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02/11/2017

Ricordare pensare agire: 100 anni di Rivoluzione

Questo fine settimana si concluderanno le nostre celebrazioni del centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Un ricordo inevitabile e necessario, che è proseguito lungo due linee guida: da una parte, organizzando iniziative specifiche sull’Ottobre – assemblee, art work, dibattiti, lavori editoriali, manifesti, scritte, striscioni; dall’altra, cercando di far vivere il senso della Rivoluzione dentro la nostra attività politica quotidiana. Un tentativo oggi maledettamente difficile vista la profonda inattualità che subisce l’idea stessa di rivoluzione, di cambiamento, di rottura. Sono d’altronde questi i tempi che ci sono stati dati in sorte, e se il presente ha assunto l’aspetto della distopia reazionaria è anche responsabilità nostra. In questo anno si sono accavallati multiformi ricordi della Rivoluzione. Ognuno, inevitabilmente, ha rievocato il suo modo di intendere l’evento centrale del XX secolo. La politica e il giornalismo liberale, forti dello scampato pericolo, ne hanno celebrato la distanza storica ormai (apparentemente) incolmabile, tirando il classico sospiro di sollievo, lasciandosi anzi andare alle concessioni tipiche di chi sa di non avere più niente da temere. La cultura e la politica ancora comunista si è al contrario adeguata all’anniversario inaggirabile. Purtroppo, nel nostro come negli altri casi, si è trattato di celebrare un evento storico disattivato. Il senso della Rivoluzione, ovviamente, vive nelle lotte di classe e non nelle mummificazioni celebrative. Eppure andava celebrata, fosse solo per ostinazione. In tal senso, oltre che invitare tutti a passarci a trovare questo fine settimana, pubblichiamo qui di seguito l’introduzione che il Comitato per le celebrazioni dell’Ottobre ha scritto per la ripubblicazione del piccolo capolavoro di Lukács, Lenin. Un testo, tra i tanti, fuoriuscito dai radar dell’interesse militante, e tuttavia proprio per questo utile a chiarire il significato storico-politico dell’azione di Lenin nella Rivoluzione. Buona lettura.

Quando Lukács scrive questo breve opuscolo Lenin è morto da pochi mesi. Nello stesso tempo, all’interno della direzione del partito russo e dell’Internazionale, si è aperta una ricca e dura discussione sulla fase politica, che ratificherà la nuova linea al V Congresso dell’IC del giugno-luglio 1924. Congresso che sancisce una prima riflessione e bilancio sugli anni che avevano portato l’ondata rivoluzionaria ad avvicinarsi allo sfondamento verso ovest, in particolare nella strategica Germania. Erano tempi durissimi: l’Europa, con lo scoppio della guerra mondiale, aveva subito un profondo mutamento che ne aveva stravolto il corso della storia, condotto a una nuova epoca, in cui la tragedia e la speranza di un cambiamento produssero la grande ondata rivoluzionaria del ‘17. Le masse irruppero nel palcoscenico della storia nella forma tragica del più grande e inedito massacro possibile, con decine di milioni di morti sui campi di battaglia, detonatore della rottura rivoluzionaria in Russia e della prima ondata rivoluzionaria che percorrerà buona parte del Novecento. Gli anni che vanno dal 1917 al 1924 sono costellati di tentativi rivoluzionari nell’Europa centrale, e la Germania svolgerà un ruolo strategico in questa storia. Il peso specifico di questo paese era d’altronde centrale, sia come potenza imperialista, protagonista insieme all’Inghilterra e alla Francia della lotta per l’egemonia continentale, sia conosciuta e temuta per la grande storia del movimento socialdemocratico, della sua forza organizzativa, della macchina sociale e amministrativa del movimento operaio cresciuto negli anni prebellici nella tragica illusione di un progressivo avanzamento pacifico verso il potere politico.
Gli anni della grande guerra imperialista cambiano anche il corso del movimento socialista internazionale, lo fanno uscire, almeno in parte, dal ruolo messianico-positivista di una visione fideistica e contemplativa del socialismo e della rivoluzione per trovarsi di fronte alla durezza politica ed etica della guerra rivoluzionaria, delle scelte difficili e dell’impostazione del partito come avanguardia organizzata anche militare del proletariato. Non fu un passaggio indolore: condusse, questo travolgimento, il movimento socialista a una scissione profonda, incolmabile, e parzialmente recuperata soltanto negli anni ‘30 con la linea del fronte popolare contro il fascismo. Ma cosa avviene negli anni 1917-1924?

La dialettica rivoluzione/controrivoluzione si fa materiale contrapposizione, necessità militare: il partito bolscevico e l’Internazionale comunista creano un nuovo modello di partito, che si riassume nelle ventuno condizioni per l’appartenenza all’IC, un partito fortemente centralizzato, un partito che in quei tempi nasce nel fuoco della necessità rivoluzionaria, un partito anche militare, che si emancipa e in parte opera una frattura profonda con la tradizione socialdemocratica, rottura che non è mai tale fino in fondo, perché in qualche modo la tensione verso il fronte dal basso con il movimento operaio occidentale rimane una necessità dettata dalla lotta al fascismo. Il “fare come in Russia” accende le speranze e gli animi di importanti pezzi del proletariato soprattutto nell’Europa centrale, e lo sfaldamento della Germania imperiale, con la resa del Kaiser e il fallimento dello Stato, scatenano le giornate del novembre 1918, che segnano la fine della Germania guglielmina, nata sulle ceneri della vittoria del 1870 contro la Francia. Muore il secondo Reich ma non certo il mondo militarista e reazionario che fin dagli inizi reagirà alla nascente Repubblica di Weimar, anzi: in accordo con il partito socialdemocratico si farà mano armata contro il proletariato rivoluzionario berlinese. Saranno infatti i Freikorps e le forze della polizia capeggiate dai socialdemocratici a reprimere duramente il moto spartachista del gennaio 1919, sedato nel sangue, con l’assassinio dei due massimi dirigenti del movimento, Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht. Sono mesi in cui la rivoluzione in Occidente, a partire dalla Germania, sembra possibile, anzi addirittura a portata di mano. Nel marzo 1919 si fonda la Terza Internazionale a Mosca per dirigere e organizzare partiti comunisti in grado di raccogliere le forze migliori del proletariato per “fare il ‘17” in ogni paese. In Ungheria, mentre apre i battenti il Comintern, un fronte socialista-comunista guida la breve esperienza rivoluzionaria dei Consigli (marzo-agosto 1919), di cui Lukacs fu Commissario del popolo all’istruzione. Brevissima appendice rivoluzionaria che verrà sconfitta dalla controffensiva militare delle truppe rumene e dalla reazione della grande proprietà agraria ungherese. In Germania tra il 1919 al 1923 assistiamo a un susseguirsi di insurrezioni tutte destinate a breve vita, perché il movimento comunista non seppe guadagnare alla rivoluzione la parte maggioritaria della classe operaia e delle masse urbane. Nel 1924, allora, il primo esperimento socialista della storia, dopo sette anni di guerra civile interna e di assedio internazionale promosso dalla comunità dei paesi capitalisti, fa i conti con una situazione ambivalente. Intanto la rivoluzione, che in diverse occasioni nei lunghi anni della guerra civile aveva rischiato di essere sconfitta, usciva definitivamente dalla fase emergenziale, della guerra aperta con il nemico interno ed esterno, dando vita alla costruzione di stabili istituzioni di potere socialista. Processo che necessitava del recupero delle strutture economiche e produttive nazionali, in larghissima parte andate perse con la guerra mondiale e con la rivoluzione, ristabilendo le condizioni minime di scambio e di rivitalizzazione della vita pubblica e del commercio. Dallo stato di eccezione alla costruzione. Andava imboccata con molta determinazione e soprattutto con la mobilitazione delle masse popolari urbane e contadine la strada della costruzione socialista anche in mancanza dell’esplosione rivoluzionaria, tanto cercata e desiderata, in Occidente. Nel partito bolscevico e nell’IC ciò aprì una discussione profonda e molto dura sulla strada che dovesse prendere la Russia e il movimento comunista internazionale, ma una cosa era abbastanza chiara: nell’anno della morte di Lenin, il socialismo in Urss avrebbe dovuto da quel momento contare sulle proprie forze, senza l’appoggio – considerato decisivo – del proletariato occidentale. La vittoria sovietica del ‘17 e la mancata rivoluzione in Germania da una parte testimoniavano che si viveva in una fase storica rivoluzionaria, di grandi cambiamenti, in cui le masse erano in grado, se ben dirette, di prendere il potere e gestirlo in una forma nuova, popolare e socialista; dall’altra che la fase politica contingente non permetteva in Europa di procedere come in Russia. E’ in tale contesto che prende forma la riflessione lukacsiana su Lenin come esempio vivente di una prassi rivoluzionaria che sapesse “andare oltre” le sempre meno efficaci dispute teoriche del socialismo internazionale.

Davvero particolare la storia di questo breve saggio politico-filosofico. Scritto nel 1924, vede la sua prima edizione italiana nel 1970 a cura di Einaudi. Perché questo oblio? E perché un’edizione proprio nel 1970? Non si tratta di due coincidenze. Quasi cinquant’anni di silenzio editoriale attestano l’accusa di soggettivismo e idealismo che Lukács dovette subire nel dibattito comunista in seno alla Terza internazionale. Questo Lenin è la diretta filiazione della svolta marxista del filosofo ungherese avvenuta in Storia e coscienza di classe. Perché cinquant’anni dopo si avverte il bisogno di pubblicare questo saggio misconosciuto al lettore italiano? Perché risponde ad un’esigenza politica, quella di una Nuova sinistra alla ricerca di nessi teorici a cui ancorare la propria prassi rivoluzionaria slegandola, al tempo, dal copyright comunista “ufficiale”. Le condanne del ’24 si trasformano in pregi agli occhi dei militanti comunisti degli anni Settanta. Il soggettivismo esplicito del Lenin bene si accorda con l’impazienza rivoluzionaria che non ammette perdite di tempo. E’ la stessa urgenza rivendicata da Lukács nel vortice degli anni Venti, in cui la rivoluzione appare a portata di mano anche nell’Occidente capitalista, in cui i tentativi di assalto al cielo si susseguono repentinamente, fagocitando ogni approccio “inutile” all’immediata presa del potere. La fine del protagonismo rivoluzionario dei gruppi della Nuova sinistra trascinerà con sé anche l’interesse per questo libro. Editato nel ’70, rieditato nel 1976, sparirà velocemente dalle librerie e dall’attenzione della politica. Più di quarant’anni dopo, ecco ricomparire il fantasma del Lenin, finalmente in una nuova veste editoriale. Ma se allora in gioco c’era l’attualità della rivoluzione – tanto nel 1924 quanto nel 1970 – a cosa serve oggi un saggio come questo? Nell’epoca della massima inattualità rivoluzionaria, dove il futuro è annichilito dal distacco post-moderno, dove risiede l’utilità nel ripubblicare questo fondamentale pamphlet rivoluzionario? Non è certo facile rispondere a questa domanda. Liberare dalle secche della filosofia un testo come questo, renderlo funzionale a un discorso politico, è cosa facile a dirsi ma complicata a prodursi.

L’obiettivo del filosofo ungherese è la trasmissione di un metodo. Attraverso Lenin Lukács vuole difendere l’ortodossia di un metodo che è il vero lascito del marxismo una volta liberato dagli opportunismi sedimentati nel dibattito politico comunista. Questo metodo è la dialettica materialista, e la figura di Lenin incarna la sintesi più avanzata tra la teoria e la prassi, proprio perché questo legame, nel rivoluzionario russo, assume una forma essenzialmente simbiotica: non c’è un prima e un dopo, una relazione causale, una determinazione dell’una nell’altra. Teoria e prassi sono la stessa cosa, lo stesso momento della dialettica materialista. Dice infatti Lukács che «per i marxisti l’analisi concreta della situazione concreta non contraddice affatto alla “pura” teoria, al contrario essa è il culmine della vera teoria, il punto in cui le esigenze della teoria sono veramente soddisfatte e dove quindi essa si traduce nella prassi». La qual cosa è, con ogni evidenza, un problema decisamente attuale. Vulgata vuole infatti che la realtà “costringa” la teoria (“pura”) ad essere piegata alle esigenze del realismo, a macchiarsi nella quotidianità. Di qui la narrazione interessata di un Lenin vittima dell’approccio “realpolitico”, successivamente incancrenito dallo stalinismo e, in Italia, dal togliattismo, in una spirale regressivamente sempre più distante dalla rivoluzione e dal marxismo propriamente detto. Lukács, sulla scorta dell’operato di Lenin, ribalta i termini della questione, affermando che l’unica teoria efficace è quella che può tradursi in prassi politica. Ogni teoria che non incida sulla realtà, che si limiti a sopravvivere nei breviari dottrinari, non è vera teoria, men che meno afferente alla rivoluzione. Detto altrimenti, «il realismo di Lenin, la sua “Realpolitik” rappresenta quindi la liquidazione definitiva di ogni forma di utopismo, la realizzazione concreta del contenuto del programma di Marx: quello di produrre una teoria fattasi pratica, una teoria della prassi». L’utopia è così la negazione del leninismo.

Questo passaggio è ancora oggi decisivo, perché viviamo in un tempo in cui nel campo della sinistra non più “rivoluzionaria”, ma comunque antagonista, sopravvivono due sole opzioni: da una parte la scelta di chi, abbandonando il sogno della rivoluzione, ha espunto dal proprio seno l’idea stessa dell’alternativa al capitalismo, sfruttando il realismo dei rapporti politici ma arrendendosi all’univocità del presente; dall’altra l’approccio di tutti coloro che, ultimi difensori dell’opzione rivoluzionaria, la rinchiudono nella gabbia dell’utopia, anestetizzando ogni possibilità concreta di far intercedere il proprio proposito rivoluzionario con la realtà dei rapporti di forza, limitandosi così a testimoniare un punto di vista senza alcuna possibilità concreta di realizzazione. Eppure, viviamo in tempi di crisi generale che favorirebbero alternative di civiltà al capitalismo nella sua fase neoliberale. Per dirla con Lenin, «la rivoluzione non è possibile senza una crisi che coinvolga tutta la nazione, e che coinvolga tanto gli sfruttati che gli sfruttatori». Viviamo da un decennio una di queste crisi generali prodotte dal capitalismo, senza gli eccessi drammatici della Prima guerra mondiale, ma senza neanche le possibilità di recupero date dal riformismo redistributivo della seconda metà del Novecento. Il disincanto popolare è completamente trasversale tanto nei proletari quanto in quelle ampie fasce piccolo-borghesi attaccate in passato alle briciole del potere economico dominante. Viviamo in una fase in cui, sempre secondo Lenin, «gli strati inferiori non vogliono più vivere come prima, e gli strati superiori non possono più vivere come prima». Nonostante ciò, mai come oggi si avverte l’assenza di qualsiasi alternativa materiale al modello produttivo e ideologico egemone. Sintomo questo della mancanza di una teoria rivoluzionaria, che si traduca simbioticamente in una prassi rivoluzionaria.

Il Lenin di Lukács non è allora importante come “pensatore”, come teorico della rivoluzione o dell’imperialismo, ma come attore in grado di elaborare una teoria incatenata alla realtà specifica in cui si trova ad operare. Un filosofo della prassi, capace di restituire il marxismo alla sua natura più intima, quella di un pensiero in grado di abbattere lo stato di cose presenti, non solo di “interpretare” lo spirito dei tempi. Questo è esattamente un problema attuale, nonostante l’inattualità della rivoluzione oggi in Occidente. Il tentativo lukacsiano di ancorare il metodo dialettico all’analisi marxista è ancora oggi, ci sembra, insuperato, e può racchiudersi nel proposito leniniano: ogni verità si trasforma in errore non appena la si esageri oltre misura. La ricerca della verità è implicita alla natura dell’uomo, ma le verità della politica sono sempre parziali e contingenti.

Tutto di questo libro ci parla di un mondo che non c’è più e che difficilmente si riprodurrà nelle forme in cui si è sviluppato nel Novecento. L’assalto al cielo assumerà in futuro configurazioni differenti, determinate dalla realtà concreta in cui i soggetti rivoluzionari sapranno giocarsi la propria partita. Ma il metodo che trova esplicazione in questo decisivo saggio sulla rivoluzione, quello rimarrà invariato, perché sarà unicamente attraverso questo che l’organizzazione comunista del futuro saprà creare le condizioni della rivoluzione e farsi trovare pronta all’appuntamento con la storia. Conclude Lukács nella sua postilla all’edizione italiana del 1970: «al di là dell’importanza dei suoi atti e delle sue opere, la figura di Lenin è l’incarnazione del continuo “essere preparati”». «L’essere pronti è tutto», sentenzia l’Amleto shakespeariano. Ed è questa la lezione storica di Lenin e del leninismo: lavorare alla costruzione dell’occasione rivoluzionaria e saperla cogliere nell’esatto momento in cui questa può essere colta. Questa l’unica ortodossia del leninismo propriamente inteso.

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