di Michele Paris
Le speranze nutrite da Donald Trump di unificare il Partito
Repubblicano attorno alla sua candidatura, nel caso fosse alla fine lui a
conquistare la nomination nella corsa alla presidenza degli Stati
Uniti, hanno subito un altro duro colpo questa settimana in seguito a
una serie di nuove gaffes e polemiche nelle quali si è trovato coinvolto
il 69enne miliardario newyorchese.
Il segnale della crisi
crescente che sta attraversando il partito è giunto però da una
questione parzialmente separata e che rischia di produrre una grave
spaccatura in vista della convention di Cleveland il prossimo mese di
luglio. Martedì sera, in diretta televisiva, Trump si è rimangiato cioè
l’impegno a sostenere qualsiasi candidato, che non sia lui, che verrà
incoronato dal partito per sfidare i Democratici per la Casa Bianca.
Questa
marcia indietro comporta anche la possibilità che, nel caso a prevalere
sia uno dei suoi rivali o un candidato terzo, Trump si riservi di
correre per la presidenza in maniera indipendente. Una simile ipotesi,
visto il seguito consistente di elettori Repubblicani conquistato da
Trump, implicherebbe quasi certamente la vittoria a novembre del
candidato Democratico e, con buone probabilità, una scissione
all’interno del partito.
Solo qualche settimana fa, nel corso di
un dibattito a Detroit, Trump e gli altri pretendenti alla Casa Bianca –
il senatore di estrema destra del Texas, Ted Cruz, il governatore
“moderato” dell’Ohio, John Kasich, e il senatore della Florida in
seguito ritiratosi dalla competizione, Marco Rubio – avevano tutti
assicurato che avrebbero dato il loro appoggio al candidato nominato.
Cruz
e Kasich hanno così a loro volta lasciato intendere che Trump potrebbe
non ottenere il loro sostegno nel caso riuscisse a mettere le mani sulla
nomination, anche se le dichiarazioni di entrambi in proposito sono
state più caute rispetto a quelle dell’attuale favorito. Cruz ha fatto
riferimento agli attacchi dei giorni scorsi portati da Trump a sua
moglie e alla sua famiglia per dimostrare l’impossibilità a sostenerlo,
mentre Kasich ha spiegato che il partito non dovrebbe appoggiare un
candidato che “divide e danneggia il paese”.
Le prese di
posizione dei due inseguitori di Trump nella sfida in casa Repubblicana
sono la più recente manifestazione delle manovre in atto per impedire
del tutto a quest’ultimo di ottenere il numero di delegati necessario ad
assicurarsi la nomination. Vista la quasi impossibilità per Cruz e
Kasich di superare Trump e raccogliere i 1.237 delegati necessari a
chiudere ogni discorso, l’obiettivo di una buona parte del partito è
quello di giungere a una convention divisa o “contestata”.
La
strategia, in altre parole, è quella di impedire a Trump di ottenere la
maggioranza assoluta dei delegati al termine delle primarie e forzare
una seconda votazione alla convention, nella quale i membri del partito
avrebbero la facoltà di scegliere un qualsiasi candidato a loro gradito
senza essere vincolati ai risultati elettorali.
Con questo
scenario in mente, qualche giorno fa Marco Rubio ha chiesto al comitato
nazionale del partito e a quelli dei singoli stati di obbligare i 171
delegati conquistati nelle primarie a votare per lui nella votazione
d’apertura della convention, nonostante si sia ritirato dalla corsa. Di
norma, i delegati di candidati che hanno abbandonato la competizione non
hanno vincoli di voto alla convention e sono generalmente a
disposizione del migliore offerente. La mossa di Rubio intende perciò
privare Trump di un numero consistente di voti alla prima e per lui
decisiva votazione per l’assegnazione della nomination.
L’aria di
crisi che rischia di avvolgere la convention Repubblicana di luglio era
già stata prefigurata un paio di settimane fa dallo stesso Trump, il
quale aveva ipotizzato una sorta di rivolta nel caso gli fosse sottratta
la nomination. In verità, in assenza di un candidato con la maggioranza
assoluta dei delegati, convention divise si sono verificate più volte
in passato per entrambi i principali partiti americani. Lo svincolo dei
delegati dopo la prima votazione è inoltre una regola consolidata che ha
già premiato candidati alla Casa Bianca diversi da quelli in vantaggio
dopo le primarie.
Le manovre dirette contro Trump sono ad ogni
modo favorite dalle controversie che egli stesso contribuisce a creare,
facendo appunto il gioco dei vertici di un partito che ritiene pressoché
impossibile riconquistare la Casa Bianca con un candidato simile.
Critiche molto accese sono piovute ad esempio su Trump questa settimana dopo un’uscita nel corso di un’intervista al network MSNBC sul
diritto all’aborto. Trump, dopo avere ribadito la sua contrarietà alle
interruzioni di gravidanza, ha affermato che, se l’aborto fosse messo
fuori legge negli USA, le donne che dovessero ricorrervi illegalmente
dovrebbero essere punite in qualche modo.
La dichiarazione è
stata subito condannata da abortisti e anti-abortisti. Tra questi ultimi
sono intervenuti anche i due rivali di Trump – Cruz e Kasich – i quali
hanno proposto la tradizionale posizione altrettanto reazionaria
prevalente tra i Repubblicani, cioè che a pagare le conseguenze di
pratiche abortive eventualmente illegali dovrebbero essere i medici e
non le donne incinte.
Trump, da parte sua, ha ritrattato poco più
tardi, allineandosi alle posizioni del partito e rispondendo anche alle
accuse di quanti hanno ricordato come in passato si fosse detto a
favore dell’interruzione di gravidanza. Nel corso di un evento
sponsorizzato dalla CNN, Trump ha spiegato di avere cambiato
idea sull’aborto, seguendo un percorso simile a quello di Ronald Reagan,
dapprima favorevole da governatore della California e poi oppositore
alla Casa Bianca.
Dopo l’aborto, mercoledì Trump è tornato sulle
torture come arma a suo dire legittima per la promozione degli interessi
americani. Uno dei problemi per il governo di Washington sarebbe per
lui l’esistenza della Convenzione di Ginevra, le cui “leggi e regole”
rendono i soldati USA “timorosi di combattere”.
Sia sulla
questione dell’aborto sia su quella relativa alle torture dei
prigionieri, la grande maggioranza del Partito Repubblicano è peraltro
su posizioni non dissimili da quelle di Trump, basti pensare all’ampio
sostegno per i crimini dell’amministrazione Bush nella “guerra al
terrore” e all’opposizione all’indagine della ex maggioranza Democratica
al Senato sugli interrogatori dei sospettati di terrorismo da parte
della CIA.
Un altro guaio per Trump è stato registrato martedì
con l’incriminazione formale in Florida del numero uno della sua
campagna elettorale, Corey Lewandowski, accusato di percosse nei
confronti di una giornalista del sito di informazione di destra,
Breitbart News, durante un comizio. I guai legali di Lewandowski sono
aggravati dai filmati che hanno ripreso lo scontro e si aggiungono ai
numerosi episodi di maltrattamenti, se non vere e proprie violenze,
contro contestatori di Trump in vari eventi pubblici durante le
primarie.
L’emergere di Donald Trump come favorito per la
nomination sta dunque accelerando quello che sembra a tutti gli effetti
un processo di disintegrazione del Partito Repubblicano, esposto alle
conseguenze di decenni caratterizzati dalla promozione di forze di
estrema destra e al limite del fascismo da parte di tutto il panorama
politico americano.
La reazione dell’establishment Repubblicano
al successo di Trump sembra però iniziare a dare i primi frutti, tanto
da rendere paradossalmente ancora più confuse le prospettive per la
convention dell’estate e il voto di novembre.
I sondaggi diffusi
in questi giorni per il prossimo appuntamento delle primarie, in
programma martedì in Wisconsin, indicano Ted Cruz – candidato ugualmente
non troppo ben visto dalla dirigenza Repubblica e attestato su
posizioni non meno reazionarie di Trump – in vantaggio di una decina di
punti percentuali sul favorito e di quasi 20 su Kasich.
Il
dato, se corrispondente alla realtà, appare ancora più rilevante se si
considera che la composizione dell’elettorato di questo stato del
Midwest non sembrerebbe particolarmente adatto a un candidato
fondamentalista cristiano come il senatore del Texas.
A
sottolineare la gravità delle divisioni tra i Repubblicani o, meglio,
tra i leader e una buona parte dell’elettorato, c’è infine un fatto
estremamente insolito per il “frontrunner” del partito a questo punto
della competizione. In Wisconsin, cioè, non un solo membro del partito
che ricopra una carica elettiva ha finora manifestato ufficialmente il
proprio appoggio per Donald Trump.
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