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01/06/2016

La truffa di Renzi sull’occupazione che cresce

Il più renziano dei giornali, Repubblica, aveva suonato la grancassa con qualche minuto di anticipo rispetto a premier: “Più occupati e meno inattivi, il mercato del lavoro è in ripresa”. Meno attento ai dettagli numerici, il contafrottole seduto a Palazzo Chigi si limitava a gioire con un “Il Jobs Act funziona, smentiti i gufi”.

I dati Istat pubblicati ieri costituiscono in effetti un groviglio di informazioni contraddittorie, che sarà bene districare con calma.

Dice l’Istat: “Dopo l’aumento registrato a marzo (+0,3%) la stima degli occupati ad aprile sale dello 0,2% (+51 mila persone occupate). L’aumento riguarda sia i dipendenti (+35 mila i permanenti, stabili quelli a termine) sia gli indipendenti (+16 mila). La crescita dell’occupazione coinvolge uomini e donne e riguarda tutte le classi d’età ad eccezione dei 35-49enni. Il tasso di occupazione, pari al 56,9%, aumenta di 0,2 punti percentuali sul mese precedente”.

Fin qui tutto bene, apparentemente. L’occupazione indubitabilmente sale. I problemi nascono nel paragrafo dedicato alla disoccupazione: “Dopo il calo di marzo (-1,7%) la stima dei disoccupati ad aprile sale dell’1,7% (+50 mila), tornando al livello di febbraio. L’aumento è attribuibile alle donne (+4,2%), mentre si registra un lieve calo per gli uomini (-0,4%). Il tasso di disoccupazione è pari all’11,7%, in aumento di 0,1 punti percentuali su marzo”.

Anche qui non c’è da girarci intorno: la disoccupazione sale anch’essa. Ma com’è possibile che due grandezze opposte, nello stesso bacino di popolazione, aumentino entrambe e contemporaneamente? A rigor di logica una delle due sembrerebbe sbagliata...

In molti, più avvezzi a maneggiare statistiche che mutano di frequente i criteri base, sono andati a leggere anche i dati relativi agli “inattivi”, ossia coloro che non lavorano ma non sono neanche iscritti ai centri per l’impiego (ex uffici di collocamento), e che dunque non risultano disoccupati per una semplice questione burocratica.

E qui la verifica è veloce: “Ad aprile si osserva una consistente crescita della partecipazione al mercato del lavoro determinata dall’aumento contemporaneo di occupati e disoccupati e un corrispondente forte calo degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,8%, pari a -113 mila). La diminuzione riguarda uomini e donne e si distribuisce tra tutte le classi d’età. Il tasso di inattività scende al 35,4% (-0,3 punti percentuali)”.

Sciolto il dilemma? Gli inattivi si sono messi a lavorare senza passare per i centri per l’impiego, dunque l’occupazione è aumentata; i disoccupati sono aumentati anch’essi, però, perché i licenziati si sono andati ad iscrivere negli uffici per poter avere l’assegno di disoccupazione.

L’Istat non può dirlo, ma a naso si intuisce che c’è stata una sostituzione netta di lavoratori a contratto “standard” con altri, inattivi o disoccupati. Quindi ci deve essere per le imprese un vantaggio di nuovo tipo, visto che gli incentivi (contributi a carico dello Stato per tre anni per ogni “nuovo assunto con contratto a tempo indeterminato”) sono di fatto finiti a dicembre 2015.

E qui esce fuori il buco nero del Jobs Act, che permette di retribuire con il “voucher”, anche ad ore. Le polemiche delle scorse settimane avevano in effetti centrato il problema: questi “buoni, del valore nominale di 10 euro, pensati per “per retribuire il lavoro accessorio” (stagionale, occasionale, ecc), sono stati venduti nel 2015 per oltre 115 milioni di pezzi. Tradotto in persone, si calcola in genere che 1,4 milioni di lavoratori siano pagati in questo modo.

È dunque assolutamente evidente che molte imprese si sono liberate di lavoratori “standard” e li hanno sostituiti con altri (magari anche gli stessi, se bravi) pagati in parte con i voucher e in parte in nero (prassi consolidata, specie nell’edilizia, dove spesso i voucher vengono versati nel giorno stesso di un incidente sul lavoro).

La domanda finale è soltanto una: ma un lavoratore pagato con il voucher, magari solo per un’ora, è considerato statisticamente un “occupato”?

La risposta è stata fornita dalla stessa Istat a un lavoratore che chiedeva proprio questo:


“Nella settimana di riferimento dell’indagine” significa “proprio in quella settimana” in cui i ricercatori dell’Istat svolgono la rilevazione. Quindi anche soltanto un’ora al mese, spesso, può bastare a far scattare “l’occupazione” di una unità in più.

E qui si chiude il cerchio. Questa è l’occupazione di cui Renzi (e Repubblica) si fa vanto. Alle domande successive (ma un’ora di voucher, 10 euro, alla settimana bastano a campare? Che senso ha una statistica che considera “occupati” dei futuri morti di fame? ecc) potete rispondere anche da soli...

Il rapporto completo dell’Istat, con l’invito a leggere attentamente il Glossario, ovvero i criteri con cui tutti veniamo classificati: CS_Occupati-e-disoccupati_aprile_2016

Fonte

The American way...

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