e finanziario, da
implementare tra profonde divisioni interne alla classe dirigente cinese
e gravi tensioni che la nuova accelerazione capitalista provocherà tra
la popolazione.
Come previsto dal protocollo del regime, le prime
due riunioni plenarie del PCC seguite all’inaugurazione di un nuovo
Congresso a durata quinquennale riguardano quasi interamente questioni
relative alla nomina dei nuovi vertici del partito, mentre il terzo
serve a introdurre la visione economica e politica della leadership
entrante dopo che essa ha più o meno consolidato il proprio potere.
Le
aspettative per l’evento che sta per aprirsi sono altissime sia in Cina
che tra i governi e gli investitori stranieri, tanto che in questi
giorni si stanno sprecando i paragoni con un episodio cruciale della
storia recente di questo paese, vale a dire il terzo plenum nel 1978
quando Deng Xiaoping lanciò il proprio programma di riforme di libero
mercato.
Se i contenuti delle proposte del presidente Xi Jinping e
del primo ministro Li Keqiang saranno resi noti solo alla chiusura
della seduta plenaria, le linee guida per il prossimo futuro del sistema
economico cinese appaiono in gran parte scontate. La crescita, cioè,
dovrebbe essere favorita attraverso una maggiore competitività,
l’incoraggiamento del settore privato, la deregolamentazione del settore
finanziario, lo stimolo ai consumi individuali e l’allentamento dei
controlli governativi sul flusso di capitali, sui tassi di interesse e
sui prezzi delle risorse energetiche.
Alcuni provvedimenti di
questo genere erano stati peraltro già adottati lo scorso mese di
luglio, quando, tra l’altro, è stato lanciato un progetto pilota per una
Zona Economica Speciale a Shanghai per testare alcune delle “riforme”
di libero mercato che dovrebbero essere adottate a livello nazionale,
sia pure in maniera più laboriosa.
Più in generale, come ha spiegato al New York Times
il presidente della compagnia di investimenti cinese Primavera Capital
Group, la sfida della nuova dirigenza riguarderà “fondamentalmente il
ruolo dello stato in un’economia moderna”. Le attenzioni dei vertici di
Pechino saranno concentrate in particolare sui colossi pubblici su cui
si è basata gran parte dell’impetuosa crescita della Cina negli ultimi
decenni.
I piani del presidente Xi e del premier Li appaiono
ovviamente tutt’altro che semplici, come dimostra la cautela dei loro
predecessori - rispettivamente Hu Jintao e Wen Jabao - i quali avevano
fatto anch’essi simili promesse un decennio fa, nonché le resistenze che
un simile percorso sta già provocando nel partito.
Le grandi
aziende statali, infatti, sono estremamente potenti ed hanno legami
consolidati ad altissimo livello nel PCC. Esse e i loro referenti
politici temono principalmente la concorrenza sia degli attori privati
che delle compagnie straniere e la fine dei privilegi a loro riservati,
come l’accesso al credito a bassissimo costo o la garanzia di operare
spesso in regime di monopolio.
La
disputa interna al PCC per la direzione da dare al paese, risoltasi
almeno formalmente con il successo della fazione favorevole all’apertura
dell’economia cinese, è apparsa evidente in particolare con la vicenda
di Bo Xilai, l’ex potente segretario della città di Chongqing caduto in
disgrazia.
La purga ai danni di quest’ultimo ha rappresentato un
passaggio cruciale nel superamento almeno temporaneo delle resistenze
alla liberalizzazione dell’economia che Bo impersonava. Come è noto,
l’ex membro del Politburo è stato condannato all’ergastolo in appello
per corruzione proprio un paio di settimane fa dopo che le sue speranze
di entrare nel Comitato Permanente del Politburo del partito erano
crollate già nel marzo del 2012.
In quell’occasione, Bo e la
moglie, Gu Kailai, condannata a morte lo scorso anno con pena sospesa
per l’assassinio di un uomo d’affari britannico, erano stati arrestati
nell’ambito di un’indagine scaturita in gran parte da motivazioni
politiche.
Probabilmente non a caso, poco prima dell’inizio dei
guai giudiziari di Bo, la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto
denominato “Cina 2030” in collaborazione con il Centro di Ricerca e
Sviluppo del Consiglio di Stato (governo) cinese, nel quale venivano
delineate con chiarezza le iniziative da perseguire per “ristrutturare”
l’economia del paese e aprirla ai capitali stranieri.
Tra le
proposte avanzate dallo studio vi era, appunto, lo smantellamento dei
monopoli statali nei settori strategici dell’economia, a cui Bo Xilai
era legato e che manifestavano una netta opposizione alla strada
prospettata dalla Banca Mondiale, a sua volta portavoce degli ambienti
economici e finanziari internazionali.
Bo, inoltre, era
considerato anche il leader della “Nuova Sinistra” neo-maoista, presa di
mira dalle fazioni rivali perché responsabile di avere alimentato tra
le fasce più disagiate della popolazione pericolose aspettative legate
ad una società più equa attraverso la difesa del ruolo assegnato alle
grandi aziende statali.
Queste ultime, in realtà, ben lontane
dall’essere gestite nell’interesse pubblico, risultano essere pressoché
esclusivamente strumenti per l’arricchimento di una cerchia
relativamente ristretta di persone legata ai vertici del Partito Comunista che si
oppone perciò ai cambiamenti non per ragioni ideologiche ma
esclusivamente per la difesa dei propri interessi. L’eliminazione di Bo
ha dunque spianato la strada all’avanzamento delle “riforme” in senso
capitalista che attendono la Cina nei prossimi anni.
I
cambiamenti che verranno proposti nel corso del plenum del PCC che
aprirà i battenti sabato, in ogni caso, sono state salutate in maniera
euforica dalla stampa ufficiale di mezzo mondo, impegnata a spiegare
come il rallentamento in corso dell’economia cinese abbia
inevitabilmente spinto la nuova leadership di Pechino ad imprimere una
svolta più decisa verso l’apertura del sistema.
Inoltre, senza
timore di cadere in contraddizione, analisti e commentatori continuano a
sottolineare come “riforme” che dovrebbero includere, tra l’altro, il
ridimensionamento delle aziende pubbliche e una maggiore flessibilità
della manodopera, abbiano l’obiettivo di ridurre il gap tra ricchi e
poveri e creare maggiore occupazione.
In realtà, le
liberalizzazioni si accompagneranno come di consueto ad inevitabili e
massicce perdite di posti di lavoro, nonché ad un’ulteriore
precarizzazione degli impieghi e ad un aggravamento delle disuguaglianze
sociali. Come ha ricordato un’analisi di questa settimana della Associated Press,
infatti, la precedente e più significativa fase di “riforme” economiche
lanciata sul finire degli anni Novanta durante la premiership di Zhu
Rongji, caratterizzata da un’ondata di privatizzazioni e progetti di
“modernizzazione” delle compagnie statali, fu seguita dalla rovinosa
perdita di milioni di posti di lavoro.
Per questa ragione, oltre a
superare l’opposizione interna, la dirigenza cinese si troverà
costretta a fronteggiare le resistenze e le tensioni sociali che si
diffonderanno ben presto tra una sterminata popolazione che pagherà le
conseguenze delle “riforme” stesse.
Assieme alla campagna
lanciata dagli organi di propaganda del regime per presentare i piani
che saranno in discussione al plenum come un passo avanti verso la
creazione di un paese più prospero, i vertici del partito negli ultimi
mesi hanno così proceduto a rafforzare il controllo sulla società
cinese, intensificando la censura dei media e restringendo gli spazi a
disposizione per qualsiasi opinione che possa alimentare pericolose
illusioni di liberalizzazioni politiche o di un possibile percorso verso
una sistema più equo.
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