Perché in un Paese che spende miliardi in consulenze e respingimenti nessuno si è mai degnato di chiedere un parere all’unico che sembra aver risolto il problema degli immigrati? Quando Mimmo Lucano, detto U Curdu, ne divenne sindaco, Riace era un paesino della Locride abitato da quattrocento anziani a cui avevano tolto tutto, persino i Bronzi. Ma un giorno sbarcò un veliero di curdi e il sindaco ebbe l’idea di ospitarli nelle case abbandonate del centro. Dopo 15 anni, oggi Riace si ritrova duemila residenti, un quarto dei quali sono stranieri che hanno riaperto le botteghe artigiane di tessuti e ceramiche. Un modello di integrazione studiato in tutto il mondo e che gli è valso il riconoscimento di unico italiano presente nell’elenco Fortune delle personalità che stanno cambiando il pianeta, insieme ai vari Bergoglio, Merkel, Bono degli U2.
Forse perché ci vogliono occhi lontani, preferibilmente d’oltreoceano, per cogliere il senso globale di cose che accadono in un Mezzogiorno d’Italia tanto ingabbiato negli stereotipi da essere illeggibile per i connazionali. Il laboratorio come quello di Riace è stato ignorato per anni o derubricato come curiosa bizzarria anziché come esperimento amministrativo da portare a esempio.
Nulla nasce dal nulla. A metà anni novanta, nel 1997 per l’esattezza, fu sulla costa jonica calabrese che arrivarono le prime navi di esuli e richiedenti asilo. Tra maggio e dicembre ne sbarcarono a Soverato, Badolato, Monasterace più di 800. Erano per lo più curdi, in fuga dall’Iraq di Saddam Hussein e dalla Turchia, ma anche dalle guerre di fazione tra i curdi stessi. Chi c'era lo ricorda bene: ti mostravano le foto che documentavano la loro persecuzione, ti chiedevano un cellulare per telefonare in Svezia o in Germania perché il sud d’Italia era solo una tappa del viaggio. Invece vi trovarono un’insospettabile accoglienza. Furono allestite scuole e ospedali, furono aperte le porte delle case di un borgo medievale semi abbandonato, Badolato, che da allora è stato riscoperto e ripopolato da un turismo intelligente e non solo stagionale.
A legare nell’impresa i comuni della costa, solitamente tutt’altro che inclini alla cooperazione, fu un sentimento opposto a quello che si respira oggi nell’Europa dei fili spinati: la percezione che il mare stava restituendo quello che alla costa jonica aveva tolto con decenni di emigrazione oltreoceano. Non un’invasione ma una restituzione, non un assedio ma un segno benevolo della ciclicità della storia.
Nessuno avrebbe scommesso che il borgo semideserto si potesse davvero rianimare, che le botteghe artigiane della tessitura della ginestra o della lavorazione della ceramica potessero davvero riaprire, che a Riace si potessero davvero organizzare asili e scuole multilingue per far crescere i figli dei migranti. Invece tutto questo non solo si è davvero realizzato, ma di anno in anno si è consolidato e si è ampliato, coinvolgendo nel tempo anche i comuni limitrofi.
L’albergo diffuso, cioè l’assegnazione ai migranti delle case abbandonate, è arrivato a disporre di 150 posti letto. Dopo i laboratori artigianali è cominciata la scuola invernale e poi quella estiva in un antico palazzotto ristrutturato e pieno di colori, dopo la scuola la raccolta differenziata dei rifiuti - all’inizio i migranti la facevano con gli asini tra i vicoli del borgo -, dopo la raccolta differenziata le piccole imprese di agricoltura biologica e con queste il rifacimento di tutto l’impianto di illuminazione del paese, che adesso, di sera, sembra proprio un presepe dormiente sulla collina. Al fondo di tutto, tre idee semplici semplici di Lucano. Primo: i migranti non sono una maledizione ma una risorsa. Secondo: alla valorizzazione della costa jonica non servono gli ecomostri in riva al mare ma il recupero dei vecchi borghi in collina. Terzo: i 32 euro al giorno che lo stato elargisce per l’ospitalità di ogni migrante non vanno usati in modo assistenziale e parassitario, ma vanno investito per creare un posto di lavoro.
A distanza di ormai quasi vent’anni, i risultati si vedono: su un totale di duemila abitanti, a Riace vivono oggi stabilmente e lavorano 400 rifugiati, e attorno a loro sono nati e cresciuti anche i posti di lavoro della struttura comunale che se ne occupa. I rifugiati vengono dal Sudan, dall’Eritrea, dall’Afghanistan, dall’Etiopia, dalla Palestina: sono donne, uomini, bambini che hanno imparato l’italiano e un mestiere, guadagnano quanto basta per vivere più che dignitosamente, praticano le loro religioni che siano cattolici, islamici o ortodossi. Ma soprattutto sono usciti dall’anonimato delle statistiche sull’invasione dei migranti e hanno ciascuno e ciascuna un volto, un nome, una storia da raccontare.
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