di Chiara Cruciati – Il Manifesto
L’Occidente si affolla lungo le coste libiche. Aumentano le truppe, aumenta la pressione militare. Dopo le rivelazioni di Le Monde
riguardo la partecipazione dei soldati francesi agli scontri via terra a
Sabratha e Bengasi, Parigi manda la portaerei De Gaulle di fronte alle
spiagge libiche. Lo rivela Debka File, sito di
informazione militare israeliano: sarebbero in corso addestramenti
congiunti con la marina egiziana, che nel Canale di Suez impiega la
fregata Tahya Misr, dotata di sistema missilistico antiaereo.
Torna così a galla, prepotentemente, il ruolo del Cairo, burattinaio del
generale Haftar e di conseguenza del riottoso parlamento di Tobruk.
E all’Italia l’ordine arriva direttamente dal Pentagono: lunedì
Ashton Carter ha dato la benedizione alla formazione di una coalizione
guidata da Roma che si lanci in una nuova avventura libica. Il
segretario alla Difesa Usa ha detto che Washington «appoggerà con forza»
l’Italia che «si è offerta di assumere la guida in Libia». Ovvero la
guida di una coalizione che intervenga contro l’avanzata dello Stato
Islamico e metta in sicurezza i giacimenti petroliferi. Su questo punto
Carter ammette le riserve libiche: «Ai libici non piace l’idea di un
intervento esterno straniero e che qualcuno entri nel paese per
prendersi il petrolio. Ma quando il governo sarà nato, speriamo presto,
chiederà l’aiuto internazionale».
La conferma è giunta ieri dal ministro degli Esteri
Gentiloni: «Il livello di pianificazione e di coordinamento tra i
diversi sistemi di difesa su un possibile contributo alla sicurezza
della Libia è a un livello molto avanzato che va avanti da parecchie
settimane». L’Italia, ha aggiunto, è pronta ad intervenire su richiesta
del nuovo governo libico.
Richieste ufficiali o meno, siamo già sul piede di guerra: da oltre
un mese l’Italia ha messo a disposizione degli Usa la base di Sigonella
per lanciare azioni contro l’Isis. Azioni meramente «difensive»,
specifica il governo di Roma senza spiegare però cosa significhi
auto-difesa nel caso di un gruppo jihadista che opera in un altro paese.
Così si è giunti, senza autorizzazione né internazionale né tantomeno
libica, al raid su Sabratha del 19 febbraio. In più, come spiega al Wall Street Journal il
generale Bolduc, comandante delle forze speciali Usa in Africa, a Roma è
già stato inaugurato il Centro di Coordinamento della Coalizione.
L’operazione è già sul tavolo. Le fonti militari citate da Debka File raccontano di una campagna in fieri e vicina alla sua definizione: «Le
navi da guerra egiziane si sono spostate nel Mediterraneo dopo che il
presidente francese Hollande e l’egiziano al-Sisi sono avanzati nei
piani di attacco congiunto con l’Italia alle postazioni Isis in Libia. I
tre poteri si sono accordati per lanciare l’offensiva tra fine aprile e
maggio».
Intanto la Germania è pronta ad inviare in Tunisia, dice il governo
di Tunisi, unità speciali che addestrino le truppe libiche a combattere
l’Isis. E, notizia di ieri, la Gran Bretagna ha mandato 20 uomini ad
addestrare i militari tunisini alla sorveglianza della frontiera con la
Libia e ad impedire sul campo l’infiltrazione di miliziani islamisti.
Il fronte Parigi-Roma-Il Cairo potrebbe fare da testa d’ariete
dell’intervento occidentale, bramato da molti e in stallo per le
difficoltà dei parlamenti di Tobruk e Tripoli a trovare un accordo
definitivo sul governo di unità nazionale. A frenare è soprattutto
Tobruk, l’esecutivo riconosciuto dalla comunità internazionale, che non
ha ancora dato l’ok alla proposta mossa dal premier designato al-Sarraj.
Anzi, ieri per la seconda volta in due settimane non si è espresso per
mancanza del quorum necessario al voto. Non sono pochi quelli che
immaginano che dietro ci sia il boicottaggio del generale Haftar e
quindi del Cairo, intenzionati ad ottenere maggiore influenza sul
governo che nascerà.
Se ad aprire le danze in Libia sarà il cane a tre teste
(francese, egiziana italiana), si prefigura un radicamento dello
speciale rapporto che lega il nostro paese al generale golpista al-Sisi.
A farne le spese potrebbero essere le indagini sulla brutale uccisione
di Giulio Regeni, già ostacolate dalle autorità egiziane.
Sul piano internazionale le preoccupazioni riguardano il possibile
tracollo della Libia se costretta a subire un nuovo intervento
internazionale: il primo spazzò via il sistema istituzionale del paese,
scoperchiando il vaso di Pandora di poteri tribali, paramilitari,
secessionisti, islamisti. E il secondo non promette nulla di buono:
difficile che chi ha combinato il pasticcio ora ci metta una pezza. Più
probabile che la capacità attrattiva dei gruppi jihadisti trovi nuova
linfa e che le svariate autorità che gestiscono un paese a pezzi
ostacolino l’accidentato percorso verso la stabilizzazione.
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