by Ramzi Baroud
(traduzione di Romana Rubeo)
“Gli Americani si sono schierati con i Musulmani (Sciiti) nella guerra settaria in corso nel Medio Oriente,” ha
dichiarato Robert Fisk all’“Independent” il 15 luglio, il giorno dopo
il raggiungimento dello storico accordo sul programma nucleare tra Iran,
Stati Uniti e altre cinque potenze mondiali. Un’analisi che sembra
alquanto sbrigativa. Oltre a dare per scontato che la guerra in Medio
Oriente sia essenzialmente un conflitto tra sette, infatti, sottintende
che le decisioni di politica estera da parte degli Americani si basino
su considerazioni di natura settaria. E invece non è così.
I fondamenti della politica estera statunitense non sono cambiati.
Nel Medio Oriente, si basano su due variabili principali: la prima è di
natura economica (petrolio, gas, controllo e influenza strategica sui
Paesi che producono tali beni essenziali per l’economia degli Stati
Uniti e mondiale); la seconda è Israele. A differenza degli altri
alleati statunitensi nella regione, Israele è riuscito a svincolarsi dal
ruolo di Stato satellite e a conquistare una forte influenza
sull’agenda politica del Paese. Grazie a lobby potentissime e a un
congresso compiacente, il volere del Primo Ministro si è imposto come
una priorità nell’agenda politica americana. Ovviamente, esistono delle
eccezioni. Sebbene Netanyahu abbia caldeggiato una guerra contro l’Iran,
sostenuto da numerosi alleati sia democratici che repubblicani e dalle
pressioni esercitate dalle varie lobby e da un imponente apparato
mediatico, il suo desiderio non si è ancora realizzato. Anzi, a leggere
le oltre 100 pagine dell’accordo siglato il 14 giugno, la realizzazione
di questo suo auspicio è sospesa almeno per dieci anni, lasso di tempo
durante cui l’Iran ha accettato di arrestare il suo programma nucleare
in cambio della rimozione delle sanzioni economiche imposte da USA e
Nazioni Unite, che hanno inferto un colpo mortale all’economia del
Paese. Nonostante i proclami guerrafondai e arroganti che lancia già da
molti anni, Israele ha dovuto rinunciare alla possibilità di guidare
un’altra guerra regionale contro uno dei suoi più importanti nemici in
Medio Oriente.
Il Governo di Tel Aviv sperava che si ripetesse la situazione irachena,
che costituiva il modello dell’attuale atteggiamento nei confronti
dell’Iran: porre strumentalmente l’Iraq/ l’Iran come minacce concrete
alla sua esistenza, Saddam/Ahmadinejad come novelli Hitler, le
umilianti ispezioni alle armi di distruzione di massa irachene, che non
sono mai esistite, fino all’invasione, alla guerra civile e a tutte le
calamità che ne sono derivate. D’altro canto, il comportamento degli
Stati Uniti non è irreprensibile. La guerra all’Iran era, e rimane, un
tema dominante nei media americani, che trattegiano un’immagine
terribile dell’Iran, così come avevano fatto con l’Iraq prima
dell’invasione che ha determinato la distruzione del Paese e,
conseguentemente, dell’intera regione.
Una distruzione che Israele ha visto di buon occhio, perché
rappresentava la rimozione di un ulteriore ostacolo al suo progetto di
dominio regionale. Ma l’Iran ha subito cercato di guadagnarsi i
favori del nuovo governo iracheno, evitando di diventare un trampolino
di lancio per una potenziale invasione statunitense. L’Iran è riuscito a
riallacciare i rapporti con Baghdad, ma ha pagato a caro prezzo questa
scelta, che ha determinato una limitazione della sua sovranità e
un’ampia diffusione del settarismo. L’ascesa di un governo filo-iraniano
a guida Sciita in Iraq è stato, all’inizio, accolto favorevolmente
dagli Stati Uniti, che si sono posti a guida di una campagna di
“De-Ba’athificazione” dell’Iraq. Questo si è tradotto, essenzialmente,
nello smantellamento dei centri di potere sunniti e ha generato un vuoto
di potere naturalmente colmato dalle milizie sciite, armate e
addestrate sia dall’Iran che dagli Stati Uniti.
Nel timore che l’Iran diventasse troppo potente, gli Stati
Uniti hanno cambiato leggermente la propria rotta in Iraq: per
riequilibrare il panorama politico, hanno armato le comunità Sunnite,
nella speranza che potessero contrastare non solo l’influenza crescente
dei gruppi estremisti, ma anche la resistenza interna irachena.
Il piano ha funzionato fino a un certo punto, in quanto le milizie
tribali sunnite di Al-Sahwat si sono ritrovate presto ai ferri corti con
i gruppi Sciiti e sono rimaste isolate e prese di mira dagli altri
gruppi Sunniti, che le accusavano di tradimento. La spinta
dell’esperimento settario americano in Iraq e nella regione non si è mai
realmente esaurita, anche molto dopo lo schieramento delle truppe da
parte di George W. Bush, fino al ritiro durante l’Amministrazione Obama.
Agire contemporaneamente pro e contro l’Iran è stato
un tratto distintivo delle scelte americane, anch’esse sintomatiche
dell’egoismo insito nella loro politica estera. Per gli Stati Uniti, la
questione va ben al di là della divisione tra Sunniti e Sciiti; le
differenze esistenti vengono anzi sfruttate, incoraggiate e manipolate.
Sebbene Sunniti e Sciiti abbiano profonde divisioni sul piano
teologico, il conflitto è essenzialmente di natura politica, e gli
Americani non perdono occasione di sfruttare le faglie esistenti nella
regione (come in ogni altra parte del mondo) a scopi politici,
senza curarsi degli esiti devastanti, in termini di vittime e
distruzione. Sarebbe fuorviante sostenere che l’ascesa di Daesh sia una
diretta conseguenza dell’ingerenza degli Stati Uniti. Dovrebbe essere
chiaro a tutti, anche agli alleati del Golfo, che gli USA non fondano le
loro decisioni in merito ad alleanze e conflitti su basi etiche. L’onore
non c’entra, contano solo i propri interessi.
Obama, in una recente intervista a Thomas Friedman del New York Times,
ha elogiato Ronald Reagan e Richard Nixon per il pragmatismo della loro
politica estera, pur ribadendo alcune differenze, e questo dimostra lo
scarso rispetto nei confronti dei suoi alleati Arabi e dell’Iran. Si è
vantato di aver convinto la comunità internazionale a “imporre un regime
di sanzioni che ha indebolito l’economia iraniana, fino a costringere
il governo a un accordo,” come se le punizioni collettive a fini
politici fossero un atto virtuoso.
Israele, dal canto suo, si è rivelato un peso per il suo più grande
alleato, in quanto il governo di destra e il tessuto sociale che lo
sostiene vivono in un mondo di costanti paranoie e conflitti, con
conseguenze devastanti. Nel frattempo, Daesh continua a guadagnare
velocemente terreno, ritagliandosi una propria nazione tra l’Iraq e la
Siria.
Visti i problemi finanziari e la mancanza di consenso per
un’eventuale azione militare, Obama aveva disperatamente bisogno di un
accordo con l’Iran. Negli ultimi anni, la politica estera
statunitense in Medio Oriente ha perso completamente la bussola.
Sembrava mancare un obiettivo preciso ed era intrisa di contraddizioni.
Con il tempo, si è fatta sempre meno chiara, un fatto, questo, che gli
storici faticano a comprendere e spiegare.
Forse gli Stati Uniti sperano che una tregua di dieci anni con l’Iran
consentirà di ridefinire le linee della propria politica estera e di
fronteggiare i conflitti cruciali nella religione, a partire dalla crisi
della democrazia fino ad arrivare all’ascesa di Daesh. Dieci anni sono
un tempo sufficientemente lungo, dal punto di vista degli Stati Uniti,
per cooptare l’Iran e/o per ristabilire il dominio di Washington nel
quadro politico mediorientale. Quanto meno, servirà a rimandare la
necessità di risoluzione del problema.
D’altro canto, l’Iran e i Paesi Arabi confinanti potrebbero sfruttare questa opportunità.
Dovrebbero capire che a soffrire le conseguenze della guerra, delle
sanzioni, delle divisioni e del fondamentalismo sono soprattutto le loro
popolazioni.
Per sua stessa ammissione, durante l’intervista con Friedman, Obama ha dichiarato che anche gli Stati Uniti sono stati fortemente danneggiati dalle sanzioni imposte all’Iran,
ma sono altri a pagare il prezzo più alto dell’assedio economico.
Questo vale in ogni aspetto delle relazioni tra gli USA e la regione.
Sono, infatti, gli Arabi e gli Iraniani, i Musulmani e i Cristiani, i
Sunniti e gli Sciiti, insieme a tutti gli altri gruppi, a soffrire
maggiormente le conseguenze del conflitto.
I Paesi Arabi e l’Iran dovrebbero capire che la loro rivalità
è priva di fondamento e che stabilire il dominio su una regione
devastata e distrutta è fondamentalmente inutile. L’accordo
nucleare con l’Iran potrebbe aprire una stagione di riavvicinamento fra i
vari Paesi della regione. L’Iran non può sopravvivere in completo
isolamento in un territorio ostile per ragioni geopolitiche e culturali.
Per placare le ire di Netanyahu, il governo statunitense si è detto
favorevole a concedere ulteriori armi e attrezzature militari a Israele,
per un valore 1,5 miliardi di dollari all’anno. Questo è un chiaro
segnale che l’orientamento politico nella regione non è cambiato e che
spetta al Medio Oriente ostacolare l’approccio militaristico e foriero
di conflitti assunto dagli Stati Uniti.
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