di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Due lanciarazzi, dodici
fucili Ak-47 ma soprattutto dodici villaggi: queste le vittorie
riportate ieri dalle Forze Democratiche Siriane (Sdf) contro lo Stato
Islamico nel nord della Siria. La federazione multietnica e
multiconfessionale guidata dai kurdi di Rojava (accanto alle Ypg ci sono
arabi, assiri, turkmeni) avanza lentamente verso Raqqa.
Una cattiva notizia non solo per l’Isis che deve affrontare
un’altra controffensiva mentre è impegnato sui fronti di Aleppo e
Fallujah. Lo è anche per la Turchia che non riesce a imporre la propria
narrativa: Ypg uguale Pkk uguale terrorismo.
A sostenere dall’alto l’operazione delle Sdf, infatti, è l’aviazione
statunitense. Dal basso sarebbero le forze di élite dell’esercito del
presidente Obama, fotografate pochi giorni fa mentre assistevano i
combattenti kurdi in una zona rurale a 60 km da Raqqa. Immagini
che hanno fatto perdere la testa ad Ankara che prova ad andare al
contrattacco mettendo sul tavolo un’invasione del nord della Siria al
fianco della coalizione: un’operazione via terra congiunta
anti-Isis, finora scansata come la peste da Erdogan, anche e soprattutto
quando Kobane veniva massacrata. Operazione sì ma ad una condizione:
che Washington lasci fuori i kurdi siriani.
Ne ha parlato ieri il ministro degli Esteri turco Cavusoglu,
sebbene funzionari Usa riferiscano che l’offerta non prevede l’abbandono
dell’alleanza militare con i kurdi e non contiene proposte concrete. «La questione che stiamo discutendo con gli americani – ha detto Cavusoglu all’Afp
– è la chiusura di Manbij [la zona usata dall’Isis per il trasferimento
di armi e uomini] – e l’apertura di un secondo fronte». Per poi
aggiungere che ai suoi uomini e a quelli Usa potrebbero unirsi tedeschi,
francesi e britannici. Insomma il cuore della Nato che se davvero
decidesse una simile operazione aprirebbe al conflitto con la Russia.
La strategia turca è volta a creare caos. Con gli alleati e
con gli avversari perché in entrambi i casi gli interessi turchi non
combaciano del tutto neppure con la coalizione: Erdogan punta a
farsi leader indiscusso del Medio Oriente usando come piede di porco le
opposizioni a Damasco per distruggere la Siria di Assad e sfruttando la
lotta all’Isis per schiacciare una volte per tutte il movimento
indipendentista kurdo.
Ieri è stata Ankara ad accusare per prima Mosca di aver colpito con
un raid aereo un ospedale e una moschea a Idlib, città settentrionale
occupata da tempo dal Fronte al-Nusra: almeno 23 i morti, 200 i feriti.
La Russia nega: non erano in corso operazioni aeree la notte tra lunedì e
martedi nell’area. La Turchia ha chiesto l’apertura di un’indagine
internazionale, richiesta che però non ha mosso una settimana fa quando
sette attacchi dell’Isis hanno trucidato 161 persone a Tartus e Jableh,
città costiere a maggioranza alawita, stessa fede del presidente Assad.
Per l’Occidente e l’asse Golfo-Turchia la precondizione non è
tanto la presenza dello Stato Islamico quanto chi è a combatterlo. In
Iraq sembrano essere tutti d’accordo seppure il sostegno al debole
esercito iracheno non sia così ampio. Ad una settimana dal
lancio dell’operazione su Fallujah, le forze irachene (militari, milizie
sciite, tribù sunnite) sono entrate nella periferia della città dove
stanno però incontrando la resistenza degli islamisti, preparatisi alla
battaglia finale con trincee, tunnel e campi minati.
Le unità di élite dell’esercito premono da sud, verso il quartiere di
Naimiyah. Qui si è svolta ieri lo scontro più duro: «C’erano circa
cento miliziani – ha detto il generale al-Saadi, comandante dell’intera
operazione – Sono arrivati verso di noi pesantemente armati ma non hanno
usato kamikaze».
I più terrorizzati sono i civili a cui la fuga attraverso i corridoi umanitari aperti da Baghdad è impedita: «Le condizioni della gente peggiorano di giorno in giorno – racconta al telefono all’Afp
un residente – C’è panico. Daesh è furioso perché non è sostenuto. Ieri
hanno catturato un centinaio di giovani uomini in diverse parti della
città e li hanno portati in un luogo sconosciuto». Il timore è
quello di brutali rappresaglie contro i civili se le forze irachene non
dovessero riuscire nella liberazione di Fallujah.
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