Donald Trump e Hillary Clinton. Due universi paralleli a leggere la
grande stampa europea. Due visioni inconciliabili del mondo e della
vita, a sentire diversi scrittori e giornalisti italiani a New York, che
arrivano a paragonare le due figure a Pinochet da un lato e a Che
Guevara dall’altro. Personalmente, quando a metà marzo in Ohio le
primarie erano già belle che decise (sia sul versante repubblicano che
su quello democratico) pubblicai una foto con i due contendenti in posa
durante una festa (la foto risale a una decina d’anni fa), con sorriso
smagliante e rispettivi consorti, e aggiunsi questa didascalia: questo
novembre la scelta sarà tra due ricchi anziani bianchi, che litigano
veementemente su come disciplinare la cameriera. Forse peccavo di troppo
sarcasmo in una situazione che, per chiunque non sia un analista
politico, è più terrificante che grottesca, e merita una più
approfondita analisi.
L’ho detto e lo ripeto: io sono tra quelli – e non sono pochi – che
su Trump si sono sbagliati. Pensavo che il clown si sarebbe sgonfiato
assai presto, forse già ad una delle prime tappe, magari in Iowa, e che
in ogni caso Clinton non avrebbe avuto problemi a disfarsene a Novembre,
alle elezioni generali. Certo, lei è la seconda candidata alla
presidenza più impopolare nella storia, ma Trump è il primo. Lei è
sgradevole nei modi e una bugiarda conclamata. Ma lui è repellente e fa
paura. “Tutto ciò che lei dovrebbe fare è vincere gli Stati già
conquistati da Obama e uno o due in bilico e sarebbe finita per Trump,
che tornerebbe a fare l’immobiliarista di terza categoria”, scrive Doug Henwood.
Ma adesso non ne sarei così sicuro. Gli stessi analisti e
commentatori che a novembre dell’anno scorso ci assicuravano che Trump
non avrebbe mai vinto la nomination ora dicono che a novembre di
quest’anno lui non ha speranze. Se è vero che le performance del passato
non garantiscono i risultati futuri, questo cursus honorum non instilla fiducia in chi legge.
Dem nei pasticci
Due sono i fattori che fanno temere il peggio. Il primo è che la
campagna di Hillary finora ha fatto il minimo sindacale per portare a
casa la nomination, un risultato che davano per scontato 12 mesi fa,
quando il vantaggio in termini di popolarità e “conoscenza del marchio”
rispetto a Bernie Sanders era abissale. E sembra che molti colpi stiano
venendo sparati a salve. Il menù prevede la solita minestra: mettere a
confronto i “conservatori buoni”, i Padri della patria e i santini
(Reagan, Washington, Lincoln, ecc.) con le baggianate di Trump; citare qui e là le parole dei neocon influenti
che stanno abbandonando la nave conservatrice prima che affondi (ma
affonderà davvero? ho qualche dubbio) e poi, da parte dei militanti di
base, degli hillariti più convinti e delle femministe aziendali che sono
“with her” una raffica di sfottò e insulti contro i fan di Trump. Molti
di questi, senza ombra di dubbio, sono dei bigotti ignoranti. Ma siamo
sicuri che questa tattica servirà a conquistare gli amici e gli incerti?
Come ho scritto più volte,
l’elettorato bianco impoverito guarda a Trump con la disperazione di
chi è tagliato fuori dalla vita politica e non conta più nulla: il
sistema economico lo ha fatto a pezzi, e non sembra saper far niente per
risollevarlo. Al tempo stesso, mettere in vendita cappellini sbruffoni come questo rischia di alienare ancora di più gli scontenti che hanno confidato in Sanders e guardano con orrore al consenso bipartisan.
I compiacenti e i confortati sembrano essere il target prediletto da
Clinton, gli arrabbiati e gli emarginati quello di Trump. I due
elettorati non si incontrano e non sembrano poter fare travaso. Nessuno
basta a sé stesso, ma non sembra nemmeno poter andare dall’altra parte.
Il secondo motivo d’inquietudine è dato dall’approccio che gli
innamorati “nonostante tutto” di Clinton stanno avendo nei confronti
delle folle di Sanders. Li chiamano berniebros; dicono che
attaccare duramente Clinton è “fare del male”, proprio a livello
personale, al loro candidato, con un vittimismo che fa paura; Jamelle
Bouie di Slate, un magazine progressista, ha scritto che il
movimento dei lavoratori degli anni Trenta – che alcuni paragonano ai
sanderisti di oggi – era forte solo perché allora erano tutti bianchi e razzisti
(ma non è vero: il Partito comunista americano aveva una fortissima
componente afroamericana). Insomma il senso è sempre lo stesso: i
compagnoni di Bernie sono bianchi privilegiati, mentre Hillary
rappresenterebbe la società aperta e multirazziale. Si butta via il
passato radicale per far cosa esattamente? Promuovere Hillary? Attaccare
Trump? Non si capisce.
Progressisti post-speranza
A voler trovare una motivazione razionale di questa strategia, si
direbbe che il primo obiettivo è quello di screditare e demolire
qualunque ambizione di agenda sociale. Forse i consulenti di Clinton
identificano la parte maggioritaria del Paese con un elettore ancora
convinto della superiorità morale, militare e ideologica degli Stati
Uniti, insofferente nei confronti degli eccessi governativi e incapace
di immaginare una più equa redistribuzione della ricchezza. Gli elettori
più giovani, posizionati parecchio più a sinistra rispetto ai genitori, ancora non contano quanto potrebbero. Eppure, secondo un sondaggio Gallup, la maggioranza degli americani è favorevole ad un allargamento della copertura sanitaria, proprio come propone Sanders.
La spiegazione irrazionale ci porta a capire l’aria che tira tra i
fan di Clinton. Frustrati e preoccupati, loro prevedevano una vittoria a
tavolino della prima donna presidente: una che ha dalla sua buona parte
di Wall Street, Kissinger, i fratelli Koch, metà delle star di
Hollywood, l’intera élite del Partito democratico, e purtuttavia è
riuscita a perdere una dozzina di tappe delle primarie per mano di un
settantatreenne ebreo socialista nato a Brooklyn. Dev’essere ammattente.
Dapprima sembrava che la pendenza antisociale e destrorsa dei
democratici avesse uno scopo cinico ma preciso: sedurre gli elettori
moderati suburbani che avrebbero votato per un candidato repubblicano
sano di mente – non che ce ne fosse uno – ma adesso, a giochi fatti, proprio non riescono a digerire Trump.
Nel frattempo gli elettori di Sanders, ritenuti un bacino elettorale
minoritario e sfigato, dovevano ingoiare il rospo o andare all’inferno.
Purtroppo questo piano sembra essere andato in malora: Trump sta recuperando nei sondaggi
nazionali su Clinton, e gli elettori moderati suburbani non corrono
ancora tra le braccia dell’ex First Lady. Qualcosa evidentemente è
andato storto.
Il problema è che la leadership democratica non ha solo abbandonato
la speranza, ma vi sta correndo contro. La campagna di Sanders ha
esposto questa leadership come una franca rappresentante delle
multinazionali, nemica anche solo di una versione tiepida della
socialdemocrazia (“Noi non siamo la Danimarca”).
Ma ora anche quelli che confidavano ingenuamente nelle rivoluzionarie
virtù progressiste di Clinton sembrano aver gettato la spugna, e puntare
unicamente alla seduzione dei poteri forti.
Certo, molti angry white voters sono razzisti e sessisti
aldilà di qualunque illusione. Ma non è solo col razzismo e il sessismo
che si potrebbe parlargli. La popolarità di politiche che materialmente
potrebbero beneficiare la classe lavoratrice come la sanità universale,
una ripresa di opera pubbliche sullo stile del New Deal, un progressivo
ripensamento della spesa militare potrebbe essere un segnale
incoraggiante. Ma la leadership Dem teme che i grandi finanziatori del
partito potrebbero essere contrariati, e fa orecchie da mercante.
Promuovere Clinton o combattere Trump, dunque? Niente sembra funzionare
davvero, e niente sembra si possa prevedere.
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