Il più renziano dei giornali, Repubblica, aveva suonato la
grancassa con qualche minuto di anticipo rispetto a premier: “Più
occupati e meno inattivi, il mercato del lavoro è in ripresa”. Meno
attento ai dettagli numerici, il contafrottole seduto a Palazzo Chigi si
limitava a gioire con un “Il Jobs Act funziona, smentiti i gufi”.
I dati Istat pubblicati ieri costituiscono in effetti un groviglio di
informazioni contraddittorie, che sarà bene districare con calma.
Dice l’Istat: “Dopo l’aumento registrato a marzo (+0,3%) la stima
degli occupati ad aprile sale dello 0,2% (+51 mila persone occupate).
L’aumento riguarda sia i dipendenti (+35 mila i permanenti, stabili
quelli a termine) sia gli indipendenti (+16 mila). La crescita
dell’occupazione coinvolge uomini e donne e riguarda tutte le classi
d’età ad eccezione dei 35-49enni. Il tasso di occupazione, pari al
56,9%, aumenta di 0,2 punti percentuali sul mese precedente”.
Fin qui tutto bene, apparentemente. L’occupazione indubitabilmente
sale. I problemi nascono nel paragrafo dedicato alla disoccupazione:
“Dopo il calo di marzo (-1,7%) la stima dei disoccupati ad aprile sale
dell’1,7% (+50 mila), tornando al livello di febbraio. L’aumento è
attribuibile alle donne (+4,2%), mentre si registra un lieve calo per
gli uomini (-0,4%). Il tasso di disoccupazione è pari all’11,7%, in
aumento di 0,1 punti percentuali su marzo”.
Anche qui non c’è da girarci intorno: la disoccupazione sale
anch’essa. Ma com’è possibile che due grandezze opposte, nello stesso
bacino di popolazione, aumentino entrambe e contemporaneamente? A rigor
di logica una delle due sembrerebbe sbagliata...
In molti, più avvezzi a maneggiare statistiche che mutano di frequente
i criteri base, sono andati a leggere anche i dati relativi agli
“inattivi”, ossia coloro che non lavorano ma non sono neanche iscritti
ai centri per l’impiego (ex uffici di collocamento), e che dunque non
risultano disoccupati per una semplice questione burocratica.
E qui la verifica è veloce: “Ad aprile si osserva una consistente
crescita della partecipazione al mercato del lavoro determinata
dall’aumento contemporaneo di occupati e disoccupati e un corrispondente
forte calo degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,8%, pari a
-113 mila). La diminuzione riguarda uomini e donne e si distribuisce tra
tutte le classi d’età. Il tasso di inattività scende al 35,4% (-0,3
punti percentuali)”.
Sciolto il dilemma? Gli inattivi si sono messi a lavorare senza
passare per i centri per l’impiego, dunque l’occupazione è aumentata; i
disoccupati sono aumentati anch’essi, però, perché i licenziati si sono
andati ad iscrivere negli uffici per poter avere l’assegno di
disoccupazione.
L’Istat non può dirlo, ma a naso si intuisce che c’è stata una
sostituzione netta di lavoratori a contratto “standard” con altri,
inattivi o disoccupati. Quindi ci deve essere per le imprese un
vantaggio di nuovo tipo, visto che gli incentivi (contributi a carico
dello Stato per tre anni per ogni “nuovo assunto con contratto a tempo
indeterminato”) sono di fatto finiti a dicembre 2015.
E qui esce fuori il buco nero del Jobs Act, che permette di
retribuire con il “voucher”, anche ad ore. Le polemiche delle scorse
settimane avevano in effetti centrato il problema: questi “buoni, del
valore nominale di 10 euro, pensati per “per retribuire il lavoro
accessorio” (stagionale, occasionale, ecc), sono stati venduti nel 2015
per oltre 115 milioni di pezzi. Tradotto in persone, si calcola in
genere che 1,4 milioni di lavoratori siano pagati in questo modo.
È dunque assolutamente evidente che molte imprese si sono liberate di
lavoratori “standard” e li hanno sostituiti con altri (magari anche gli
stessi, se bravi) pagati in parte con i voucher e in parte in nero
(prassi consolidata, specie nell’edilizia, dove spesso i voucher vengono
versati nel giorno stesso di un incidente sul lavoro).
La domanda finale è soltanto una: ma un lavoratore pagato con il
voucher, magari solo per un’ora, è considerato statisticamente un
“occupato”?
La risposta è stata fornita dalla stessa Istat a un lavoratore che chiedeva proprio questo:
“Nella settimana di riferimento dell’indagine” significa “proprio in
quella settimana” in cui i ricercatori dell’Istat svolgono la
rilevazione. Quindi anche soltanto un’ora al mese, spesso, può bastare a
far scattare “l’occupazione” di una unità in più.
E qui si chiude il cerchio. Questa è l’occupazione di cui Renzi (e Repubblica)
si fa vanto. Alle domande successive (ma un’ora di voucher, 10 euro,
alla settimana bastano a campare? Che senso ha una statistica che
considera “occupati” dei futuri morti di fame? ecc) potete rispondere
anche da soli...
Il rapporto completo dell’Istat, con l’invito a leggere attentamente
il Glossario, ovvero i criteri con cui tutti veniamo classificati: CS_Occupati-e-disoccupati_aprile_2016
Fonte
The American way...
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