di Mario Lombardo
La
pubblicazione di oltre 11 milioni di file relativi alle ricchezze
depositate “offshore” dai potenti di tutto il mondo – o quasi – ha
trovato in questo avvio di settimana un’eco molto ampia nei media e sui
social network. Se le rivelazioni, che il giornale tedesco Süddeutsche Zeitung ha
condiviso con svariate testate, hanno quanto meno il merito di mostrare
i nomi di leader politici e imprenditori accostati a documenti che
provano comportamenti moralmente riprovevoli, anche se non sempre
illegali, per molti dei divulgatori la vicenda dei “Panama Papers”
sembra avere una valenza tutta politica e serve a colpire i soliti
presunti nemici dell’Occidente, a cominciare dal presidente russo,
Vladimir Putin.
Emblematico, anche se tutt’altro che sorprendente, è in questo senso il caso del britannico Guardian. Già depositario di molte delle rivelazioni di Edward Snowden sull’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), il Guardian ha
prodotto lunedì una serie di articoli, approfondimenti e accattivanti
grafici per spiegare gli intrecci fatti emergere dai documenti
provenienti dalla società di consulenza panamense Mossack Fonseca.
Il
giornale britannico ha dedicato un intero pezzo a ricostruire gli
intrighi di alcuni cittadini russi molto vicini a Putin, nonché di
famigliari del numero uno del Cremlino, per insinuare in maniera
esplicita che quest’ultimo beneficia di centinaia di milioni se non di
miliardi di dollari parcheggiati in conti offshore.
I lettori
dell’articolo firmato da Luke Harding si imbattono però da subito in una
precisazione che, se pure non smonta totalmente le spiegazioni che
seguono, lascia intendere in modo chiaro la tendenziosità delle
conclusioni. Il nome di Putin, infatti, “non compare in nemmeno uno
dei documenti” analizzati.
Che l’onestà di Putin possa essere
oggetto di discussione appare evidente; magari è solo più astuto o
accorto di altri nel nascondere il proprio denaro in paradisi fiscali.
Ma il punto è decisamente un altro: cioè che su congetture e ipotesi, i
media europei e americani hanno costruito ancora una volta un impianto
accusatorio nei confronti di un leader politico al centro delle mire dei
fautori del cambio di regime in molte cancellerie occidentali.
D’altra parte, i precedenti del Guardian non
promettono molto di buono circa la manipolazione di rivelazioni
esplosive o presunte tali. Basti ricordare che nell’estate del 2013 i
vertici del giornale londinese distrussero i supporti informatici
contenenti i file consegnati da Snowden dietro pressioni dei servizi di
sicurezza britannici. Ancora, il Guardian, malgrado avesse
inizialmente pubblicato molti documenti segreti di WikiLeaks, conduce da
anni una feroce campagna di discredito contro il suo fondatore, Julian
Assange.
Il Guardian, in ogni caso, ricorda come Putin
sia amico di Sergei Rodulgin, titolare di quote variabili di diverse
compagnie, tra cui la Banca Rossiya, considerata l’istituto degli amici
del presidente russo e colpita da sanzioni americane dopo lo scoppio
della crisi ucraina. Sempre secondo il governo americano, il numero uno
di questa banca, Yuri Kovalchuk, sarebbe il banchiere personale di molti
membri del governo di Mosca, tra cui ovviamente Putin.
I
Panama Papers rivelano come Kovalchuk e la sua banca abbiano favorito
il trasferimento di almeno un miliardo di dollari verso una “entità
offshore appositamente creata”, di nome Sandalwood Continental. I fondi
proverrebbero da “una serie di prestiti senza garanzie” erogati dalla
Banca Commerciale Russa (RCB), di proprietà statale, con sede a Cipro e
da altri istituti finanziari pubblici.
L’articolo del Guardian elenca
una serie di ulteriori prestiti e descrive l’utilizzo dei fondi da
parte di compagnie offshore a favore di cittadini russi legati in
qualche modo a Putin, per poi riproporre le speculazioni relative alla
sua ricchezza, anche se il presidente russo formalmente non
possiederebbe nulla o quasi.
Se il nome di Putin e la sua
immagine sono apparsi in numerosi resoconti dei Panama Papers proposti
dai media occidentali, ad esempio in Gran Bretagna pochi hanno parlato
in maniera anche solo marginale di un altro leader tirato in ballo con
modalità simili, vale a dire il primo ministro David Cameron. Sempre il
Guardian, anzi, ha ricordato senza imbarazzo come il premier
Conservatore in un discorso a Singapore lo scorso anno avesse denunciato
il trasferimento di denaro in paradisi fiscali e manifestato la volontà
del suo governo di prendere iniziative per contrastare la creazione di
compagnie fasulle offshore.
Nei documenti appena pubblicati viene
nominato il padre di Cameron, Ian, deceduto nel 2010, il quale una
decina di anni fa si rivolse a Mossack Fonseca per evitare al suo fondo
di investimenti, Blairmore Holdings, il pagamento delle imposte in Gran
Bretagna. Tra i clienti di rilievo in Gran Bretagna della società
panamense che fornisce assistenza per la creazione di entità offshore
figurano inoltre altri leader o finanziatori dei “Tories”, tra cui l’ex
parlamentare Lord Ashcroft e l’ex ministro Michael Mates.
Qualche
sospetto sulla diffusione delle informazioni sui paradisi fiscali è
suscitato poi dalla dichiarazione, fatta ad esempio dal Guardian,
che numerosi documenti messi a disposizione dei media continueranno a
rimanere segreti. Le perplessità legate a questa decisione vanno
collegate al fatto insolito, rilevato da molti sui social network, che
negli 11,5 milioni di documenti sembra non esserci menzione di compagnie
o politici americani.
La questione dei paradisi fiscali e delle
compagnie offshore rappresenta comunque una problematica non nuova né
sorprendente. Soprattutto però, qualsiasi rivelazione che serva a
smascherare le modalità di queste pratiche, sempre che risulti completa e
imparziale, non può essere separata da un’analisi delle responsabilità
dei singoli governi e dei politici che, pur dichiarando guerra alle
compagnie con domiciliazione fiscale sospetta, sono quanto meno passivi
nel combatterle, visto che i beneficiari fanno parte fondamentalmente
delle classi a cui essi fanno riferimento o, addirittura, sono di
frequente essi stessi.
I
Panama Papers, ad ogni modo, oltre a uomini della cerchia di Putin e al
padre di Cameron, citano 12 capi di stato o primi ministri, sia ex che
attualmente in carica, con interessi offshore. Tra quelli in carica
spiccano i presidenti di Argentina, Mauricio Macri, e Ucraina, Petro
Poroshenko, il primo ministro islandese, Sigmundur Gunnlaugsson, e il
sovrano dell’Arabia Saudita, Salman. L’Italia è presente con Luca
Cordero di Montezemolo, a dimostrazione che l’inutilità rende sempre.
A
seguito delle rivelazioni, alcuni paesi hanno già annunciato l’avvio di
indagini fiscali, più che altro per contenere eventuali malumori di chi
le tasse le paga per intero. Le autorità di Australia e Nuova Zelanda
si sono ad esempio mosse in questo senso lunedì dopo che i nomi di
centinaia di loro cittadini sono emersi dai documenti. In Europa,
invece, uno dei primi a promettere procedimenti giudiziari contro
eventuali evasori è stato uno dei leader politici più impopolari tra
quelli in carica nel continente: il presidente francese, François
Hollande. Possono dormire tranquilli.
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