Mentre scriviamo queste righe il referendum del 17 aprile non ha
ancora avuto luogo e non ne possiamo dunque commentare i risultati. Il
significato simbolico e “ideale” della consultazione va comunque ben al
di là del quesito tecnico, che si limita a chiedere l’abrogazione della
possibilità, fornita dal Testo Unico sull’Ambiente (DLgs. n.152/2006,
all’art.6, comma 17), di prorogare le estrazioni di idrocarburi in mare
fino all’esaurimento dei giacimenti, solo per le concessioni già
rilasciate che distano meno di 12 miglia nautiche internazionali dalla
costa. Se il caso specifico è piuttosto ristretto, tuttavia le questioni
che si pongono attorno a questo referendum sono di enorme rilevanza.
Non stiamo qui a farla lunga sugli effetti strettamente politici, che
sono notevoli per la tenuta del governo Renzi – sfacciatamente schierato
sulla questione, persino contro gran parte del partito suo “azionista
di riferimento” – ed anche in vista della consultazione referendaria
successiva, non meno importante. Non ci soffermiamo sugli aspetti
politici anche perché il posizionamento sul quesito referendario, dal
punto di vista delle culture politiche intese in senso “alto”, è
significativamente trasversale, come dimostra la spaccatura nel PD ma
anche, ad esempio, la divaricazione tra la tendenza “ecologista” e la
tendenza direi “consumista” nella sinistra di derivazione marxista,
oppure la scelta per il SI di ambienti di destra e leghisti. Dunque il
discorso si farebbe tanto complicato quanto poco emozionante.
E’ il caso invece di soffermarsi sul valore profondo della
discussione sviluppatasi attorno e grazie al referendum. Il governatore
della Puglia Michele Emiliano si è bene espresso in un talk-show
televisivo quando ha fatto notare che il fatto stesso di avere promosso
ed essere arrivati al referendum con una larga iniziativa di
amministratori regionali è una vittoria, indipendentemente dai risultati
della consultazione. Infatti, inizialmente i quesiti referendari
proposti erano ben 6 e volevano abrogare anche la “dichiarazione di
strategicità, indifferibilità e urgenza delle attività di prospezione,
ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi”, le relative
nuove “procedure di estrazione” e la “disciplina sulla durata delle
attività autorizzate”, ed inoltre il “potere sostitutivo” avocato allo
Stato “di autorizzare, in caso di rifiuto delle amministrazioni regionali, le infrastrutture e gli insediamenti strategici, inclusi quelli necessari per trasporto, stoccaggio, trasferimento degli idrocarburi in raffineria e altre opere strumentali per lo sfruttamento degli idrocarburi” nonché “di autorizzare, senza concertazione con le regioni,
le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi” –
tutte novità, queste, che sono state incluse nei cosiddetti decreti
«Sblocca Italia» e «Semplifica Italia» promulgati dal governo Renzi.
Possiamo quindi dire che le Regioni hanno avuto la forza e, con i tempi
che corrono, il coraggio di opporsi al piccolo golpe in tema di strategia energetica nazionale che è in corso da parte delle lobby degli idrocarburi che reggono questo governo.
Sui 5 quesiti dichiarati inammissibili dall’Ufficio centrale per il
referendum è rimasto aperto un contenzioso e la partita non sarà chiusa
dopo il 17 aprile. Già però il solo fatto che un quesito sia stato
ammesso ed abbia costretto i cittadini a informarsi e riflettere su
quanto sta succedendo in tema di politiche energetiche è molto
importante. La questione sul tappeto è quella dell’estrazione senza
freni e dell’utilizzo incosciente dei combustibili fossili. Quando si
dice che le trivelle possono effettuare le estrazioni in mare fino
“all’esaurimento del giacimento” si ammette che i pozzi non hanno una
vita infinita. In un Appello del 2014 (1) docenti e ricercatori
affermavano che «mentre fonti governative parlano di un “mare
di petrolio” che giace sotto l’Italia, secondo la BP Statistical Review
del giugno 2014 le riserve di combustibili fossili sfruttabili nel
nostro paese ammontano a 290 Mtep. Poiché il consumo di energia primaria
annuale è di 159 Mtep, queste ipotetiche riserve corrispondono al
consumo di meno di due anni. Spalmate su un periodo di 20 anni,
ammontano a circa il 9% del consumo annuale di energia primaria. Si
tratta quindi di una risorsa molto limitata, il cui sfruttamento
potrebbe produrre danni molto più ingenti dei benefici che può
apportare.» Per quale motivo allora ostinarsi a succhiare
fino a sicuro esaurimento queste poche risorse presenti nel territorio
nazionale, in un contesto in cui si impone invece l’elaborazione di una
radicalmente nuova strategia energetica? I (pochi) combustibili fossili
presenti nel nostro sottosuolo andrebbero piuttosto preservati come un
“tesoretto” cui eventualmente attingere in caso di necessità estrema, in
momenti di incrudimento delle crisi. Essi rappresentano cioè un
patrimonio strategico che non può più essere sfruttato consumisticamente
e ciecamente, come si è preteso di poter fare fino ad oggi con tutti
gli idrocarburi ed i loro derivati.
La materia del contendere è quindi proprio questa: da un lato c’è
l’urgenza di sviluppare nuove politiche energetiche, richieste anche dai
recenti Trattati internazionali sul controllo dei cambiamenti
climatici; dall’altro c’è l’ignobile vizio, del quale in Italia siamo
esperti, di voler campare di rendita come se questo fosse un
irrinunciabile diritto, senza alcuna spinta al rinnovamento, allo sviluppo nel senso virtuoso di questo termine (che è invece generalmente usato in modo fuorviante).
La vittoria del SI non risolverebbe tutto subito: i primi effetti
sulle concessioni per le trivelle si avrebbero tra 5–10 anni, le ultime
concessioni che non potranno essere rinnovate scadranno non prima di 20
anni... Ma il referendum stesso equivale a reclamare strategie nazionali
lungimiranti, alle quali purtroppo il ceto politico nostrano non è
avvezzo. L’atteggiamento dei fautori del NO al referendum del 17 Aprile è
riassumibile con la formula: “meglio tutta la gallina oggi piuttosto
che garantirsi le uova per domani e i dì a venire”, ovvero: indigestione
subito e morire di fame dopo. Per questa ottusa miopia delle nostre
classi dirigenti ci ritroviamo a non avere alcuna strategia – né
energetica, né industriale, né economica, né scientifica – per il
futuro. Le quattro strategie appena elencate sono indissolubilmente
legate tra di loro, tant’è vero che a scendere in campo su queste
questioni è anche un drappello di ricercatori e scienziati. Anche questa
discesa in campo di alcuni “scienziati responsabili” è un fatto
abbastanza nuovo, dopo anni di sostanziale qualunquismo (e alcuni dei
firmatari non mancano di responsabilità pregresse...). Nello specifico,
oltre all’Appello del 2014 già menzionato, va segnalato il nuovo Appello
(aprile 2016) per il SI al referendum, che vede tra i firmatari anche
alcuni nomi ben noti della scienza e della divulgazione scientifica
italiane.
Questa evenienza ci riporta alla mente l’esperienza, di una quindicina di anni fa, del Comitato Scienziate/i contro la Guerra. Sorto per reazione ad un altro golpe –
quello del governo D’Alema, che fece entrare l’Italia in una guerra di
aggressione nel 1999 senza nemmeno una discussione parlamentare e
aprendo la strada allo stravolgimento dei valori costituzionali fondanti
della Repubblica –, il Comitato Scienziate/i contro la Guerra prese
subito coscienza di doversi fare carico della individuazione ed
esplicitazione di alcuni nessi semantici che sono alla radice dei
maggiori problemi della fase contemporanea: in particolare i nessi
che legano le nuove guerre alla crisi energetica e la crisi
economico–industriale alla mancanza di investimenti nei settori della
produzione e riproduzione della conoscenza. Si tratta di questioni
che negli anni si sono solamente aggravate, prefigurando quei baratri di
fronte ai quali sta sospesa la società in cui viviamo. Purtroppo quel
Comitato non ha tenuto alla prova della necessità di organizzazione e
sintesi collettiva che è richiesta a qualsiasi consorzio umano che ponga
questioni fondamentalmente politiche (in senso alto, di nuovo);
esso ha anche scontato la fase di destrutturazione e desertificazione
dei luoghi di produzione e riproduzione della conoscenza. Il fatto che,
nonostante lo stato comatoso del mondo scientifico italiano, alcune voci
trovino ancora la forza di dire cose importanti, è il segno della
grandezza dei problemi che ci troviamo tutti, volenti o nolenti, a dover
affrontare.
L’articolo che segue apparirà sul prossimo numero (maggio 2016) de La Voce del G.A.MA.DI. ( http://www.gamadilavoce.it/ lavoce/2016/aprile/Madre/1. html ) nella rubrica “Questioni della Scienza”.
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