di Carlo Formenti
La socialdemocrazia è
morta e l’europeismo agonizza: sintetizzerei così le riflessioni
suggeritemi dalla lettura di due recenti interventi apparsi su
Micromega: l’articolo di Stefano Rodotà intitolato “Il filo spezzato dell’Europa” e l’intervista di Giacomo Russo Spena a Emiliano Brancaccio.
Parto
da Rodotà e dalla sua presa d’atto che la vicenda greca, con la
ignobile (Stefano, che è sempre fin troppo gentile, la definisce
imbarazzante) presa di posizione del vice cancelliere tedesco targato
Spd, e con il sostanziale allineamento di tutti gli esponenti europei
dell’Internazionale (dovrebbero vietargli di usare questa parola!)
socialista, ha sancito la dissoluzione della socialdemocrazia e la
nascita di un “partito unico” totalmente schierato con l’ideologia
ordoliberista. È, se vogliamo, una presa d’atto tardiva, nel senso che
la socialdemocrazia era morta da un pezzo, da quando cioè i governi di
centrosinistra si sono candidati a gestire il progetto economico
politico neoliberista in concorrenza con le forze di centrodestra
(quindi almeno dall’avvento del New Labour di Blair).
Ma
soprattutto è una presa d’atto parziale, nel senso che la morte della
socialdemocrazia è strettamente associata alla morte della democrazia,
sancita da una costituzione materiale europea fondata su trattati che
escludono a priori qualsiasi riconoscimento della sovranità popolare
(come la vicenda del fiscal compact aveva chiarito prima ancora della
feroce repressione nei confronti del popolo greco e del suo referendum).
Tuttavia
Rodotà, da vecchio europeista, non può rassegnarsi al crollo –
definitivo e irreversibile – di quel sogno e si aggrappa ai principi
della Carta dei diritti fondamentali che rappresentano, scrive, l’unica
fonte di legittimazione della Ue (peccato che la costituzione materiale
ordoliberista semplicemente ignori il problema della legittimazione). Si
aggrappa, inoltre, alla speranza che a sinistra possano nascere forze
politiche capaci di rivendicare “la possibilità concreta di una azione
statuale e sovranazionale che metta a frutto le analisi di tanti
economisti e giuristi che hanno mostrato la forza distruttiva delle
politiche finora seguite”, forze che dovrebbero riempire il vuoto che si
è aperto fra il partito unico del rigore e i diversi populismi. Prima
di spiegare perché, a mio parere, non è giusto parlare di vuoto, e
perché è sempre più urgente smetterla di accomunare in un unico campo
tutti i movimenti etichettati come populisti, vorrei riprendere alcune
delle considerazioni svolte da Brancaccio nell’intervista sopra citata.
A mio parere, l’argomento centrale svolto da Brancaccio è
quell’assenza di un piano B che ha determinato la catastrofica sconfitta
di Tsipras. Il punto è che, dal momento in cui Tsipras ha detto che
nemmeno l’esito referendario lo autorizzava a contemplare l’ipotesi di
uscita della Grecia dall’euro, si è consegnato mani e piedi legati nelle
mani dei carnefici, ai quali ha fatto capire “che il popolo greco era
ormai pronto a tutto. Il governo no”. Brancaccio aggiunge che,
probabilmente, il leader di Syriza è rimasto sorpreso dalla dimensione
della vittoria del no (io, che sono più cattivo, comincio a dubitare
che, visto come si è comportato dopo, sperasse in una sconfitta…). Ma
soprattutto – e qui sta il nodo cruciale – sottolinea come l’illusione
secondo cui la vittoria di Syriza in Grecia avrebbe potuto determinare
una svolta della politica economica della Ue fosse condivisa da tutte le
sinistre radicali europee, il cui sogno velleitario nasceva dalla
mancanza di una visione realistica dei rapporti di forza fra Paesi
membri e dei conflitti intercapitalistici a livello globale. Quindi
conclude che, se si vuole effettivamente costruire un’alternativa,
occorre “mettere da parte la retorica europeista e globalista e
predisporre una visione alternativa, un nuovo internazionalismo del
lavoro”.
A monte del dibattito su quale possa essere il piano B
(che secondo me potrà esistere solo a partire dal momento in cui saremo
tutti d’accordo sul fatto che questa Europa è irriformabile!), urge il
dibattito su quali forze possano avviare tale processo. E qui esplicito
il mio dissenso nei confronti di Rodotà: 1) fra partito unico
dell’austerità e populisti non c’è alcun vuoto: basta dare un’occhiata
ai numeri elettorali per capire che quel vuoto è saldamente presidiato,
ci piaccia o no, proprio dalle formazioni populiste, 2) a meno di voler
continuare a correre come lemming verso il suicidio politico
(pericolosamente vicino), le sinistre radicali dovrebbero, invece di
ricorrere a progetti minoritari e perdenti in partenza, imparare a
distinguere fra populismi di sinistra e populismi di destra e aprire un
serio confronto con i primi.
Poco importa che forze come Podemos,
che pure hanno programmi politici inequivocabilmente di sinistra,
dichiarino di non essere né di destra né di sinistra: questo è l’effetto
del totale discredito cui sono andate incontro le sinistre (tutte!) e
della sfiducia delle masse popolari nei loro confronti. È comunque da lì
che tocca ripartire, per condurre una battaglia culturale che acceleri
la maturazione di queste forze. Per ora vedo invece velleitari tentativi
di ricostruire una “vera” socialdemocrazia, tentativi che ignorano come
nessuna riforma radicale (absit iniuria verbis) abbia la minima
opportunità di successo in assenza di una rottura sistemica.
Un’ultima
parola sul concetto di internazionalismo del lavoro, che Brancaccio
evoca alla fine dell’intervista. In attesa che chiarisca meglio cosa
intende, esprimo la mia diffidenza nei confronti di un concetto che, di
fatto, nella sinistra attuale viene spesso declinato in termini di
cosmopolitismo borghese. Il tema più urgente è, a mio parere, la
ricostruzione dal basso di elementi di sovranità popolare (non
nazionale!) riferita non solo al tema del lavoro, ma anche a quelli
dell’ambiente, dei beni comuni, ecc. È solo a partire da tali elementi
che potrà essere reimpostato il tema dell’internazionalismo.
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