Come ampiamente previsto, il quorum nel referendum “No Triv” non è
stato raggiunto. Ha votato il 32,15% degli aventi diritto rappresentato
da quasi 51 milioni di persone, tra cui 4 milioni residenti all’estero.
Dei quasi 16 milioni di voti, ben 13,3 sono andati al “sì”, con una percentuale impressionante: 85,8%.
Ha superato il quorum solo la Basilicata (50,6%), ovvero la regione più interessata dallo scandalo che ha portato alle dimissioni di Federica Guidi da ministro dello sviluppo economico e a diversi arresti, all’interno di una inchiesta che ha chiarito abbondantemente – con le intercettazioni fin qui pubblicate – quanto questo governo sia “a disposizione” delle multinazionali petrolifere. Il dato è politicamente rilevante perché questa regione non è toccata dalle trivellazioni in mare, ma soltanto da quelle su terraferma. Evidente, dunque, che lo scandalo politico ha mobilitato molto di più del puro e semplice ambientalismo.
La conferma viene dal dato della Puglia (41%), che è invece la regione al tempo stesso più attiva nella promozione del referendum e toccata dallo stesso scandalo (il petrolio estratto dall’impianto di Tempa Rossa, in Basilicata, doveva essere stoccato a Taranto).
A seguire le altre regioni dell’Adriatico, dove le piattaforme entro il limite delle acque territoriali sono attive: Veneto 37%, Abruzzo 35%, Marche 34%. Grandi divari, prevedibili, tra le zone costiere e quelle dell’entroterra collinare. Tra le grandi città metropolitane, Roma va sopra la media con il 34,7%, mentre a Napoli invece si scende al 25,6%.
Un peso, ovviamente negativo, l’ha avuto il voto degli italiani all’estero. Ha votato solo il 19,7%, molto più di altre volte, ma non abbastanza da cambiare il dato strutturale: nei referendum, quei 4 milioni di voti “assenti” sono in grado di ammazzare da soli la possibilità di raggiungere il quorum.
Dati i numeri, qual’è il giudizio?
L’avevamo scritto prima del voto: questo referendum non poteva servire ad abbattere il governo Renzi, ma costituiva un termometro che avrebbe registrato la temperatura dell’umore anti-renziano del paese. Per come era stato indetto (su richiesta di nove regioni, senza alcuna mobilitazione popolare diffusa in tutto il paese), per il contenuto tecnico (da addetti ai lavori, ed anche particolarmente esperti, visto che era sopravvissuto un solo quesito), per l’assoluto silenzio dei media fino all’esplosione dello scandalo Total, si prevedeva un risultato massimo nei dintorni del 20-25%.
Dei quasi 16 milioni di voti, ben 13,3 sono andati al “sì”, con una percentuale impressionante: 85,8%.
Ha superato il quorum solo la Basilicata (50,6%), ovvero la regione più interessata dallo scandalo che ha portato alle dimissioni di Federica Guidi da ministro dello sviluppo economico e a diversi arresti, all’interno di una inchiesta che ha chiarito abbondantemente – con le intercettazioni fin qui pubblicate – quanto questo governo sia “a disposizione” delle multinazionali petrolifere. Il dato è politicamente rilevante perché questa regione non è toccata dalle trivellazioni in mare, ma soltanto da quelle su terraferma. Evidente, dunque, che lo scandalo politico ha mobilitato molto di più del puro e semplice ambientalismo.
La conferma viene dal dato della Puglia (41%), che è invece la regione al tempo stesso più attiva nella promozione del referendum e toccata dallo stesso scandalo (il petrolio estratto dall’impianto di Tempa Rossa, in Basilicata, doveva essere stoccato a Taranto).
A seguire le altre regioni dell’Adriatico, dove le piattaforme entro il limite delle acque territoriali sono attive: Veneto 37%, Abruzzo 35%, Marche 34%. Grandi divari, prevedibili, tra le zone costiere e quelle dell’entroterra collinare. Tra le grandi città metropolitane, Roma va sopra la media con il 34,7%, mentre a Napoli invece si scende al 25,6%.
Un peso, ovviamente negativo, l’ha avuto il voto degli italiani all’estero. Ha votato solo il 19,7%, molto più di altre volte, ma non abbastanza da cambiare il dato strutturale: nei referendum, quei 4 milioni di voti “assenti” sono in grado di ammazzare da soli la possibilità di raggiungere il quorum.
Dati i numeri, qual’è il giudizio?
L’avevamo scritto prima del voto: questo referendum non poteva servire ad abbattere il governo Renzi, ma costituiva un termometro che avrebbe registrato la temperatura dell’umore anti-renziano del paese. Per come era stato indetto (su richiesta di nove regioni, senza alcuna mobilitazione popolare diffusa in tutto il paese), per il contenuto tecnico (da addetti ai lavori, ed anche particolarmente esperti, visto che era sopravvissuto un solo quesito), per l’assoluto silenzio dei media fino all’esplosione dello scandalo Total, si prevedeva un risultato massimo nei dintorni del 20-25%.
Lo strumento referendario, comunque, segna il passo ormai da circa
vent’anni, al punto che uno solo – quello del 2011 su acqua e nucleare –
ha superato il 50% necessario. Senza peraltro impedire ai governi
Monti, Letta e Renzi di agire sulla privatizzazione dell’acqua come se
il referendum non si fosse mai svolto. Una riflessione che dovrebbero
fare quanti, in questo momento, meditano di chiedere le firme per una
“lenzuolata” di 11 referendum in materia ambientale, sociale (scuola),
istituzionale (Italicum) e sindacale (il jobs act).
Oggi Renzi canta vittoria per lo scampato pericolo. Con assoluto disprezzo, anzi, intitola il mancato voto “agli operai delle piattaforme”, che dovrebbero ora essere più sicuri di non perdere il lavoro. Mente, come sempre. Se avesse vinto il “sì”, le piattaforme avrebbero continuato a funzionare fino alla scadenza della concessione, ma senza possibilità di rinnovo; e lavoro ulteriore sarebbe derivato dallo smantellamento in sicurezza delle piattaforme stesse.
Più seriamente, ha colto il segnale il giornale di Confindustria, IlSole24Ore, che commenta così: “La motivazione principale che sembra abbia spinto 15 milioni di italiani ai seggi sembra dunque essere stata quella anti-Renzi. E la “spallata” non c’è stata, evidentemente”. Ma non doveva e non poteva essere questa l’occasione per mandare gambe all’aria il guitto di Rignano sull’Arno.
Poteva, doveva ed è stata la partenza di una corsa ad ostacoli – per Renzi e i suoi mandanti – che ha come orizzonte esplicito il referendum di ottobre sulle “riforme costituzionali” e come traguardo a metà strada le amministrative di giugno, che si annunciano comunque come una doccia gelata per il Pd e alleati.
E l’astensionismo che oggi viene riguardato come una “vittoria” potrebbe benissimo rivelarsi una trappola a ottobre, quando non ci sarà bisogno di un quorum per approvare o, più seriamente, affossare la “riforma incostituzionale della Costituzione” ad opera di un governo di nominati in un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale.
In questa galoppata, come già due anni fa per le europee, potremmo veder confermata la tendenza per cui il livello del quorum (50% degli aventi diritto) non viene più raggiunto neanche nelle elezioni vere e proprie, perché ormai il rifiuto della politica politicante coinvolge certamente almeno la metà della popolazione.
Mentre, per la parte politicamente attiva, il referendum di ieri certifica una maggioranza esplosiva contro questo governo, le sue politiche, il suo stile golpista. I conti veri si faranno ad ottobre, ma se vivessimo a palazzo Chigi non staremmo sereni…
Fonte
Oggi Renzi canta vittoria per lo scampato pericolo. Con assoluto disprezzo, anzi, intitola il mancato voto “agli operai delle piattaforme”, che dovrebbero ora essere più sicuri di non perdere il lavoro. Mente, come sempre. Se avesse vinto il “sì”, le piattaforme avrebbero continuato a funzionare fino alla scadenza della concessione, ma senza possibilità di rinnovo; e lavoro ulteriore sarebbe derivato dallo smantellamento in sicurezza delle piattaforme stesse.
Più seriamente, ha colto il segnale il giornale di Confindustria, IlSole24Ore, che commenta così: “La motivazione principale che sembra abbia spinto 15 milioni di italiani ai seggi sembra dunque essere stata quella anti-Renzi. E la “spallata” non c’è stata, evidentemente”. Ma non doveva e non poteva essere questa l’occasione per mandare gambe all’aria il guitto di Rignano sull’Arno.
Poteva, doveva ed è stata la partenza di una corsa ad ostacoli – per Renzi e i suoi mandanti – che ha come orizzonte esplicito il referendum di ottobre sulle “riforme costituzionali” e come traguardo a metà strada le amministrative di giugno, che si annunciano comunque come una doccia gelata per il Pd e alleati.
E l’astensionismo che oggi viene riguardato come una “vittoria” potrebbe benissimo rivelarsi una trappola a ottobre, quando non ci sarà bisogno di un quorum per approvare o, più seriamente, affossare la “riforma incostituzionale della Costituzione” ad opera di un governo di nominati in un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale.
In questa galoppata, come già due anni fa per le europee, potremmo veder confermata la tendenza per cui il livello del quorum (50% degli aventi diritto) non viene più raggiunto neanche nelle elezioni vere e proprie, perché ormai il rifiuto della politica politicante coinvolge certamente almeno la metà della popolazione.
Mentre, per la parte politicamente attiva, il referendum di ieri certifica una maggioranza esplosiva contro questo governo, le sue politiche, il suo stile golpista. I conti veri si faranno ad ottobre, ma se vivessimo a palazzo Chigi non staremmo sereni…
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