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15/04/2016

Uscire dal bitume

Mentre scriviamo queste righe il referendum del 17 aprile non ha ancora avuto luogo e non ne possiamo dunque commentare i risultati. Il significato simbolico e “ideale” della consultazione va comunque ben al di là del quesito tecnico, che si limita a chiedere l’abrogazione della possibilità, fornita dal Testo Unico sull’Ambiente (DLgs. n.152/2006, all’art.6, comma 17), di prorogare le estrazioni di idrocarburi in mare fino all’esaurimento dei giacimenti, solo per le concessioni già rilasciate che distano meno di 12 miglia nautiche internazionali dalla costa. Se il caso specifico è piuttosto ristretto, tuttavia le questioni che si pongono attorno a questo referendum sono di enorme rilevanza. Non stiamo qui a farla lunga sugli effetti strettamente politici, che sono notevoli per la tenuta del governo Renzi – sfacciatamente schierato sulla questione, persino contro gran parte del partito suo “azionista di riferimento” – ed anche in vista della consultazione referendaria successiva, non meno importante. Non ci soffermiamo sugli aspetti politici anche perché il posizionamento sul quesito referendario, dal punto di vista delle culture politiche intese in senso “alto”, è significativamente trasversale, come dimostra la spaccatura nel PD ma anche, ad esempio, la divaricazione tra la tendenza “ecologista” e la tendenza direi “consumista” nella sinistra di derivazione marxista, oppure la scelta per il SI di ambienti di destra e leghisti. Dunque il discorso si farebbe tanto complicato quanto poco emozionante.
 
E’ il caso invece di soffermarsi sul valore profondo della discussione sviluppatasi attorno e grazie al referendum. Il governatore della Puglia Michele Emiliano si è bene espresso in un talk-show televisivo quando ha fatto notare che il fatto stesso di avere promosso ed essere arrivati al referendum con una larga iniziativa di amministratori regionali è una vittoria, indipendentemente dai risultati della consultazione. Infatti, inizialmente i quesiti referendari proposti erano ben 6 e volevano abrogare anche la “dichiarazione di strategicità, indifferibilità e urgenza delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi”, le relative nuove “procedure di estrazione” e la “disciplina sulla durata delle attività autorizzate”, ed inoltre il “potere sostitutivo” avocato allo Stato “di autorizzare, in caso di rifiuto delle amministrazioni regionali, le infrastrutture e gli insediamenti strategici, inclusi quelli necessari per trasporto, stoccaggio, trasferimento degli idrocarburi in raffineria e altre opere strumentali per lo sfruttamento degli idrocarburi” nonché “di autorizzare, senza concertazione con le regioni, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi” – tutte novità, queste, che sono state incluse nei cosiddetti decreti «Sblocca Italia» e «Semplifica Italia» promulgati dal governo Renzi. Possiamo quindi dire che le Regioni hanno avuto la forza e, con i tempi che corrono, il coraggio di opporsi al piccolo golpe in tema di strategia energetica nazionale che è in corso da parte delle lobby degli idrocarburi che reggono questo governo.
 
Sui 5 quesiti dichiarati inammissibili dall’Ufficio centrale per il referendum è rimasto aperto un contenzioso e la partita non sarà chiusa dopo il 17 aprile. Già però il solo fatto che un quesito sia stato ammesso ed abbia costretto i cittadini a informarsi e riflettere su quanto sta succedendo in tema di politiche energetiche è molto importante. La questione sul tappeto è quella dell’estrazione senza freni e dell’utilizzo incosciente dei combustibili fossili. Quando si dice che le trivelle possono effettuare le estrazioni in mare fino “all’esaurimento del giacimento” si ammette che i pozzi non hanno una vita infinita. In un Appello del 2014 (1) docenti e ricercatori affermavano che «mentre fonti governative parlano di un “mare di petrolio” che giace sotto l’Italia, secondo la BP Statistical Review del giugno 2014 le riserve di combustibili fossili sfruttabili nel nostro paese ammontano a 290 Mtep. Poiché il consumo di energia primaria annuale è di 159 Mtep, queste ipotetiche riserve corrispondono al consumo di meno di due anni. Spalmate su un periodo di 20 anni, ammontano a circa il 9% del consumo annuale di energia primaria. Si tratta quindi di una risorsa molto limitata, il cui sfruttamento potrebbe produrre danni molto più ingenti dei benefici che può apportare.» Per quale motivo allora ostinarsi a succhiare fino a sicuro esaurimento queste poche risorse presenti nel territorio nazionale, in un contesto in cui si impone invece l’elaborazione di una radicalmente nuova strategia energetica? I (pochi) combustibili fossili presenti nel nostro sottosuolo andrebbero piuttosto preservati come un “tesoretto” cui eventualmente attingere in caso di necessità estrema, in momenti di incrudimento delle crisi. Essi rappresentano cioè un patrimonio strategico che non può più essere sfruttato consumisticamente e ciecamente, come si è preteso di poter fare fino ad oggi con tutti gli idrocarburi ed i loro derivati.
 
La materia del contendere è quindi proprio questa: da un lato c’è l’urgenza di sviluppare nuove politiche energetiche, richieste anche dai recenti Trattati internazionali sul controllo dei cambiamenti climatici; dall’altro c’è l’ignobile vizio, del quale in Italia siamo esperti, di voler campare di rendita come se questo fosse un irrinunciabile diritto, senza alcuna spinta al rinnovamento, allo sviluppo nel senso virtuoso di questo termine (che è invece generalmente usato in modo fuorviante).
 
La vittoria del SI non risolverebbe tutto subito: i primi effetti sulle concessioni per le trivelle si avrebbero tra 5–10 anni, le ultime concessioni che non potranno essere rinnovate scadranno non prima di 20 anni... Ma il referendum stesso equivale a reclamare strategie nazionali lungimiranti, alle quali purtroppo il ceto politico nostrano non è avvezzo. L’atteggiamento dei fautori del NO al referendum del 17 Aprile è riassumibile con la formula: “meglio tutta la gallina oggi piuttosto che garantirsi le uova per domani e i dì a venire”, ovvero: indigestione subito e morire di fame dopo. Per questa ottusa miopia delle nostre classi dirigenti ci ritroviamo a non avere alcuna strategia – né energetica, né industriale, né economica, né scientifica – per il futuro. Le quattro strategie appena elencate sono indissolubilmente legate tra di loro, tant’è vero che a scendere in campo su queste questioni è anche un drappello di ricercatori e scienziati. Anche questa discesa in campo di alcuni “scienziati responsabili” è un fatto abbastanza nuovo, dopo anni di sostanziale qualunquismo (e alcuni dei firmatari non mancano di responsabilità pregresse...). Nello specifico, oltre all’Appello del 2014 già menzionato, va segnalato il nuovo Appello (aprile 2016) per il SI al referendum, che vede tra i firmatari anche alcuni nomi ben noti della scienza e della divulgazione scientifica italiane.
 
Questa evenienza ci riporta alla mente l’esperienza, di una quindicina di anni fa, del Comitato Scienziate/i contro la Guerra. Sorto per reazione ad un altro golpe – quello del governo D’Alema, che fece entrare l’Italia in una guerra di aggressione nel 1999 senza nemmeno una discussione parlamentare e aprendo la strada allo stravolgimento dei valori costituzionali fondanti della Repubblica –, il Comitato Scienziate/i contro la Guerra prese subito coscienza di doversi fare carico della individuazione ed esplicitazione di alcuni nessi semantici che sono alla radice dei maggiori problemi della fase contemporanea: in particolare i nessi che legano le nuove guerre alla crisi energetica e la crisi economico–industriale alla mancanza di investimenti nei settori della produzione e riproduzione della conoscenza. Si tratta di questioni che negli anni si sono solamente aggravate, prefigurando quei baratri di fronte ai quali sta sospesa la società in cui viviamo. Purtroppo quel Comitato non ha tenuto alla prova della necessità di organizzazione e sintesi collettiva che è richiesta a qualsiasi consorzio umano che ponga questioni fondamentalmente politiche (in senso alto, di nuovo); esso ha anche scontato la fase di destrutturazione e desertificazione dei luoghi di produzione e riproduzione della conoscenza. Il fatto che, nonostante lo stato comatoso del mondo scientifico italiano, alcune voci trovino ancora la forza di dire cose importanti, è il segno della grandezza dei problemi che ci troviamo tutti, volenti o nolenti, a dover affrontare.
 
L’articolo che segue apparirà sul prossimo numero (maggio 2016) de La Voce del G.A.MA.DI. ( http://www.gamadilavoce.it/lavoce/2016/aprile/Madre/1.html ) nella rubrica “Questioni della Scienza”.
 

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