di MAURIZIO RICCIARDI
Pubblicato su «Il Manifesto» del 25 marzo 2016.
Nel 1867 un rifugiato tedesco, un
comunista, in un libro che avrebbe avuto un’importanza capitale,
commentava quanto avvenuto pochi anni prima negli Stati Uniti, scrivendo
che «il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi in un paese, dove è
marchiato a fuoco quando è in pelle nera». Karl Marx aveva
seguito con attenzione quanto avveniva a un oceano di distanza,
convincendosi che l’abolizione della schiavitù fosse solo il primo segno
dell’emancipazione di tutto il lavoro. Non è andata così. I
rapporti all’interno degli Stati Uniti erano troppo consolidati per
essere modificati da un solo evento. Lo erano al punto da non poter
essere spiegati nemmeno dalla biografia di un solo uomo per quanto
rappresentativo. Questa convinzione sembra essere alla base di Abraham Lincoln. Un dramma americano
(Bologna, Il Mulino, 2016, € 22) scritto da Tiziano Bonazzi che,
attraverso e grazie a Lincoln, ricostruisce il lungo passaggio storico
che investe l’architettura di quella parte della Grande Europa che sono
ancora gli Stati Uniti dell’Ottocento. Il volume dunque è molto
di più della biografia del XVI presidente, perché restituisce la storia
costituzionale degli Stati Uniti in un momento di
trasformazione che investe seriamente i tre pilastri fondamentali della
società statunitense: la religione, il lavoro e la razza. Bonazzi riesce
a seguire con uguale precisione due opposte eccedenze: quella della
storia individuale di un presidente e quella delle vicende storiche
rispetto alla biografia di un uomo che ha un ruolo tutt’altro che
secondario nel forgiarle.
Lincoln vive nel passaggio dall’America
dei pionieri a quella del lavoro industriale, della politica dei partiti
e del nazionalismo. Lincoln vive in primo luogo nel mutamento
di una frontiera che oltre a essere un persistente mito fondativo,
coltivato e costantemente riaffermato, assume una dimensione
finanziaria, diviene uno spazio di guerra e il luogo di incubazione di
una guerra civile. Essa, infatti, diviene un capitolo
importante del bilancio federale per il denaro garantito
dall’assegnazione delle nuove terre. La frontiera meridionale, inoltre, è
all’origine del nazionalismo statunitense grazie alla guerra con il
Messico, che perde il 40% del suo territorio. La frontiera, infine, non è
più solo lo spazio aperto dove possono scaricarsi tutte le tensioni
sociali e politiche, ma è essa stessa un luogo di tensione che deve
essere governato. Non è un caso che tra le cause scatenanti della guerra
civile vi sia la pretesa di espandere la schiavitù anche nei nuovi
Stati di frontiera, limitando il lavoro libero e modificando i rapporti
di potere tra gli Stati settentrionali e quelli meridionali dell’Unione.
Le proporzioni mitologiche
assunte in seguito da Lincoln sono in gran parte legate alla sua
capacità di confermare l’unità dello Stato e della nazione all’interno
di questi movimenti potenzialmente centripeti. Egli ci riesce
nonostante abbia un rapporto eccentrico con la religione che, come aveva
già dimostrato in un volume precedente, Bonazzi individua come il più
importante fattore della vita individuale e collettiva, il nocciolo
indiscutibile della costituzione sociale e politica degli Stati Uniti.
Essa stabilisce l’orizzonte di senso anche per un individuo come Lincoln
che afferma la priorità di catene di cause sottratte al potere degli
individui ed è perciò più incline a credere alla dottrina della necessità,
che è una prima forma di sociologia dell’azione sociale. La sua
freddezza nei confronti della religione lo obbliga a una sorta di
confessione pubblica di fede per impedire che l’accusa di ateismo
nuoccia alla sua campagna elettorale. Qui emerge l’eccedenza della
biografia rispetto alla storia collettiva che, se è funzionale alla
creazione del mito, porta anche alla neutralizzazione di Lincoln grazie
alla sua canonizzazione. Dopo il suo assassinio è subito definito il presidente redentore,
riconoscendo in questo modo tanto la grandezza del suo ufficio quanto
la necessità del suo sacrificio in omaggio alla drammaturgia cristiana
della storia, che lui in qualche modo finisce per confermare. Per darsi
ragione del macello della guerra civile gli pare plausibile non solo che
Dio non si sia schierato, ma che egli possa volere che essa «continui
finché affondino tutte le ricchezze accumulate in duecentocinquant’anni
di costrizione al lavoro e finché ogni goccia di sangue sparsa con la
frusta sia pagata da un’altra pagata con la spada».
Durante la guerra civile Lincoln
dimostra di essere un politico capace tanto di assumersi il rischio
della decisione quanto di cambiare le sue convinzioni. Abolisce l’habeas corpus,
decreta lo stato di emergenza nei territori disputati e li governa
tramite funzionari da lui nominati. Allo stesso tempo, modifica le sue
convinzioni sui neri al punto da abolire quella «componente strutturale
della “storia atlantica” e, con essa, della nostra modernità» che è la schiavitù. Essa non
è dunque un prezzo occasionale pagato sulla via della libertà, ma il
modo stesso in cui questa libertà è stata materialmente praticata.
Come molti suoi contemporanei Lincoln vive all’interno di una sorta di
schizofrenia antropologica che separa l’istituzione della schiavitù
dagli schiavi che materialmente la subiscono. «Lincoln era certo
dell’inferiorità dei neri» e solo la guerra civile modifica almeno in
parte questa convinzione.
Non è estranea a questo cambiamento di prospettiva l’adesione di Lincoln all’ideologia del free labour che comincia a diffondersi negli anni Trenta, quando denunciando la «schiavitù del salariato», gli
operai nelle prime vertenze sindacali svelano la vicinanza tra la
condizione degli schiavi e quella dei lavoratori e che anche la
condizione degli operai bianchi sia una costrizione. Pretendere
che il lavoro sia libero significa ristabilire una continuità sociale e
la parità tra capitale e lavoro, perché il secondo sarebbe l’origine
della ricchezza. Nella libertà del lavoro c’è la possibilità che esso
possa costantemente trasformarsi in capitale. L’indipedenza individuale
diviene così il presupposto per la continua ricostruzione delle
condizioni per l’accumulazione del capitale. Nonostante Lincoln, il
lavoro in pelle nera non si libera; e da lavoro schiavile diventa lavoro
segregato fino a quando nel 1896 la Corte suprema dichiara la
costituzionalità della segregazione razziale. Nell’elaborazione
del mito emerge chiaramente che il Redentore assunto come riferimento è
«il Lincoln del 1860, non quello del 1863, il Redeemer della patria bianca, non il Redeemer dei neri».
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