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21/07/2015

L’Europa irriformabile

di Carlo Formenti
 

La socialdemocrazia è morta e l’europeismo agonizza: sintetizzerei così le riflessioni suggeritemi dalla lettura di due recenti interventi apparsi su Micromega: l’articolo di Stefano Rodotà intitolato “Il filo spezzato dell’Europa” e l’intervista di Giacomo Russo Spena a Emiliano Brancaccio.

Parto da Rodotà e dalla sua presa d’atto che la vicenda greca, con la ignobile (Stefano, che è sempre fin troppo gentile, la definisce imbarazzante) presa di posizione del vice cancelliere tedesco targato Spd, e con il sostanziale allineamento di tutti gli esponenti europei dell’Internazionale (dovrebbero vietargli di usare questa parola!) socialista, ha sancito la dissoluzione della socialdemocrazia e la nascita di un “partito unico” totalmente schierato con l’ideologia ordoliberista. È, se vogliamo, una presa d’atto tardiva, nel senso che la socialdemocrazia era morta da un pezzo, da quando cioè i governi di centrosinistra si sono candidati a gestire il progetto economico politico neoliberista in concorrenza con le forze di centrodestra (quindi almeno dall’avvento del New Labour di Blair).

Ma soprattutto è una presa d’atto parziale, nel senso che la morte della socialdemocrazia è strettamente associata alla morte della democrazia, sancita da una costituzione materiale europea fondata su trattati che escludono a priori qualsiasi riconoscimento della sovranità popolare (come la vicenda del fiscal compact aveva chiarito prima ancora della feroce repressione nei confronti del popolo greco e del suo referendum).

Tuttavia Rodotà, da vecchio europeista, non può rassegnarsi al crollo – definitivo e irreversibile – di quel sogno e si aggrappa ai principi della Carta dei diritti fondamentali che rappresentano, scrive, l’unica fonte di legittimazione della Ue (peccato che la costituzione materiale ordoliberista semplicemente ignori il problema della legittimazione). Si aggrappa, inoltre, alla speranza che a sinistra possano nascere forze politiche capaci di rivendicare “la possibilità concreta di una azione statuale e sovranazionale che metta a frutto le analisi di tanti economisti e giuristi che hanno mostrato la forza distruttiva delle politiche finora seguite”, forze che dovrebbero riempire il vuoto che si è aperto fra il partito unico del rigore e i diversi populismi. Prima di spiegare perché, a mio parere, non è giusto parlare di vuoto, e perché è sempre più urgente smetterla di accomunare in un unico campo tutti i movimenti etichettati come populisti, vorrei riprendere alcune delle considerazioni svolte da Brancaccio nell’intervista sopra citata.

A mio parere, l’argomento centrale svolto da Brancaccio è quell’assenza di un piano B che ha determinato la catastrofica sconfitta di Tsipras. Il punto è che, dal momento in cui Tsipras ha detto che nemmeno l’esito referendario lo autorizzava a contemplare l’ipotesi di uscita della Grecia dall’euro, si è consegnato mani e piedi legati nelle mani dei carnefici, ai quali ha fatto capire “che il popolo greco era ormai pronto a tutto. Il governo no”. Brancaccio aggiunge che, probabilmente, il leader di Syriza è rimasto sorpreso dalla dimensione della vittoria del no (io, che sono più cattivo, comincio a dubitare che, visto come si è comportato dopo, sperasse in una sconfitta…). Ma soprattutto – e qui sta il nodo cruciale – sottolinea come l’illusione secondo cui la vittoria di Syriza in Grecia avrebbe potuto determinare una svolta della politica economica della Ue fosse condivisa da tutte le sinistre radicali europee, il cui sogno velleitario nasceva dalla mancanza di una visione realistica dei rapporti di forza fra Paesi membri e dei conflitti intercapitalistici a livello globale. Quindi conclude che, se si vuole effettivamente costruire un’alternativa, occorre “mettere da parte la retorica europeista e globalista e predisporre una visione alternativa, un nuovo internazionalismo del lavoro”.

A monte del dibattito su quale possa essere il piano B (che secondo me potrà esistere solo a partire dal momento in cui saremo tutti d’accordo sul fatto che questa Europa è irriformabile!), urge il dibattito su quali forze possano avviare tale processo. E qui esplicito il mio dissenso nei confronti di Rodotà: 1) fra partito unico dell’austerità e populisti non c’è alcun vuoto: basta dare un’occhiata ai numeri elettorali per capire che quel vuoto è saldamente presidiato, ci piaccia o no, proprio dalle formazioni populiste, 2) a meno di voler continuare a correre come lemming verso il suicidio politico (pericolosamente vicino), le sinistre radicali dovrebbero, invece di ricorrere a progetti minoritari e perdenti in partenza, imparare a distinguere fra populismi di sinistra e populismi di destra e aprire un serio confronto con i primi.

Poco importa che forze come Podemos, che pure hanno programmi politici inequivocabilmente di sinistra, dichiarino di non essere né di destra né di sinistra: questo è l’effetto del totale discredito cui sono andate incontro le sinistre (tutte!) e della sfiducia delle masse popolari nei loro confronti. È comunque da lì che tocca ripartire, per condurre una battaglia culturale che acceleri la maturazione di queste forze. Per ora vedo invece velleitari tentativi di ricostruire una “vera” socialdemocrazia, tentativi che ignorano come nessuna riforma radicale (absit iniuria verbis) abbia la minima opportunità di successo in assenza di una rottura sistemica.

Un’ultima parola sul concetto di internazionalismo del lavoro, che Brancaccio evoca alla fine dell’intervista. In attesa che chiarisca meglio cosa intende, esprimo la mia diffidenza nei confronti di un concetto che, di fatto, nella sinistra attuale viene spesso declinato in termini di cosmopolitismo borghese. Il tema più urgente è, a mio parere, la ricostruzione dal basso di elementi di sovranità popolare (non nazionale!) riferita non solo al tema del lavoro, ma anche a quelli dell’ambiente, dei beni comuni, ecc. È solo a partire da tali elementi che potrà essere reimpostato il tema dell’internazionalismo.


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