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05/04/2016

L'oro di Panama

di Mario Lombardo

La pubblicazione di oltre 11 milioni di file relativi alle ricchezze depositate “offshore” dai potenti di tutto il mondo – o quasi – ha trovato in questo avvio di settimana un’eco molto ampia nei media e sui social network. Se le rivelazioni, che il giornale tedesco Süddeutsche Zeitung ha condiviso con svariate testate, hanno quanto meno il merito di mostrare i nomi di leader politici e imprenditori accostati a documenti che provano comportamenti moralmente riprovevoli, anche se non sempre illegali, per molti dei divulgatori la vicenda dei “Panama Papers” sembra avere una valenza tutta politica e serve a colpire i soliti presunti nemici dell’Occidente, a cominciare dal presidente russo, Vladimir Putin.

Emblematico, anche se tutt’altro che sorprendente, è in questo senso il caso del britannico Guardian. Già depositario di molte delle rivelazioni di Edward Snowden sull’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), il Guardian ha prodotto lunedì una serie di articoli, approfondimenti e accattivanti grafici per spiegare gli intrecci fatti emergere dai documenti provenienti dalla società di consulenza panamense Mossack Fonseca.

Il giornale britannico ha dedicato un intero pezzo a ricostruire gli intrighi di alcuni cittadini russi molto vicini a Putin, nonché di famigliari del numero uno del Cremlino, per insinuare in maniera esplicita che quest’ultimo beneficia di centinaia di milioni se non di miliardi di dollari parcheggiati in conti offshore.

I lettori dell’articolo firmato da Luke Harding si imbattono però da subito in una precisazione che, se pure non smonta totalmente le spiegazioni che seguono, lascia intendere in modo chiaro la tendenziosità delle conclusioni. Il nome di Putin, infatti, “non compare in nemmeno uno dei documenti” analizzati.

Che l’onestà di Putin possa essere oggetto di discussione appare evidente; magari è solo più astuto o accorto di altri nel nascondere il proprio denaro in paradisi fiscali. Ma il punto è decisamente un altro: cioè che su congetture e ipotesi, i media europei e americani hanno costruito ancora una volta un impianto accusatorio nei confronti di un leader politico al centro delle mire dei fautori del cambio di regime in molte cancellerie occidentali.

D’altra parte, i precedenti del Guardian non promettono molto di buono circa la manipolazione di rivelazioni esplosive o presunte tali. Basti ricordare che nell’estate del 2013 i vertici del giornale londinese distrussero i supporti informatici contenenti i file consegnati da Snowden dietro pressioni dei servizi di sicurezza britannici. Ancora, il Guardian, malgrado avesse inizialmente pubblicato molti documenti segreti di WikiLeaks, conduce da anni una feroce campagna di discredito contro il suo fondatore, Julian Assange.

Il Guardian, in ogni caso, ricorda come Putin sia amico di Sergei Rodulgin, titolare di quote variabili di diverse compagnie, tra cui la Banca Rossiya, considerata l’istituto degli amici del presidente russo e colpita da sanzioni americane dopo lo scoppio della crisi ucraina. Sempre secondo il governo americano, il numero uno di questa banca, Yuri Kovalchuk, sarebbe il banchiere personale di molti membri del governo di Mosca, tra cui ovviamente Putin.

I Panama Papers rivelano come Kovalchuk e la sua banca abbiano favorito il trasferimento di almeno un miliardo di dollari verso una “entità offshore appositamente creata”, di nome Sandalwood Continental. I fondi proverrebbero da “una serie di prestiti senza garanzie” erogati dalla Banca Commerciale Russa (RCB), di proprietà statale, con sede a Cipro e da altri istituti finanziari pubblici.

L’articolo del Guardian elenca una serie di ulteriori prestiti e descrive l’utilizzo dei fondi da parte di compagnie offshore a favore di cittadini russi legati in qualche modo a Putin, per poi riproporre le speculazioni relative alla sua ricchezza, anche se il presidente russo formalmente non possiederebbe nulla o quasi.

Se il nome di Putin e la sua immagine sono apparsi in numerosi resoconti dei Panama Papers proposti dai media occidentali, ad esempio in Gran Bretagna pochi hanno parlato in maniera anche solo marginale di un altro leader tirato in ballo con modalità simili, vale a dire il primo ministro David Cameron. Sempre il Guardian, anzi, ha ricordato senza imbarazzo come il premier Conservatore in un discorso a Singapore lo scorso anno avesse denunciato il trasferimento di denaro in paradisi fiscali e manifestato la volontà del suo governo di prendere iniziative per contrastare la creazione di compagnie fasulle offshore.

Nei documenti appena pubblicati viene nominato il padre di Cameron, Ian, deceduto nel 2010, il quale una decina di anni fa si rivolse a Mossack Fonseca per evitare al suo fondo di investimenti, Blairmore Holdings, il pagamento delle imposte in Gran Bretagna. Tra i clienti di rilievo in Gran Bretagna della società panamense che fornisce assistenza per la creazione di entità offshore figurano inoltre altri leader o finanziatori dei “Tories”, tra cui l’ex parlamentare Lord Ashcroft e l’ex ministro Michael Mates.

Qualche sospetto sulla diffusione delle informazioni sui paradisi fiscali è suscitato poi dalla dichiarazione, fatta ad esempio dal Guardian, che numerosi documenti messi a disposizione dei media continueranno a rimanere segreti. Le perplessità legate a questa decisione vanno collegate al fatto insolito, rilevato da molti sui social network, che negli 11,5 milioni di documenti sembra non esserci menzione di compagnie o politici americani.

La questione dei paradisi fiscali e delle compagnie offshore rappresenta comunque una problematica non nuova né sorprendente. Soprattutto però, qualsiasi rivelazione che serva a smascherare le modalità di queste pratiche, sempre che risulti completa e imparziale, non può essere separata da un’analisi delle responsabilità dei singoli governi e dei politici che, pur dichiarando guerra alle compagnie con domiciliazione fiscale sospetta, sono quanto meno passivi nel combatterle, visto che i beneficiari fanno parte fondamentalmente delle classi a cui essi fanno riferimento o, addirittura, sono di frequente essi stessi.

I Panama Papers, ad ogni modo, oltre a uomini della cerchia di Putin e al padre di Cameron, citano 12 capi di stato o primi ministri, sia ex che attualmente in carica, con interessi offshore. Tra quelli in carica spiccano i presidenti di Argentina, Mauricio Macri, e Ucraina, Petro Poroshenko, il primo ministro islandese, Sigmundur Gunnlaugsson, e il sovrano dell’Arabia Saudita, Salman. L’Italia è presente con Luca Cordero di Montezemolo, a dimostrazione che l’inutilità rende sempre.

A seguito delle rivelazioni, alcuni paesi hanno già annunciato l’avvio di indagini fiscali, più che altro per contenere eventuali malumori di chi le tasse le paga per intero. Le autorità di Australia e Nuova Zelanda si sono ad esempio mosse in questo senso lunedì dopo che i nomi di centinaia di loro cittadini sono emersi dai documenti. In Europa, invece, uno dei primi a promettere procedimenti giudiziari contro eventuali evasori è stato uno dei leader politici più impopolari tra quelli in carica nel continente: il presidente francese, François Hollande. Possono dormire tranquilli.

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