Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

22/07/2015

In Rojava contro la barbarie. Intervista a Karim Franceschi

Karim Franceschi, 26 anni  di Senigallia è passato agli onori della cronaca per essere stato il primo italiano ad arruolarsi in battaglia contro l'Isis: tre mesi di cameratismo, resistenza e lotta fianco a fianco con le orgogliose milizie curde, i cui componenti Karim definisce i nuovi partigiani.

Una formazione culturale, la sua, fondata sull’esperienza del centro autogestito Arvultura e l'amore per la resistenza e la libertà tramandategli dal padre, partigiano toscano.

Diploma di maturità classica e con molteplici trascorsi lavorativi da precario alle spalle, dopo un'esperienza lo scorso novembre nei campi profughi di Soruc, Karim decide di partecipare attivamente al conflitto e di schierarsi con i curdi contro le milizie del Califfato.

A gennaio di quest'anno, zaino in spalla e con sé solo pochi vestiti, il visto e il telefonino attraversa il confine a Soruc, scavalcando a piedi il filo spinato. Dall'altra parte raggiunge i curdi delle Ypg, le truppe volontarie di difesa. Da quel giorno e per i tre mesi successivi Karim rischierà la propria vita per respingere gli invasori jihadisti e per appoggiare una causa che sarebbe un errore imperdonabile considerare di esclusivo appannaggio del popolo curdo, quanto piuttosto  la causa della “libertà della ragione” contro il fanatismo e le barbarie religiose.

Karim cosa sentiresti di dirci sulla tua esperienza militare e umana nei territori curdi?

Quando sono arrivato, l’accoglienza che ho ricevuto è stata incredibile. Fin da subito i compagni e le compagne dello YPG-YPJ mi hanno fatto sentire il calore dell’ospitalità curda, senza fare segreto del loro entusiasmo nell’avere un italiano fra le loro fila. Nei tre mesi passati sul fronte di Kobane ho imparato cosa significa essere un rivoluzionario.

Qual è stato l'episodio che ti ha più colpito?

Vedere un ragazzino che faceva sempre il duro, commuoversi da solo cantando una canzone partigiana sui compagni caduti.

Dopo di te, che tu sappia, nessun altro italiano si è arruolato con le truppe curde?

Che io sappia almeno un altro compagno italiano si è unito alle Unità di Protezione Popolari (YPG) dopo che io avevo già lasciato Kobane ad Aprile. Una compagna italiana ha militato per qualche tempo nelle Unità di Protezione Femminili (YPJ) nel Sinjar, e ora si occupa della parte civile sempre nel Rojava.

Di recente due comunisti spagnoli di ritorno dal Kurdistan dove erano andati per dare man forte alle milizie locali contro l’Isis sono stati arrestati dalle autorità iberiche, accusati ora di aver partecipato ad un conflitto armato fuori dai confini del paese senza la necessaria autorizzazione, “ponendo così a rischio gli interessi nazionali”.

Con disposizioni normative di tal genere, miopi pure nella loro applicazione al caso concreto, non si rischia di far un favore al Califfato?

Quello della Spagna non è l’unico caso. Sembra che ci sia una tendenza tra i paesi occidentali a non voler pestare troppo i piedi al califfato. Da una parte molti paesi vedono l’ISIS come un contro bilanciatore alla crescente influenza iraniana nella regione, dall’altra molti hanno paura di ritorsioni contro i propri connazionali all’estero, o di attentati sul proprio territorio nazionale.

In base al tuo vissuto nei territori oggetto di battaglia, cosa può fare l'occidente in concreto per fermare l'avanzata degli estremisti islamici?
Le Unità di Protezioni Popolari e Femminili sono l’unica entità militare che è riuscita ad avanzare contro lo Stato Islamico. Dall’assedio rotto nella montagna del Sinjar dove l’Isis aveva tentato di commettere un genocidio di massa contro la minoranza di Yazidi, alla liberazione di Kobane e ultimamente la presa di Tal Abyad, centro nevralgico per i traffici dell’ISIS con la Turchia.  Alla liberazione di Kobane c’ero anche io: combattevamo con armi vecchissime, contro milizie di jihadisti meglio armate ed equipaggiate. Spesso ci ritrovavamo senza munizioni ed in certi casi eravamo costretti a fronteggiare carri armati senza mezzi appropriati. Mandare armi nel Rojava è una priorità se si vuole vedere il califfato di Al Baghdadi cadere. I bombardamenti della coalizione se pur di grande aiuto non bastano.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento