La questione europea, qualsiasi approccio si vuole assumere, con
molta probabilità costituirà uno dei principali campi di intervento
politico di qui al futuro prossimo. Per una sinistra degna di questo
nome sarà quindi inevitabile farci i conti. Girare attorno alla
questione farà solo perdere tempo, perché non siamo stati e non saremo
noi a porla all’ordine del giorno delle vicende politiche. Più
semplicemente, sarà la realtà materiale ad imporre l’Unione europea come soggetto politico che in qualche modo rappresenta il potere, con
tutto il carico di valore politico a cui rimanda questo concetto. Da
questo punto di vista, inutile porre la questione solo in chiave
esperienziale e di mera prassi quotidiana. Serve in qualche modo una teoria,
un approfondimento analitico capace di indicare cosa rappresenta
l’accentramento europeista, chi ne sono gli artefici e chi, di
conseguenza, gli amici e i nemici. Anche in questo caso, possiamo
comodamente girarci intorno, chiuderci nei nostri confini nazionali
augurandoci che procedendo col paraocchi allontani le contraddizioni che
si porta appresso la vicenda della Ue. Non andremo però molto lontano, e
la vicenda greca dovrebbe in qualche modo certificare questo fatto. Per
quanto possiamo negarlo, anche la più piccola delle vicende nostrane
dipende in tutto e per tutto da un centro di potere che non si situa né
nei nostri territori né semplicemente nel governo nazionale. Perché
allora continuare a negare un fatto che costituisce sempre più
un’evidenza?
Risulta ormai evidente che i concetti di Europa e di Unione europea
non sono sovrapponibili. Tsipras, che certamente non può essere accusato
di “antieuropeismo”, nonostante professi ancora un inguaribile
ottimismo rispetto alla possibilità di riformare questa Ue, crediamo
abbia messo in conto che la mossa del referendum avrebbe potuto, o
potrebbe ancora, portare la Grecia fuori dalla zona euro. Ecco, se ci è
arrivato lui, che rappresenta un certo tipo di riformismo radicale, non
vediamo come possano essere ancora confusi i concetti di Europa e Unione
europea nella sinistra che vorrebbe dirsi “più radicale” di Syriza.
Lottare contro questa Ue non significa lottare contro il concetto di
Europa, non significa solleticare retoriche nazionalistiche, tornare
allo status quo ante. Cosa significa però lottare contro questa Ue? Qui si situa la difficoltà, che è sia teorica che pratica.
Costituendo un fatto nuovo, la lotta alla Ue non rimanda apparentemente
ad alcuno schema utilizzabile, nessun riferimento nella nostra storia
applicabile a grandi linee alla situazione odierna. Questo è bene
evidenziarlo, perché invece schemi del passato vengono costantemente
riproposti per giustificare l’adesione all’Unione europea e, viceversa,
accusare chi la combatte, come detto prima, di nazionalismo. E’ una
discussione tutta da fare e che in questi giorni ha prodotto anche
contributi di livello, ma urge un percorso di approfondimento.
Cominciamo ad esempio a mettere sul tavolo della discussione tre
questioni dirimenti e contraddittorie.
Primo, uscire dall’Unione europea non è un evento “rivoluzionario”. Secondo, l’uscita dalla Ue non conduce al socialismo. Terzo, non è solo il “proletariato”, per così dire, che ha da guadagnarci da una rottura del potere europeista.
Sembrano banalità, ma questi tre aspetti ancora aprono voragini
teoriche e culturali nel mondo della sinistra di classe che portano la
dialettica sulla Ue ad un binario morto (del tipo: “ma se la lotta alla
Ue non porta al socialismo, perché farla?” O cose del genere). Sebbene,
come abbiamo detto, la questione europea non rimanda apparentemente ad
alcuno schema storico di riferimento, in realtà questi tre punti hanno
però la forza di indicare un evento storico non speculare ma
avvicinabile alle vicende di oggi. Fatte le tare del caso, la lotta
all’Unione europea sembra sempre di più assumere le sembianze del processo di decolonizzazione. E questo perché è il processo di accentramento economico e decisionale europeista ad assomigliare sempre più ad una colonizzazione interna. Una colonizzazione fondata sugli interessi economici di un capitalismo transazionale a trazione tedesca.
Una forma di capitalismo che non solo attua il compito storico di
contenimento degli interessi proletari, ma che fa piazza pulita delle
varie produzioni nazionali, quelle legate ad una borghesia
imprenditoriale che infatti condivide l’odio popolare verso questo
processo. Lo scontro tra capitale e lavoro non esclude che questo
processo di accentramento costituisca anche una drammatica lotta interna
alla borghesia, in cui una forma di capitale sta prevalendo su di
un’altra (per capire quanto lo scontro tra borghesie e capitalismi
alternativi sia tragico basta rimandare alla questione Donbass). E
questa forma superiore di capitalismo ha necessità di reggere una
competizione internazionale che non è possibile mantenere nei limiti
degli Stati nazionali europei. Servono territori e una popolazione in
scala capace di giocarsi la partita del profitto con gli altri
competitor continentali (Stati Uniti, Cina, Russia, India, Brasile,
Messico, Turchia, eccetera, tutti attori accomunati da una cosa: un
territorio e una popolazione enorme).
Torniamo ai tre punti contraddittori e al rimando della questione
coloniale. Sia oggi che nelle lotte di liberazione nazionale, c’è una convergenza di interessi tra classi lavoratrici e pezzi di borghesia impoverita
legata alla piccola e media impresa. Non è un caso che oggi la lotta
alla Ue sia stata raccolta da quei settori di destra espressione di quel
particolare ceto borghese “sconfitto” dalla dinamica Ue (che peraltro
hanno subito applaudito al coraggio di Tsipras), così come non era un
caso che nelle lotte di liberazione nazionale la borghesia locale ebbe
un ruolo oggettivamente decisivo nella riuscita del processo di
decolonizzazione. Questo fatto impone l’evidenza che è perfettamente (e oggi molto probabilmente) plausibile un’uscita dalla Ue da destra e non da sinistra.
E questo descrive un’altra evidenza, e cioè che l’uscita dalla Ue non è
un fatto rivoluzionario, almeno nel senso novecentesco del termine. Si
può benissimo, ci sembra anzi la situazione più probabile, uscire dalla
Ue e rimanere in un’economia capitalista e addirittura neoliberista.
Questo evento fu peraltro tipico nella lotta al colonialismo. A parte i
punti più alti della vicenda anti-coloniale (Cina, Cuba, Vietnam), le
lotte di liberazione nazionali non sfociarono in rivoluzione o in
governi socialisti, e il maggior numero di paesi continuò in un regime
di capitalismo nazionale. D’altronde, per dire, l’eventuale uscita della
Grecia non porterà certo quel paese al socialismo. Almeno non è una
conseguenza diretta, quanto magari un corollario eventuale e al momento
improbabile. Infine, l’uscita dalla Ue non cambia direttamente le
condizioni di vita del proletariato, e anzi avrebbe nel breve periodo
più ritorno economico e politico la borghesia locale “nazionalizzata”
che le ragioni del lavoro.
Bene, se queste ci sembrano le condizioni attuali e in previsione, se
la lotta alla Ue e l’eventuale fuoriuscita di uno o più paesi membri
non spostano in avanti automaticamente i rapporti di forza tra classi,
perché considerarla centrale per una politica rivoluzionaria? Il
processo di decolonizzazione in questo senso aiuta a chiarire la
centralità politica della vicenda. Nonostante il carattere nazionale, a
volte nazionalistico, e in molti casi capitalistico di quelle lotte,
questi fattori non impedirono di individuare in quelle lotte il momento
più alto di opposizione al capitalismo coloniale per quei tempi. Non
impedirono di riconoscere che nella lotta tra capitalismi esiste
sempre un capitalismo in cui le forze proletarie hanno o strappano
maggiori margini di agibilità. Se uscire dalla Ue non porta in avanti i rapporti di classe, questa rimane però la conditio sine qua non affinchè quei rapporti possano progredire,
liberandosi da un controllo egemonico del capitale che oggi impedisce
in nuce qualsiasi spostamento in avanti degli stessi rapporti di classe.
Se la lotta alla Ue non è un mero fatto di classe, quanto, come
pensiamo, un fatto trasversale, dentro la Ue non c’è lotta di classe immaginabile
che abbia la pretesa di incidere nei rapporti di potere. Esattamente
come nei paesi colonizzati non era possibile immaginare uno sviluppo
nazionale, socialista o capitalista che fosse, che non prevedesse al
primo e per certi versi unico punto la lotta senza quartiere al dominio
colonialista.
Per questo per capire la lotta alla Ue bisogna tornare a Fanon, al
Fanon rivoluzionario e nazionale al tempo stesso, socialista o
capitalista all’occorrenza, perché solo nel ventre della lotta di
liberazione si comprendono gli amici e i nemici contingenti. E se “per il colonizzato, la vita non può nascere che dal cadavere in decomposizione del colono”, per le classi subalterne di tutta Europa la vita non potrà rinascere che dal cadavere in decomposizione della Ue.
Un passaggio necessario, non rivoluzionario, intermedio e
contraddittorio. Ma che andrebbe assunto per evitare che tale lotta
venga egemonizzata dalle destre, dileguando ogni possibilità per le
sinistre di guidare un processo che si sta sempre più imponendo
all’ordine del giorno. Oggi c’è la necessità di un fronte di sinistra
contro la Ue e l’euro, sulla scorta dell’esperienza del Fln algerino,
socialista e internazionalista ma tatticamente nazionale e in
convergenza con gli interessi di un pezzo di borghesia in lotta contro
il comune nemico. Ci è arrivato Tsipras alleandosi con il partito
d’estrema destra Anel, e non per una convergenza politica, ma per
egemonizzare quei settori sociali oggi convinti del messaggio populista e
razzista delle destre à la Le Pen di tutta Europa. Bisogna
liberare la lotta alla Ue del razzismo e del nazionalismo che oggi la
contraddistingue, e per farlo o iniziamo a lavorarci su, teoricamente e
praticamente, o saremo tagliati fuori dalla partita.
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