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01/04/2016

Primarie USA: tutti contro Trump

di Michele Paris

Le speranze nutrite da Donald Trump di unificare il Partito Repubblicano attorno alla sua candidatura, nel caso fosse alla fine lui a conquistare la nomination nella corsa alla presidenza degli Stati Uniti, hanno subito un altro duro colpo questa settimana in seguito a una serie di nuove gaffes e polemiche nelle quali si è trovato coinvolto il 69enne miliardario newyorchese.

Il segnale della crisi crescente che sta attraversando il partito è giunto però da una questione parzialmente separata e che rischia di produrre una grave spaccatura in vista della convention di Cleveland il prossimo mese di luglio. Martedì sera, in diretta televisiva, Trump si è rimangiato cioè l’impegno a sostenere qualsiasi candidato, che non sia lui, che verrà incoronato dal partito per sfidare i Democratici per la Casa Bianca.

Questa marcia indietro comporta anche la possibilità che, nel caso a prevalere sia uno dei suoi rivali o un candidato terzo, Trump si riservi di correre per la presidenza in maniera indipendente. Una simile ipotesi, visto il seguito consistente di elettori Repubblicani conquistato da Trump, implicherebbe quasi certamente la vittoria a novembre del candidato Democratico e, con buone probabilità, una scissione all’interno del partito.

Solo qualche settimana fa, nel corso di un dibattito a Detroit, Trump e gli altri pretendenti alla Casa Bianca – il senatore di estrema destra del Texas, Ted Cruz, il governatore “moderato” dell’Ohio, John Kasich, e il senatore della Florida in seguito ritiratosi dalla competizione, Marco Rubio – avevano tutti assicurato che avrebbero dato il loro appoggio al candidato nominato.

Cruz e Kasich hanno così a loro volta lasciato intendere che Trump potrebbe non ottenere il loro sostegno nel caso riuscisse a mettere le mani sulla nomination, anche se le dichiarazioni di entrambi in proposito sono state più caute rispetto a quelle dell’attuale favorito. Cruz ha fatto riferimento agli attacchi dei giorni scorsi portati da Trump a sua moglie e alla sua famiglia per dimostrare l’impossibilità a sostenerlo, mentre Kasich ha spiegato che il partito non dovrebbe appoggiare un candidato che “divide e danneggia il paese”.

Le prese di posizione dei due inseguitori di Trump nella sfida in casa Repubblicana sono la più recente manifestazione delle manovre in atto per impedire del tutto a quest’ultimo di ottenere il numero di delegati necessario ad assicurarsi la nomination. Vista la quasi impossibilità per Cruz e Kasich di superare Trump e raccogliere i 1.237 delegati necessari a chiudere ogni discorso, l’obiettivo di una buona parte del partito è quello di giungere a una convention divisa o “contestata”.

La strategia, in altre parole, è quella di impedire a Trump di ottenere la maggioranza assoluta dei delegati al termine delle primarie e forzare una seconda votazione alla convention, nella quale i membri del partito avrebbero la facoltà di scegliere un qualsiasi candidato a loro gradito senza essere vincolati ai risultati elettorali.

Con questo scenario in mente, qualche giorno fa Marco Rubio ha chiesto al comitato nazionale del partito e a quelli dei singoli stati di obbligare i 171 delegati conquistati nelle primarie a votare per lui nella votazione d’apertura della convention, nonostante si sia ritirato dalla corsa. Di norma, i delegati di candidati che hanno abbandonato la competizione non hanno vincoli di voto alla convention e sono generalmente a disposizione del migliore offerente. La mossa di Rubio intende perciò privare Trump di un numero consistente di voti alla prima e per lui decisiva votazione per l’assegnazione della nomination.

L’aria di crisi che rischia di avvolgere la convention Repubblicana di luglio era già stata prefigurata un paio di settimane fa dallo stesso Trump, il quale aveva ipotizzato una sorta di rivolta nel caso gli fosse sottratta la nomination. In verità, in assenza di un candidato con la maggioranza assoluta dei delegati, convention divise si sono verificate più volte in passato per entrambi i principali partiti americani. Lo svincolo dei delegati dopo la prima votazione è inoltre una regola consolidata che ha già premiato candidati alla Casa Bianca diversi da quelli in vantaggio dopo le primarie.

Le manovre dirette contro Trump sono ad ogni modo favorite dalle controversie che egli stesso contribuisce a creare, facendo appunto il gioco dei vertici di un partito che ritiene pressoché impossibile riconquistare la Casa Bianca con un candidato simile.

Critiche molto accese sono piovute ad esempio su Trump questa settimana dopo un’uscita nel corso di un’intervista al network MSNBC sul diritto all’aborto. Trump, dopo avere ribadito la sua contrarietà alle interruzioni di gravidanza, ha affermato che, se l’aborto fosse messo fuori legge negli USA, le donne che dovessero ricorrervi illegalmente dovrebbero essere punite in qualche modo.

La dichiarazione è stata subito condannata da abortisti e anti-abortisti. Tra questi ultimi sono intervenuti anche i due rivali di Trump – Cruz e Kasich – i quali hanno proposto la tradizionale posizione altrettanto reazionaria prevalente tra i Repubblicani, cioè che a pagare le conseguenze di pratiche abortive eventualmente illegali dovrebbero essere i medici e non le donne incinte.

Trump, da parte sua, ha ritrattato poco più tardi, allineandosi alle posizioni del partito e rispondendo anche alle accuse di quanti hanno ricordato come in passato si fosse detto a favore dell’interruzione di gravidanza. Nel corso di un evento sponsorizzato dalla CNN, Trump ha spiegato di avere cambiato idea sull’aborto, seguendo un percorso simile a quello di Ronald Reagan, dapprima favorevole da governatore della California e poi oppositore alla Casa Bianca.

Dopo l’aborto, mercoledì Trump è tornato sulle torture come arma a suo dire legittima per la promozione degli interessi americani. Uno dei problemi per il governo di Washington sarebbe per lui l’esistenza della Convenzione di Ginevra, le cui “leggi e regole” rendono i soldati USA “timorosi di combattere”.

Sia sulla questione dell’aborto sia su quella relativa alle torture dei prigionieri, la grande maggioranza del Partito Repubblicano è peraltro su posizioni non dissimili da quelle di Trump, basti pensare all’ampio sostegno per i crimini dell’amministrazione Bush nella “guerra al terrore” e all’opposizione all’indagine della ex maggioranza Democratica al Senato sugli interrogatori dei sospettati di terrorismo da parte della CIA.

Un altro guaio per Trump è stato registrato martedì con l’incriminazione formale in Florida del numero uno della sua campagna elettorale, Corey Lewandowski, accusato di percosse nei confronti di una giornalista del sito di informazione di destra, Breitbart News, durante un comizio. I guai legali di Lewandowski sono aggravati dai filmati che hanno ripreso lo scontro e si aggiungono ai numerosi episodi di maltrattamenti, se non vere e proprie violenze, contro contestatori di Trump in vari eventi pubblici durante le primarie.

L’emergere di Donald Trump come favorito per la nomination sta dunque accelerando quello che sembra a tutti gli effetti un processo di disintegrazione del Partito Repubblicano, esposto alle conseguenze di decenni caratterizzati dalla promozione di forze di estrema destra e al limite del fascismo da parte di tutto il panorama politico americano.

La reazione dell’establishment Repubblicano al successo di Trump sembra però iniziare a dare i primi frutti, tanto da rendere paradossalmente ancora più confuse le prospettive per la convention dell’estate e il voto di novembre.

I sondaggi diffusi in questi giorni per il prossimo appuntamento delle primarie, in programma martedì in Wisconsin, indicano Ted Cruz – candidato ugualmente non troppo ben visto dalla dirigenza Repubblica e attestato su posizioni non meno reazionarie di Trump – in vantaggio di una decina di punti percentuali sul favorito e di quasi 20 su Kasich.

Il dato, se corrispondente alla realtà, appare ancora più rilevante se si considera che la composizione dell’elettorato di questo stato del Midwest non sembrerebbe particolarmente adatto a un candidato fondamentalista cristiano come il senatore del Texas.

A sottolineare la gravità delle divisioni tra i Repubblicani o, meglio, tra i leader e una buona parte dell’elettorato, c’è infine un fatto estremamente insolito per il “frontrunner” del partito a questo punto della competizione. In Wisconsin, cioè, non un solo membro del partito che ricopra una carica elettiva ha finora manifestato ufficialmente il proprio appoggio per Donald Trump.

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