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20/07/2015

Se anche Stefano Fassina diventa "no euro"

Sono giorni che valgono anni, questi che abbiamo vissuto tra il referendum del 5 luglio in Grecia e la resa senza condizioni di otto giorni dopo. Vecchie certezze si sono rivelate banali luoghi comuni frutti dell'abitudine, o della scarsità di pensiero; e fresche illusioni, come quelle del nuovo "riformismo di necessità", quello sbocciato parzialmente fuori dei tradizionali recinti delle ideologie riformiste novecentesche (Syriza, Podemos, Movimento 5 Stelle, ecc.), si sono trovate davanti i blindati d'acciaio dell'ordoliberismo inchiavardato nei trattati dell'Unione Europea.

Giorni che hanno distrutto insomma quell'idea all'apparenza tanto semplice: "facciamo un'altra Europa", più solidale, più attenta ai bisogni delle popolazioni", insomma più "di sinistra"', riformista senza eccessi. L'alternativa era bocciata prima di cominciare a ragionare: "nazionalismo di ritorno", nostalgici della lira e via demonizzando, abbacinati dal protagonismo mediatico dei Salvini di turno (specchio preconfezionato dell'altro Matteo, provvisoriamente a palazzo Chigi). Senza dunque neppure ascoltare chi - come l'area politica che questo giornale cerca di rappresentare - vedeva e vede nella rottura dell'Unione Europea (moneta unica compresa) il passaggio indispensabile per ipotizzare e strutturare un'altra comunità internazionale, fondata su princìpi di solidarietà sociale e complementarietà produttiva, sull'esempio dell'Alba latino-americana, e che per analogia abbiamo chiamato Alba Euromediterranea.

Una proposta politica che nella residuale "sinistra radicale", e anche in settori di movimento, è stata per qualche tempo snobbata con sufficienza, come se fosse una ricetta fast food, una "cosetta" da provare a fare a bocce ferme, nell'attuale contesto.

I giorni di luglio stanno cambiando rapidamente la situazione. Una qualsiasi politica attenta al sociale si è dimostrata impossibile nell'attuale quadro istituzionale dell'Unione Europea. Il governo Tsipras-2 sarà obbligato a cancellare anche le poche "misure umanitarie" che il governo Tsipras-1 era riuscita con tanti sforzi a varare. Così vuole la Troika, così verrà fatto.

Nella ex "sinistra dei contenitori", quella che ad ogni stagione reagisce all'ultima sconfitta ripetendo le mosse che hanno prodotto la precedente, nell'illusione che aggregare pezzi sfranti di ceto politico sconfitto sia una soluzione furba per restare o tornare a galla, fino a due giorni fa l'idea dominante era sempre la stessa: alla prepotenza dell'"Europa tedesca" bisogna proporre "più Europa" e naturalmente "un'altra Europa".

Ora Stefano Fassina si accorge che il ragionamento non tiene più. Che l'euro è una gabbia entro la quale ogni idea moderatamente riformista e di "compassione sociale" non ha spazio per realizzarsi. Più precisamente: "nella gab­bia libe­ri­sta dell’euro, la sini­stra, intesa come forza impe­gnata per la dignità e la sog­get­ti­vità poli­tica del lavoro e per la cit­ta­di­nanza sociale come vei­colo di demo­cra­zia effet­tiva, perde senso e fun­zione sto­rica. È morta".

Non solo: "Tale qua­dro è rever­si­bile? [...] È dif­fi­cile rispon­dere sì". Quindi anche lui scopre che l'Unione Europea è irriformabile. Meglio tardi che mai, ma...

E' lo stesso Stefano Fassina che sedeva come sottosegretario all'economia nel governo Monti, il governo dell'"invasione" operata dalla Troika, quello della riforma Fornero e infiniti altri provvedimenti di taglio alla spesa sociale. Il salto in avanti sembra enorme. E in effetti lo è se si misurano le distanze in termini di politichetta italiana, ovvero come distanza dal Pd renziano. Se fossimo inesperti e inclini alle illusioni, potremmo dire "benvenuto" nell'opposizione.

Ma abbiamo imparato in questi anni che le "svolte" politiche nella sinistra riformista sono troppo numerose e frettolose, in genere basate su riflessioni tattiche, senza respiro di lungo periodo. E quindi ci verrebbe da aggiungere: "ma sei proprio sicuro? ma proprio sicuro sicuro?"

L'argomentare di Fassina è tutto concentrato sulla moneta unica, non prende in considerazione l'insieme organico dei trattati, che fissano gli architravi della "gabbia" in maniera molto solida; o, se lo fa, ne coglie solo la natura di limite per le "scelte della politica" ("Siamo stati inge­nui o, peg­gio, incon­sa­pe­voli degli effetti di mar­gi­na­liz­za­zione della poli­tica impli­cati nei Trat­tati"). E il suo orizzonte futuro non va molto oltre il semplice ritorno - sofferto - allo "stato nazione". Proprio il terreno peggiore per misurarsi con il "dopo euro", già infestato da fascisti padani e non...

E' comunque la prima presa d'atto che la strada "riformista" seguita fin qui - che lui definisce della "continuità" con l'assetto della Ue - è definitivamente interrotta, bombardata, impraticabile. Qualcosa di spiazzante per i suoi compagni di strada ancora fermi al "prima del 12 luglio"; sicuramente qualcosa di sconvolgente per il giornale su cui è apparsa la sua riflessione (il manifesto "nuova gestione"); sicuramente qualcosa che lo esporrà ancor di più a lazzi e frizzi renziani.

Ma non qualcosa che sia all'altezza del problema:
"La strada della discon­ti­nuità può essere l’unica per ten­tare di costruire una forza poli­tica in grado di ria­ni­mare la Costi­tu­zione della «Repub­blica demo­cra­tica, fon­data sul lavoro». La scon­fitta subita dal Governo Tsi­pras, e da noi a suo soste­gno, dovrebbe can­cel­lare l’illusione dell’inversione di rotta lungo la strada della con­ti­nuità. Il tenace attac­ca­mento all’illusione dovrebbe almeno scon­si­gliare avven­ture poli­ti­che oltre il Pd".
La "discontinuità" e la "gabbia dell'euro" possono sembrare grandi svolte solo se finora non ci si era mai posti il problema. Ma appunto: è difficile costruire seri movimenti di rottura dell'esistente per chi, come Fassina (e ancora più i suoi esitanti compagni di strada), si rende conto di come l'esistente è fatto solo quando ci sbatte contro in prima persona.

*****

Non c’è sinistra nella gabbia dell’euro

Sulla bru­ciante vicenda greca, par­tiamo dai con­te­nuti dello «Sta­te­ment» dell’Eurosummit del 12 luglio scorso, prima di fare valu­ta­zioni poli­ti­che. È impos­si­bile nascon­derne l’insostenibilità eco­no­mica e di finanza pub­blica. Le misure impo­ste sono bru­tal­mente reces­sive, oltre che regres­sive sul piano sociale, nono­stante gli aggiu­sta­menti con­qui­stati dalla dele­ga­zione greca a Bru­xel­les. Gli inter­venti di com­pen­sa­zione macroe­co­no­mica sostan­zial­mente ine­si­stenti. I finan­zia­menti pre­vi­sti per il sal­va­tag­gio sono dedi­cati alla rica­pi­ta­liz­za­zione delle ban­che e al paga­mento dei debiti verso Bce, Fmi e cre­di­tori privati.

Nulla va alla spesa in conto capi­tale. Men­tre la cre­di­bi­lità della Com­mis­sione euro­pea ad aiu­tare il governo greco a mobi­li­tare in 3–5 anni fino a 35 miliardi di euro per inve­sti­menti va pesata in rela­zione all’incapacità di repe­rire le risorse minime per il Piano Jun­ker. Infine, la pro­messa di valu­tare la soste­ni­bi­lità del debito pub­blico apre una pro­spet­tiva comun­que priva di rica­dute reali fino al 2023, ter­mine del grace period con­cesso dagli Stati euro­pei sui rispet­tivi crediti.

Quali lezioni trarre dalla para­bola greca? Ale­xis Tsi­pras, Syriza e il popolo greco hanno il merito sto­rico, inne­ga­bile, di aver strap­pato il velo della reto­rica euro­pei­sta e della ogget­ti­vità tec­nica steso a coprire le dina­mi­che nell’eurozona. Ora si vede la poli­tica di potenza e il con­flitto sociale tra ari­sto­cra­zia finan­zia­ria e classi medie: la Ger­ma­nia, inca­pace di ege­mo­nia, domina l’eurozona e porta avanti un ordine eco­no­mico fun­zio­nale al suo inte­resse nazio­nale e agli inte­ressi della grande finanza.

In tale con­te­sto, i punti da affron­tare sono due. Il primo: il mer­can­ti­li­smo libe­ri­sta det­tato e imper­niato su Ber­lino è inso­ste­ni­bile. La sva­lu­ta­zione del lavoro, in alter­na­tiva alla sva­lu­ta­zione della moneta nazio­nale, come unica strada per aggiu­sta­menti “reali” deter­mina cro­nica insuf­fi­cienza di domanda aggre­gata, ele­vata e per­si­stente disoc­cu­pa­zione, defla­zione e rigon­fia­mento dei debiti pub­blici. In tale qua­dro, l’euro esige, oltre i con­fini dello Stato-nazione domi­nante, lo svuo­ta­mento della demo­cra­zia e la poli­tica come ammi­ni­stra­zione per conto terzi e intrattenimento.

Tale qua­dro è rever­si­bile? Ecco il secondo punto. È dif­fi­cile rispon­dere sì. Pur­troppo, le neces­sa­rie cor­re­zioni di rotta per ren­dere soste­ni­bile l’euro appa­iono impra­ti­ca­bili per ragioni cul­tu­rali, sto­ri­che e poli­ti­che. Le opi­nioni pub­bli­che nazio­nali hanno posi­zioni con­trap­po­ste, allon­ta­nate ancor di più dall’agenda impo­sta dopo il 2008. Le posi­zioni pre­va­lenti nel popolo tede­sco sono un fatto. In Ger­ma­nia, come ovun­que, i prin­cipi demo­cra­tici rile­vano nell’unica dimen­sione poli­tica rile­vante: lo Stato nazione.

Dai primi due punti di ana­lisi deriva una agra verità: nella gab­bia libe­ri­sta dell’euro, la sini­stra, intesa come forza impe­gnata per la dignità e la sog­get­ti­vità poli­tica del lavoro e per la cit­ta­di­nanza sociale come vei­colo di demo­cra­zia effet­tiva, perde senso e fun­zione sto­rica. È morta. La mar­gi­na­lità o la con­ni­venza dei par­titi della fami­glia socia­li­sta euro­pea sono mani­fe­ste. Con­ti­nuare a invo­care gli «Stati Uniti d’Europa» o la «riscrit­tura pro-labour» dei Trat­tati è un eser­ci­zio astratto, vet­tore di auto­re­fe­ren­zia­lità e di allon­ta­na­mento dal popolo.

Che fare? Siamo a un bivio sto­rico. Da una parte, la strada della con­ti­nuità vin­co­lata all’euro, ossia della ras­se­gna­zione alla fine delle demo­cra­zia delle classi medie oppure dell’illusione di «svol­te­buone»: un equi­li­brio pre­ca­rio di sot­tooc­cu­pa­zione e di rab­bia sociale, minac­ciato da rischi ele­va­tis­simi di rot­tura. Dall’altra, il supe­ra­mento con­cor­dato, senza atti uni­la­te­rali, della moneta unica e del con­nesso assetto isti­tu­zio­nale, innan­zi­tutto per il recu­pero dell’accountability demo­cra­tica della poli­tica mone­ta­ria: un per­corso imper­vio, incerto, dalle con­se­guenze dolo­rose almeno nel periodo iniziale.

La scelta è dram­ma­tica. Fare l’euro è stato un errore di pro­spet­tiva poli­tica. Siamo stati inge­nui o, peg­gio, incon­sa­pe­voli degli effetti di mar­gi­na­liz­za­zione della poli­tica impli­cati nei Trat­tati. Oggi la strada della con­ti­nuità è opzione espli­cita dei Par­titi della Nazione o delle grandi coa­li­zioni a guida con­ser­va­trice. È anche per­corsa invo­lon­ta­ria­mente e con­trad­dit­to­ria­mente da chi in Ita­lia si mobi­lita con­tro il Jobs Act ma giu­sti­fica, in nome del «no Gre­xit», l’attuazione dell’Agenda Monti in ver­sione esi­ziale ad Atene. La strada della discon­ti­nuità può essere l’unica per ten­tare di costruire una forza poli­tica in grado di ria­ni­mare la Costi­tu­zione della «Repub­blica demo­cra­tica, fon­data sul lavoro». La scon­fitta subita dal Governo Tsi­pras, e da noi a suo soste­gno, dovrebbe can­cel­lare l’illusione dell’inversione di rotta lungo la strada della con­ti­nuità. Il tenace attac­ca­mento all’illusione dovrebbe almeno scon­si­gliare avven­ture poli­ti­che oltre il Pd.

Stefano Fassina
pubblicato su Il Manifesto del 17 luglio 2015


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