In ogni caso, il problema che resta aperto è quello di dimostrare che le cose stanno in questo modo; ovvero che i governi nazionali del pianeta – tutti, nessuno escluso – sono ormai in seria crisi di “sovranità” rispetto alle società multinazionali più grandi. Non riescono insomma a decidere autonomamente – come sarebbe logico per un “potere sovrano”, oltretutto legittimato democraticamente con elezioni popolari – le politiche più adatte a far progredire il paese che amministrano, ad allocare autonomamente le risorse di ricchezza prodotte, a incamerare le entrate fiscali dovute da queste società nemmeno quando hanno la maggior parte della propria infrastruttura produttiva nel territorio governato dal singolo Stato. Per i paesi più grandi e potenti si tratta di un intoppo, di un limite, o di un depotenziamento della "politica". Per quelli al di sotto di una certa soglia (quasi tutti) si tratta invece di una vera e propria colonizzazione senza invio di truppe militari.
Il problema è esploso sui giornali mainstream – non a caso – a cavallo dell'ufficializzazione del fallimento della trattativa sul negoziato Ttip (trattato transatlantico di libero scambio), e come conseguenza della decisione dell'Antitrust europeo di condannare Apple a risarcire l'Irlanda con 13 miliardi di tasse non pagate.
Le cronache hanno reso così nota la segretissima pratica del tax ruling, per cui un'azienda multinazionale concorda di pagare a uno Stato non l'aliquota fiscale normale per quel paese (solo il 12,5%, a Dublino), ma una molto inferiore. Soltanto l'1% nel caso di Apple, ai tempi dell'accordo (2003), ma progressivamente scontata fino al provocatorio 0,005% (il 5 per mille che ognuno di voi lascia a chi gli pare – da Emergency alla più sconosciuta onlus – come elemosina fiscale). Certo appare assolutamente evidente la “sproporzione” – diciamo così – con la tassazione sui redditi da lavoro dipendente, in qualsiasi paese, ed anche con quella delle piccole imprese. Ma la giustizia morale non ha mai trovato spazio nella realtà capitalistica (solo nello storytelling)...
La sentenza Ue su Apple ha fatto immediatamente attivare il ministero del Tesoro statunitense (la società di Tim Cook e del fu Steve Jobs ha negli Usa la propria base ingegneristica, mentre il “montaggio” avviene altrove e la commercializzazione è planetaria). Solo in parte per “difendere” una multinazionale stelle-e-strisce, molto di più per provare a recuperare parte dei versamenti fiscali che Apple dovrebbe pagare. Il ministro Jack Lew ha infatti proposto una riforma della tassazione sugli utili realizzati all'estero con questa questa esplicita motivazione: “L'ammontare delle imposte non versate che le autorità irlandesi devono recuperare verrebbe ridotto se le autorità degli Stati Uniti dovessero imporre ad Apple di versare per il periodo in oggetto (dal 2003 al 2014) importi maggiori alla società madre statunitense per il finanziamento delle attività di ricerca e sviluppo”. Cosa cambierebbe? Per Apple ben poco (quel che risparmierebbe di versare all'Irlanda dovrebbe comunque darlo al fisco Usa), per il governo statunitense parecchio: alcuni miliardi.
Ora il quotidiano di Confindustria, IlSole24Ore, pubblica una serie di articoli di Angelo Mincuzzi che descrivono a grandi linee molte delle tecniche adottate dalle principali multinazionali del pianeta (basta scorrere la lista delle prime 500 stilata dalla rivista Fortune) per evitare quasi completamente il pagamento delle tasse a qualsiasi paese; sia quello dove i profitti vengono prodotti, sia quello dove c'è la sede legale, sia quello d'origine verso cui quei profitti tornano.
Così fan tutti? No, solo quelli abbastanza grandi e forti da poterlo fare impunemente. Solo i soggetti, insomma, che incarnano per dimensioni e logica la figura-tipo dei “mercati”, facendo il buono e cattivo tempo ad ogni latitudine. Bombardieri apolidi, con basi sicure in cui farla da padroni pagando un affitto limitato.
Ne vien fuori un quadro quasi disarmante, che dipinge i governi e gli Stati come nanerottoli dai movimenti goffi e lenti di fronte a “oggetti volanti” che alla velocità di un click spostano risorse inimmaginabili. Pensate cosa deve esser passato per la mente a quel premier irlandese che si è sentito proporre da Apple quell'accordo: (“l'1% di un fantastiliardo è comunque molto di più di quanto vado spremendo al 12,5 da aziende molto più piccole”). Ragionamento finanziariamente scontato, perché il governante di turno non è in possesso di alcuno strumento coercitivo nei confronti di multinazionali di quelle dimensioni.
Ma, appunto, ragionamento che giunge a certificare la “fine della sovranità popolare” come immaginata dal pensiero liberale degli ultimi tre secoli e in nome della quale l'Occidente continua a bombardare – con armi più convenzionali – i propri nemici di turno.
Un'ultima annotazione a beneficio dei cantori della “libertà nel web”. Proprio le tecnologie della comunicazione immediata e universale hanno reso possibili business altrimenti impensabili e profitti rapidissimi, teoricamente illimitati. Al punto che proprietari della sola infrastruttura informatica, senza alcun possedimento fisico investito nel business – vedi il caso di Airbnb o Facebook – possono diventare in pochissimi anni una potenza globale nei cui confronti molti Stati debbono “inchinarsi”, pena il bombardamento o – peggio – la delocalizzazione.
Come Renzi davanti a Zuckerberg, insomma.
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Airbnb, gli affari milionari passano per l’Irlanda. In Italia solo 46mila euro di tasse
Angelo Mincuzzi
Cosa c'entra un’Alfa Romeo Giulia da 44.500 euro con una web company valutata 30 miliardi di dollari? Per capirlo bisogna leggere il bilancio di Airbnb Italia, società a responsabilità limitata interamente controllata dalla Airbnb Holdings Llc domiciliata a Wilmington, nel Delaware, paradiso fiscale negli Stati Uniti. Spulciando tra le pagine del bilancio si scopre che, a dispetto di un giro d'affari milionario del gruppo, le tasse che Airbnb paga in Italia sono equivalenti al prezzo di un’Alfa Romeo. Perché il business, ufficialmente, è realizzato in Irlanda, anche se a Dublino nessuno ci mette piede. È lo stesso copione della Apple, che dovrà restituire a Dublino 13 miliardi di euro (più gli interessi) di tasse non pagate.
Un fenomeno globale
Airbnb Italia è la filiale del colosso statunitense fondato nel 2008 da tre ragazzi poco più che ventenni, Brian Chesky, Joe Gebbia e Nathan Blecharczyk, e diventato il leader mondiale nell'affitto online di case per le vacanze. Se cercate un alloggio per il weekend a Firenze o per una settimana a Parigi, la soluzione più economica è Airbnb. In pochi anni la società di San Francisco è diventata un gigante del web: attraverso il suo sito è possibile affittare case e appartamenti in 34mila città di 191 paesi. Una crescita vertiginosa. Finora i turisti che hanno usato Airbnb per organizzare una vacanza sono più di 60 milioni nel mondo e gli alloggi che si contano sul sito hanno superato i due milioni, cioè quanto le camere di hotel delle catene Marriot, Hilton e Wyndham messe insieme. Ecco perché gli analisti prevedono che il fatturato globale di Airbnb raggiungerà i 6,1 miliardi di dollari entro il 2019 e il valore della società continua a moltiplicarsi ogni giorno che passa.
I tre fondatori tra i più ricchi del mondo
Airbnb è una storia di successo, non c'è dubbio. Una storia nata quasi per caso. Nell'ottobre del 2007 la Industrial Designers Society of America aveva organizzato una conferenza a San Francisco e tutte le camere di hotel erano occupate. Chesky e Gebbia condividevano in quel periodo un appartamento nella città californiana. Non navigavano nell'oro e decisero di cogliere l'occasione per affittare la loro abitazione. Acquistarono tre materassi ad aria e propagandarono la loro iniziativa come “Airbed and Breakfast”. Quella che offrivano era una sistemazione un po' all'acqua di rose ma già la prima notte i due ragazzi avevano convinto tre ospiti. Airbnb nacque così.
Un anno dopo, insieme a Nathan Blecharczyk, Chesky e Gebbia fondarono formalmente la web company e oggi i tre imprenditori posseggono ciascuno una fortuna personale di 3,3 miliardi di dollari, secondo la classifica 2016 stilata da Forbes.
Gigante del web ma un nano per il fisco
Ma allora, cosa c'entra un’automobile con Airbnb? Ancora qualche cifra per comprendere la dimensione del fenomeno. L'anno scorso il sito è stato utilizzato da 3,6 milioni di persone per viaggiare in Italia mentre altri 1,34 milioni di italiani hanno affittato abitazioni per viaggiare all'estero. I quasi 83mila proprietari di alloggi (gli host) che si sono serviti di Airbnb hanno guadagnato complessivamente 394 milioni di euro affittando la loro casa. Ma non basta. Per Airbnb l'Italia è il terzo paese al mondo per offerta di abitazioni, dopo Stati Uniti e Francia.
Eppure, il gigante del web resta un piccolissimo contribuente per il fisco. Ecco cosa c'entra l’Alfa Romeo. Perché con le imposte pagate nel 2015 dalla filiale italiana del colosso americano ci si può comprare una Giulia da 180 cavalli del valore di 44.500 euro più qualche optional. Una bella auto, certo, ma comunque soltanto una vettura. L'anno scorso Airbnb Italy Srl ha versato al Fisco italiano 45.775 euro di imposte sugli utili. Un paradosso rispetto alla sua irresistibile ascesa, verrebbe da dire. Ma in realtà è tutto regolare, almeno fino a prova contraria.
Dietro le quinte della società
Airbnb infatti, come tutte le web company, è un'esperta nell'arte dell'ottimizzazione fiscale. E così, quando paghiamo un alloggio per la meta delle nostre vacanze, una fetta di quell'importo vola immediatamente in Irlanda, paese dove la tassazione sugli utili societari è del 12,5%, molto più bassa di quella applicata in Italia e in moltissimi altri paesi. Non sappiamo, poi, se con il Fisco di Dublino Airbnb abbia firmato accordi di tax ruling sul tipo di quelli della Apple per abbattere ancora di più la pressione fiscale. Airbnb incassa una commissione del 3% dai proprietari sul valore dell'affitto e una quota variabile dal 6 al 12% (inversamente proporzionale alla durata del soggiorno) dagli ospiti: sono questi i soldi che finiscono nel paradiso fiscale che fa parte dell’Unione europea.
Tutto trasparente, però. Ai suoi clienti Airbnb specifica che il contratto viene stipulato con la società Airbnb Ireland per l'utilizzazione del sito e con Airbnb Payments Uk per quando riguarda i pagamenti. «Gli host di Airbnb – confermano dalla società – incassano il 97% del prezzo chiesto per l’affitto e questo introito è soggetto alla tassazione locale. Noi rispettiamo le leggi fiscali e paghiamo le tasse che dobbiamo nei luoghi dove realizziamo il business». Tutte le transazioni internazionali al di fuori degli Stati Uniti, aggiunge Airbnb, «sono elaborate attraverso Airbnb Payments Uk e Airbnb Ireland».
Ma allora a cosa serve la società italiana? Airbnb Italy si occupa, secondo il suo statuto, di «marketing per annunci relativi a locali, appartamenti o strutture ricettive per soggiorni turistici». E di nient'altro. Il suo fatturato nel 2015 è stato di appena 1,5 milioni di euro e l'utile netto di 63.150 euro, dopo aver pagato imposte per 45.775 euro. Il capitale sociale della società è di 10mila euro. Insomma, una piccola realtà. E questo perché il giro d'affari legato agli affitti degli appartamenti non passa attraverso la Srl italiana ma attraverso quella irlandese. Non è un caso, forse, che l'amministratore unico di Airbnb Italy, l'irlandese Eoin Michael Hession, sia anche amministratore di Airbnb Ireland e Airbnb Uk Limited.
I bilanci non sono pubblici
Ma quanto è grande il giro d'affari di Airbnb in Italia? La dimensione non è possibile conoscerla, perché la società capogruppo non è quotata e non ha l'obbligo di pubblicare i bilanci. Bisogna affidarsi a un calcolo molto indicativo per ricavare il fatturato della web company nel nostro paese. Partendo dai 394 milioni di euro guadagnati dagli host (i proprietari delle abitazioni) e calcolando le percentuali del 3% e del 6-12% richieste ai possessori degli appartamenti e ai turisti, si può arrivare a una cifra vicina ai 50 milioni di euro.
Sulla rotta Delaware-Irlanda-Jersey
Per lo stesso motivo non è semplice ricostruire la struttura societaria di Airbnb. Nonostante sia stato fondato in California, la sede legale del gruppo è nel piccolo stato del Delaware, scelto dalla maggior parte delle grandi società statunitensi grazie alla legislazione fiscale particolarmente favorevole.
La capogruppo è la Airbnb Inc., fondata il 27 giugno 2008 e domiciliata presso la Corporation Service Company (Csc) a Wilmington. Csc è un cosiddetto “agente residente” che provvede alla domiciliazione di migliaia di società. In questo stesso edificio aveva la sede anche la Buconero Llc, società della galassia di Calisto Tanzi all'epoca dello scandalo Parmalat.
Sempre a Wilmington hanno sede altre società del gruppo: la Airbnb Holding, la Airbnb 2015 Series E, la Airbnb Action, la Airbnb Payments Holding, la Airbnb Payments Inc. e la Airbnb Rpg.
Da Airbnb Inc. e Airbnb Holdings si dipanano le traiettorie verso tutte le altre società sparse nel mondo, in primo luogo le irlandesi Airbnb Ireland, Airbnb International e Airbnb Payments International. E' proprio a Dublino che arrivano le percentuali richieste agli host e ai viaggiatori. Dall'Italia all'Australia, tutti i paesi con l'eccezione degli Stati Uniti convogliano qui tutti i pagamenti.
«Dublino è il nostro hub internazionale – specifica la società – e la nostra seconda sede più grande nel mondo. Vi è allocato uno staff di 500 persone, la maggior parte delle nostre funzioni di core business e alcuni senior executive. Nell’ultima decade – aggiunge Airbnb – l’Irlanda ha costruito una reputazione globale nel settore delle tecnologie ed è la sede di molte delle più grandi società tecnologiche del mondo».
Nella struttura societaria di Airbnb non è chiaro invece quale sia il ruolo di tre società domiciliate nel paradiso fiscale di Jersey, isola del Canale della Manica che costituisce il giardino di casa della City di Londra. A Saint Helier, capitale di Jersey, nel 2013 Airbnb ha registrato tre società: la Airbnb International Holdings Limited (controllata interamente dalla Airbnb Inc. del Delaware e con un capitale sociale di 89 milioni di dollari), la Airbnb 1 Unlimited e la Airbnb 2 Unlimited. E' possibile che le entità di Jersey abbiano un ruolo negli schemi fiscali per abbassare ulteriormente l'imposizione della società. Infine, nel registro delle Isole Cayman figura una società denominata Airbnb China Holdings. Impossibile sapere di cosa si occupi.
Alle domande inviate dal Sole 24 Ore ad Airbnb circa la struttura societaria nel Delaware, in Irlanda, a Jersey e nelle Cayman, la società ha preferito non rispondere motivando la decisione con problemi di riservatezza delle informazioni. Stessa risposta per quanto riguarda il giro d’affari in Italia: «Essendo una società privata, non comunichiamo i dati del fatturato», hanno risposto dal quartier generale di Airbnb. Silenzio totale, insomma, sulla presenza della web company nei paradisi fiscali di mezzo mondo e sulle vere cifre degli utili e del giro d’affari.
Una cosa, però, i manager della società tengono a specificare: «Airbnb ha raccolto e consegnato alle autorità fiscali più di 110 milioni di tasse di soggiorno per conto di più di 200 giurisdizioni nel mondo».
Valutazioni da record
Secondo il Wall Street Journal nel 2015 Airbnb non è ancora riuscita a fare utili. Lo sforzo finanziario per espandersi fa sì che la perdita operativa dovrebbe essersi attestata a 150 milioni di dollari. Eppure gli investitori scommettono con decisione sulla società. Ad agosto Airbnb ha comunicato allo stato del Delaware di avere intenzione di raccogliere 850 milioni di dollari di capitale, dopo avere già ottenuto un miliardo di dollari da un gruppo di banche composto da Jp Morgan, Citigroup, Bank of America e Morgan Stanley. La valutazione della società è così balzata a 30 miliardi di dollari sull'onda del successo della sharing economy che – secondo una ricerca di Pwc – raggiungerà nel 2025 una dimensione potenziale di 335 miliardi di dollari. Una fetta di quei soldi saranno di Airbnb e continueranno a fare lo slalom tra i paradisi fiscali di mezzo mondo. Passando, ovviamente, dalla solita Irlanda.
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Per cercare i paradisi fiscali basta andare al supermarket
Angelo Mincuzzi
I paradisi fiscali? Pensiamo davvero che siano soltanto delle isolette sperdute in luoghi esotici lontani anni luce dalla nostra vita quotidiana? Siamo davvero convinti che la loro esistenza non ci riguardi? Niente di più sbagliato. È strano accorgersi che siamo noi stessi a ingigantire quel grande fiume di denaro che scompare dal nostro paese per riapparire tra le sabbie bianche delle Bermuda e delle Cayman o tra le colline del Lussemburgo e quelle del Liechtenstein. Sì, siamo complici anche noi dei grandi business dell’evasione e dell’elusione fiscale. Siamo coinvolti e non lo sappiamo. E vi partecipiamo perché, in fondo, non abbiamo alternative.
Da quando apriamo gli occhi la mattina e accendiamo il nostro smartphone fino a quando andiamo a dormire, ogni ora, ogni minuto della nostra giornata sono un piccolo contributo alla ricchezza dei paradisi fiscali. Cinquanta centesimi, un euro o dieci alla volta, i nostri soldi prendono anch’essi la strada di luoghi lontani, mescolandosi con quelli dei veri evasori fiscali. Volano verso paesi che non hanno nulla a che fare con noi. Almeno così immaginiamo. Ma ci sbagliamo. E di grosso.
Evasioni quotidiane
Prendiamo un sabato tra i tanti della nostra vita. Approfittiamo del bel tempo e decidiamo di fare una corsa nel parco più vicino o sul lungomare della nostra città. Indossiamo maglietta e pantaloncini e le nostre scarpe Nike appena acquistate. Sono le sette del mattino e siamo già entrati, nostro malgrado, nel grande tourbillon dei paradisi fiscali. I soldi spesi per le scarpe da jogging sono andati ad alimentare gli 8,3 miliardi di dollari di utili che il gigante dell’abbigliamento sportivo ha parcheggiato fuori dai confini degli Stati Uniti per non versare al fisco Usa 2,7 miliardi di imposte. Tutto regolare, per carità. Nessuna legge è stata violata e nessuno potrà mai contestare qualcosa alla società. Ma per evitare di pagare il 35% di imposte sugli utili previsti dalle leggi degli Stati Uniti, Nike ha trasferito la proprietà di alcuni dei suoi marchi a tre società domiciliate alle Bermuda e ha deciso di lasciare lì gran parte dei suoi profitti. Ecco cosa c’entrano i paradisi fiscali con un paio di semplici scarpe.
Le Bermuda sono una delle più vecchie e solide giurisdizioni segrete del mondo, utilizzate da decenni per pagare meno tasse. Ma non ci sono solo le isole dei Caraibi tra le mete preferite del brand statunitense. I soldi che abbiamo pagato per le scarpe, infatti, vengono risucchiati in un complicato giro di società che servono alla Nike per completare quella che gli esperti definiscono l’«ottimizzazione fiscale». Il gruppo Usa possiede numerose società controllate in altri paradisi fiscali: 14 nel Delaware, 8 a Hong Kong, 38 in Olanda, una a Panama, 3 a Singapore e una in Svizzera. Possiamo ancora pensare che i paradisi fiscali siano qualcosa di estraneo alla nostra vita?
Quanto le grandi multinazionali americane siano presenti nelle giurisdizioni segrete di tutto il mondo lo spiega un rapporto stilato dall’organizzazione non governativa Citizen for tax justice (Ctj) e da U.S. Pirg Educational Fund, dal titolo Offshore shell games 2015. Gli esperti delle due organizzazioni hanno calcolato che le società Usa che fanno parte della lista Fortune 500 (la classifica che raggruppa le 500 maggiori compagnie statunitensi) hanno parcheggiato nei paradisi fiscali più di 2,1 trilioni di dollari (pari a 2.100 miliardi di dollari) per evitare di pagare circa 90 miliardi di dollari di imposte federali. Delle 500 società, ben 358 possiedono in totale 7.622 filiali in paradisi fiscali dove non hanno impianti di produzione e dunque non avrebbero nessun motivo di essere presenti.
Quanti “paradisi” al supermarket
Ma torniamo al nostro sabato qualunque. Il supermercato dietro l’angolo di casa è un insospettabile avamposto dei più famosi paradisi fiscali del mondo. Acquistiamo una lattina di Coca Cola (33,3 miliardi di dollari parcheggiati offshore dal gruppo di Atlanta e filiali nelle Isole Cayman, Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Singapore) e per par condicio anche una di Pepsi (37,8 miliardi di dollari di utili nelle giurisdizioni segrete e filiali alle Bermuda, Barbados, Cayman, Gibilterra, Liechtenstein, Panama e altro ancora). Coca Cola e Pepsi Cola fanno parte anche delle oltre 350 società che hanno firmato accordi fiscali con il Lussemburgo per ridurre drasticamente, o annullare, le imposte da versare. Lo scandalo LuxLeaks è esploso alla fine del 2014 quando un dipendente della PriceWaterhouseCoopers (Pwc), Antoine Deltour, ha rivelato l’esistenza degli accordi segreti dopo aver prelevato migliaia di documenti, poi consegnati al Consorzio internazionale giornalisti investigativi (lo stesso dei Panama Papers).
Sebbene sia uno dei paesi fondatori dell’Unione europea e il suo ex primo ministro, Jean Claude Juncker, sia l’attuale presidente della Commissione Ue, il Lussemburgo è un vero paradiso per le società di tutto il mondo, proprio a causa della bassa imposizione e degli accordi di tax ruling che ne abbassano ulteriormente l’aliquota fiscale.
Nel carrello della spesa riponiamo anche una confezione di tonno Rio Mare, una scatola di detersivo Omino Bianco e un flacone di sapone liquido Neutro Roberts. Ottimi prodotti, tutti brand del gruppo Bolton, anch’esso coinvolto nell’affaire LuxLeaks in Lussemburgo.
Aggiungiamo un tubetto di dentrifricio AZ, dei rasoi Gillette, uno shampoo Pantene, una confezione di pile Duracell e delle patatine Pringles. Si tratta di prodotti della multinazionale americana Procter & Gamble, che al di fuori degli Stati Uniti ha momentaneamente parcheggiato 45 miliardi di dollari di profitti e possiede filiali a Panama, Singapore, Svizzera, Olanda, Lussemburgo, Hong Kong, Costa Rica e Irlanda. Si può fare il giro del mondo se ci si sposta tra i paradisi fiscali in cui la multinazionale è presente, ma del resto Procter & Gamble è una delle più grandi aziende del globo.
Alla cassa paghiamo con una carta di credito: Visa, Mastercard o American Express non fa nessuna differenza. Con tutte e tre possiamo sentirci parte del grande business dell’elusione fiscale che – è bene ricordarlo – è del tutto legale. Visa ha 5 miliardi di dollari offshore e una filiale a Singapore; Mastercard ha 3,3 miliardi all’estero e filiali in Olanda e Singapore; American Express possiede 9,7 miliardi offshore e filiali nelle Channel Islands, Antille Olandesi, Lussemburgo e Hong Kong.
Il web regno dell’elusione
Sprofondati nel divano di casa, utilizziamo adesso il nostro iPhone o iPad per navigare un po’ sul web. Siamo al top del nostro obolo regalato ai paradisi fiscali. Apple, che produce gli iPhone e gli iPad, ha parcheggiato in territori offshore ben 181,1 miliardi di dollari. È il quantitativo più alto tra le 500 società della classifica di Fortune. Se rimpatriasse negli Stati Uniti questi utili dovrebbe pagare circa 60 miliardi di dollari di imposte, invece del 2,3% che versa ai paesi nei quali ha domiciliato le società. Sanzionata dall’Unione europea per gli accordi fiscali con l’Irlanda, in Italia Apple ha raggiunto un accordo con l’Agenzia delle Entrate per porre fine a un contenzioso sul mancato versamento di 879 milioni di euro di imposte e ha pagato 318 milioni di euro alla fine dello scorso anno. Gli utili ottenuti dalle vendite in Italia finivano in Irlanda, dove l’imposizione fiscale è molto più bassa. Ma il Fisco e la procura di Milano hanno posto fine a questo stratagemma.
Proseguiamo la nostra navigazione su Internet e apriamo la pagina di Google per aiutarci nella ricerca. Se si utilizza il web è impossibile sfuggire alla rete dei paradisi fiscali. Tutte le grandi web companies utilizzano architetture societarie offshore per eludere le imposte. Google si serve di due meccanismi per pagare le tasse dove è più vantaggioso invece che nei paesi nei quali produce reddito. Gli schemi si chiamano “Double Irish” e “Dutch sandwich” e prevedono che i soldi incamerati in Italia (così come negli altri paesi extra-Usa) finiscano in Irlanda passando attraverso l’Olanda e terminino la corsa sulle spiagge delle Bermuda. In questo modo Google ha accumulato 47,7 miliardi di dollari che restano fermi nel paradiso fiscale dei Caraibi. È il motivo che ha spinto la procura di Milano a contestare alla società di Mountain View 227 milioni di euro di imposta evasa, tutti soldi finiti alle Bermuda e che invece dovevano rimanere in Italia, almeno secondo i magistrati e la Guardia di Finanza di Milano.
Decidiamo allora di ordinare un libro su Amazon, società che ha parcheggiato offshore “solo” 2,5 miliardi di dollari ma controlla due filiali in Lussemburgo verso le quali si dirigono i soldi pagati per l'acquisto del volume. Niente resta in Italia. I nostri soldi varcano in un lampo il confine nazionale e riaffiorano mille chilometri più a Nord. Con loro sfuma anche un lauto incasso per il Fisco italiano e, dunque, la possibilità di aumentare le risorse da impiegare per opere pubbliche e welfare, cioè per il nostro benessere.
I centri offshore sono entrati nella nostra vita
Sul sito di Ikea, invece, cerchiamo delle sedie per la nostra casa e senza saperlo ci addentriamo in un ginepraio di società sparse in svariati paradisi fiscali. In Belgio, nel comune fiammingo di Zaventem, c’è la sede sociale della società anonima Ikea Service Center, che nel 2013 ha ottenuto un tasso di imposizione degli utili solo del 4%. Ikea Service Center è la banca interna del gruppo, collegata alla Ingka Holding (la casa-madre di Ikea) e alla Inter Ikea Service (detentrice del marchio), entrambe domiciliate in Olanda, e alla Inter Ikea Holding (che distribuisce gli utili generati dal marchio alla famiglia del fondatore Ingvar Kamprad) impiantata nel granducato del Lussemburgo fino al 3 maggio 2016, quando si è trasferita in Svizzera, a Freienbach. Nel 2009 la Ikea Holding International era volata addirittura a Curacao, nelle ex Antille Olandesi.
I paradisi fiscali sono entrati di prepotenza nella nostra vita, anche se noi non ce ne siamo accorti. Le giurisdizioni offshore non sono un’anomalia del sistema ma ne costituiscono una parte fondamentale. Per questo non è per nulla certo che gli sforzi dei paesi del G20 e dell’Ocse per ridimensionare il fenomeno abbiano successo. Le giurisdizioni offshore, infatti, prosperano non solo grazie all’elusione fiscale ma anche e soprattutto all’evasione fiscale. Si calcola che nei centri offshore possano essere custodite ricchezze finanziarie per 32mila miliardi di dollari. Interessi enormi che hanno bisogno dei paradisi fiscali e che cercano sempre nuovi canali di sbocco. «I soldi sono come l’acqua – ha affermato l’ex ministro delle Finanze svizzero, Hans Rudolf Mertz – : trovano sempre una fessura in cui scorrere. Ecco perché l'evasione fiscale continuerà a esistere in futuro».
Decidiamo di chiudere la connessione con Internet e andiamo a dormire con un po’ di mal di testa per via del nostro slalom tra i paradisi fiscali di mezzo mondo. Una compressa di Efferalgan ci aiuterà ad assopirci tranquilli. Ne siamo certi? Sì, ma a patto che nessuno ci riveli che la Bristol-Myers Squibb, la società che produce il farmaco, possiede anche lei filiali alle Barbados, alle Bermuda, a Panama, in Irlanda, Olanda e Lussemburgo. E che offshore ha parcheggiato ben 24 miliardi di dollari. Neppure le medicine riescono a calmare la febbre dei paradisi fiscali.
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