Questo fine settimana si concluderanno le nostre celebrazioni del
centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Un ricordo inevitabile e
necessario, che è proseguito lungo due linee guida: da una parte,
organizzando iniziative specifiche sull’Ottobre – assemblee, art work,
dibattiti, lavori editoriali, manifesti, scritte, striscioni;
dall’altra, cercando di far vivere il senso della Rivoluzione dentro la
nostra attività politica quotidiana. Un tentativo oggi maledettamente
difficile vista la profonda inattualità che subisce l’idea stessa di
rivoluzione, di cambiamento, di rottura. Sono d’altronde questi i tempi
che ci sono stati dati in sorte, e se il presente ha assunto l’aspetto
della distopia reazionaria è anche responsabilità nostra. In questo anno
si sono accavallati multiformi ricordi della Rivoluzione. Ognuno,
inevitabilmente, ha rievocato il suo modo di intendere l’evento centrale
del XX secolo. La politica e il giornalismo liberale, forti dello
scampato pericolo, ne hanno celebrato la distanza storica ormai
(apparentemente) incolmabile, tirando il classico sospiro di sollievo,
lasciandosi anzi andare alle concessioni tipiche di chi sa di non avere
più niente da temere. La cultura e la politica ancora comunista si è al
contrario adeguata all’anniversario inaggirabile. Purtroppo, nel nostro
come negli altri casi, si è trattato di celebrare un evento storico
disattivato. Il senso della Rivoluzione, ovviamente, vive nelle lotte di
classe e non nelle mummificazioni celebrative. Eppure andava celebrata,
fosse solo per ostinazione. In tal senso, oltre che invitare tutti a
passarci a trovare questo fine settimana, pubblichiamo qui di seguito
l’introduzione che il Comitato per le celebrazioni dell’Ottobre ha
scritto per la ripubblicazione del piccolo capolavoro di Lukács, Lenin.
Un testo, tra i tanti, fuoriuscito dai radar dell’interesse militante, e
tuttavia proprio per questo utile a chiarire il significato
storico-politico dell’azione di Lenin nella Rivoluzione. Buona lettura.
Quando Lukács scrive questo breve opuscolo Lenin è morto da pochi
mesi. Nello stesso tempo, all’interno della direzione del partito russo e
dell’Internazionale, si è aperta una ricca e dura discussione sulla
fase politica, che ratificherà la nuova linea al V Congresso dell’IC del
giugno-luglio 1924. Congresso che sancisce una prima riflessione e
bilancio sugli anni che avevano portato l’ondata rivoluzionaria ad
avvicinarsi allo sfondamento verso ovest, in particolare nella
strategica Germania. Erano tempi durissimi: l’Europa, con lo scoppio
della guerra mondiale, aveva subito un profondo mutamento che ne aveva
stravolto il corso della storia, condotto a una nuova epoca, in cui la
tragedia e la speranza di un cambiamento produssero la grande ondata
rivoluzionaria del ‘17. Le masse irruppero nel palcoscenico della storia
nella forma tragica del più grande e inedito massacro possibile, con
decine di milioni di morti sui campi di battaglia, detonatore della
rottura rivoluzionaria in Russia e della prima ondata rivoluzionaria che
percorrerà buona parte del Novecento. Gli anni che vanno dal 1917 al
1924 sono costellati di tentativi rivoluzionari nell’Europa centrale, e
la Germania svolgerà un ruolo strategico in questa storia. Il peso
specifico di questo paese era d’altronde centrale, sia come potenza
imperialista, protagonista insieme all’Inghilterra e alla Francia della
lotta per l’egemonia continentale, sia conosciuta e temuta per la grande
storia del movimento socialdemocratico, della sua forza organizzativa,
della macchina sociale e amministrativa del movimento operaio cresciuto
negli anni prebellici nella tragica illusione di un progressivo
avanzamento pacifico verso il potere politico.
Gli anni della grande guerra imperialista cambiano anche il corso del
movimento socialista internazionale, lo fanno uscire, almeno in parte,
dal ruolo messianico-positivista di una visione fideistica e
contemplativa del socialismo e della rivoluzione per trovarsi di fronte
alla durezza politica ed etica della guerra rivoluzionaria, delle scelte
difficili e dell’impostazione del partito come avanguardia organizzata
anche militare del proletariato. Non fu un passaggio indolore: condusse,
questo travolgimento, il movimento socialista a una scissione profonda,
incolmabile, e parzialmente recuperata soltanto negli anni ‘30 con la
linea del fronte popolare contro il fascismo. Ma cosa avviene negli anni
1917-1924?
La dialettica rivoluzione/controrivoluzione si fa materiale
contrapposizione, necessità militare: il partito bolscevico e
l’Internazionale comunista creano un nuovo modello di partito, che si
riassume nelle ventuno condizioni per l’appartenenza all’IC, un partito
fortemente centralizzato, un partito che in quei tempi nasce nel fuoco
della necessità rivoluzionaria, un partito anche militare, che si
emancipa e in parte opera una frattura profonda con la tradizione
socialdemocratica, rottura che non è mai tale fino in fondo, perché in
qualche modo la tensione verso il fronte dal basso con il movimento
operaio occidentale rimane una necessità dettata dalla lotta al
fascismo. Il “fare come in Russia” accende le speranze e gli animi di
importanti pezzi del proletariato soprattutto nell’Europa centrale, e lo
sfaldamento della Germania imperiale, con la resa del Kaiser e il
fallimento dello Stato, scatenano le giornate del novembre 1918, che
segnano la fine della Germania guglielmina, nata sulle ceneri della
vittoria del 1870 contro la Francia. Muore il secondo Reich ma non certo
il mondo militarista e reazionario che fin dagli inizi reagirà alla
nascente Repubblica di Weimar, anzi: in accordo con il partito
socialdemocratico si farà mano armata contro il proletariato
rivoluzionario berlinese. Saranno infatti i Freikorps e le
forze della polizia capeggiate dai socialdemocratici a reprimere
duramente il moto spartachista del gennaio 1919, sedato nel sangue, con
l’assassinio dei due massimi dirigenti del movimento, Rosa Luxemburg e
Karl Liebnecht. Sono mesi in cui la rivoluzione in Occidente, a partire
dalla Germania, sembra possibile, anzi addirittura a portata di mano.
Nel marzo 1919 si fonda la Terza Internazionale a Mosca per dirigere e
organizzare partiti comunisti in grado di raccogliere le forze migliori
del proletariato per “fare il ‘17” in ogni paese. In Ungheria, mentre
apre i battenti il Comintern, un fronte socialista-comunista guida la
breve esperienza rivoluzionaria dei Consigli (marzo-agosto 1919), di cui
Lukacs fu Commissario del popolo all’istruzione. Brevissima appendice
rivoluzionaria che verrà sconfitta dalla controffensiva militare delle
truppe rumene e dalla reazione della grande proprietà agraria ungherese.
In Germania tra il 1919 al 1923 assistiamo a un susseguirsi di
insurrezioni tutte destinate a breve vita, perché il movimento comunista
non seppe guadagnare alla rivoluzione la parte maggioritaria della
classe operaia e delle masse urbane. Nel 1924, allora, il primo
esperimento socialista della storia, dopo sette anni di guerra civile
interna e di assedio internazionale promosso dalla comunità dei paesi
capitalisti, fa i conti con una situazione ambivalente. Intanto la
rivoluzione, che in diverse occasioni nei lunghi anni della guerra
civile aveva rischiato di essere sconfitta, usciva definitivamente dalla
fase emergenziale, della guerra aperta con il nemico interno ed
esterno, dando vita alla costruzione di stabili istituzioni di potere
socialista. Processo che necessitava del recupero delle strutture
economiche e produttive nazionali, in larghissima parte andate perse con
la guerra mondiale e con la rivoluzione, ristabilendo le condizioni
minime di scambio e di rivitalizzazione della vita pubblica e del
commercio. Dallo stato di eccezione alla costruzione. Andava imboccata
con molta determinazione e soprattutto con la mobilitazione delle masse
popolari urbane e contadine la strada della costruzione socialista anche
in mancanza dell’esplosione rivoluzionaria, tanto cercata e desiderata,
in Occidente. Nel partito bolscevico e nell’IC ciò aprì una discussione
profonda e molto dura sulla strada che dovesse prendere la Russia e il
movimento comunista internazionale, ma una cosa era abbastanza chiara:
nell’anno della morte di Lenin, il socialismo in Urss avrebbe dovuto da
quel momento contare sulle proprie forze, senza l’appoggio – considerato
decisivo – del proletariato occidentale. La vittoria sovietica del ‘17 e
la mancata rivoluzione in Germania da una parte testimoniavano che si
viveva in una fase storica rivoluzionaria, di grandi cambiamenti, in cui
le masse erano in grado, se ben dirette, di prendere il potere e
gestirlo in una forma nuova, popolare e socialista; dall’altra che la
fase politica contingente non permetteva in Europa di procedere come in
Russia. E’ in tale contesto che prende forma la riflessione lukacsiana
su Lenin come esempio vivente di una prassi rivoluzionaria che sapesse
“andare oltre” le sempre meno efficaci dispute teoriche del socialismo
internazionale.
Davvero particolare la storia di questo breve saggio
politico-filosofico. Scritto nel 1924, vede la sua prima edizione
italiana nel 1970 a cura di Einaudi. Perché questo oblio? E perché
un’edizione proprio nel 1970? Non si tratta di due coincidenze. Quasi
cinquant’anni di silenzio editoriale attestano l’accusa di soggettivismo
e idealismo che Lukács dovette subire nel dibattito comunista in seno
alla Terza internazionale. Questo Lenin è la diretta filiazione della svolta marxista del filosofo ungherese avvenuta in Storia e coscienza di classe. Perché
cinquant’anni dopo si avverte il bisogno di pubblicare questo saggio
misconosciuto al lettore italiano? Perché risponde ad un’esigenza
politica, quella di una Nuova sinistra alla ricerca di nessi teorici a
cui ancorare la propria prassi rivoluzionaria slegandola, al tempo, dal copyright comunista
“ufficiale”. Le condanne del ’24 si trasformano in pregi agli occhi dei
militanti comunisti degli anni Settanta. Il soggettivismo esplicito del
Lenin bene si accorda con l’impazienza rivoluzionaria che non
ammette perdite di tempo. E’ la stessa urgenza rivendicata da Lukács nel
vortice degli anni Venti, in cui la rivoluzione appare a portata di
mano anche nell’Occidente capitalista, in cui i tentativi di assalto al
cielo si susseguono repentinamente, fagocitando ogni approccio “inutile”
all’immediata presa del potere. La fine del protagonismo rivoluzionario
dei gruppi della Nuova sinistra trascinerà con sé anche l’interesse per
questo libro. Editato nel ’70, rieditato nel 1976, sparirà velocemente
dalle librerie e dall’attenzione della politica. Più di quarant’anni
dopo, ecco ricomparire il fantasma del Lenin, finalmente in una
nuova veste editoriale. Ma se allora in gioco c’era l’attualità della
rivoluzione – tanto nel 1924 quanto nel 1970 – a cosa serve oggi un
saggio come questo? Nell’epoca della massima inattualità rivoluzionaria,
dove il futuro è annichilito dal distacco post-moderno, dove risiede
l’utilità nel ripubblicare questo fondamentale pamphlet rivoluzionario?
Non è certo facile rispondere a questa domanda. Liberare dalle secche
della filosofia un testo come questo, renderlo funzionale a un discorso
politico, è cosa facile a dirsi ma complicata a prodursi.
L’obiettivo del filosofo ungherese è la trasmissione di un metodo.
Attraverso Lenin Lukács vuole difendere l’ortodossia di un metodo che è
il vero lascito del marxismo una volta liberato dagli opportunismi
sedimentati nel dibattito politico comunista. Questo metodo è la
dialettica materialista, e la figura di Lenin incarna la sintesi più
avanzata tra la teoria e la prassi, proprio perché questo legame, nel
rivoluzionario russo, assume una forma essenzialmente simbiotica: non
c’è un prima e un dopo, una relazione causale, una determinazione
dell’una nell’altra. Teoria e prassi sono la stessa cosa, lo stesso
momento della dialettica materialista. Dice infatti Lukács che «per i
marxisti l’analisi concreta della situazione concreta non contraddice
affatto alla “pura” teoria, al contrario essa è il culmine della vera
teoria, il punto in cui le esigenze della teoria sono veramente
soddisfatte e dove quindi essa si traduce nella prassi». La qual cosa è,
con ogni evidenza, un problema decisamente attuale. Vulgata vuole
infatti che la realtà “costringa” la teoria (“pura”) ad essere piegata
alle esigenze del realismo, a macchiarsi nella quotidianità. Di qui la
narrazione interessata di un Lenin vittima dell’approccio
“realpolitico”, successivamente incancrenito dallo stalinismo e, in
Italia, dal togliattismo, in una spirale regressivamente sempre più
distante dalla rivoluzione e dal marxismo propriamente detto. Lukács,
sulla scorta dell’operato di Lenin, ribalta i termini della questione,
affermando che l’unica teoria efficace è quella che può tradursi in
prassi politica. Ogni teoria che non incida sulla realtà, che si limiti a
sopravvivere nei breviari dottrinari, non è vera teoria, men che meno
afferente alla rivoluzione. Detto altrimenti, «il realismo di Lenin, la
sua “Realpolitik” rappresenta quindi la liquidazione definitiva di ogni
forma di utopismo, la realizzazione concreta del contenuto del programma
di Marx: quello di produrre una teoria fattasi pratica, una teoria
della prassi». L’utopia è così la negazione del leninismo.
Questo passaggio è ancora oggi decisivo, perché viviamo in un tempo
in cui nel campo della sinistra non più “rivoluzionaria”, ma comunque
antagonista, sopravvivono due sole opzioni: da una parte la scelta di
chi, abbandonando il sogno della rivoluzione, ha espunto dal proprio
seno l’idea stessa dell’alternativa al capitalismo, sfruttando il
realismo dei rapporti politici ma arrendendosi all’univocità del
presente; dall’altra l’approccio di tutti coloro che, ultimi difensori
dell’opzione rivoluzionaria, la rinchiudono nella gabbia dell’utopia,
anestetizzando ogni possibilità concreta di far intercedere il proprio
proposito rivoluzionario con la realtà dei rapporti di forza,
limitandosi così a testimoniare un punto di vista senza alcuna
possibilità concreta di realizzazione. Eppure, viviamo in tempi di crisi
generale che favorirebbero alternative di civiltà al capitalismo nella
sua fase neoliberale. Per dirla con Lenin, «la rivoluzione non è
possibile senza una crisi che coinvolga tutta la nazione, e che
coinvolga tanto gli sfruttati che gli sfruttatori». Viviamo da un
decennio una di queste crisi generali prodotte dal capitalismo, senza
gli eccessi drammatici della Prima guerra mondiale, ma senza neanche le
possibilità di recupero date dal riformismo redistributivo della seconda
metà del Novecento. Il disincanto popolare è completamente trasversale
tanto nei proletari quanto in quelle ampie fasce piccolo-borghesi
attaccate in passato alle briciole del potere economico dominante.
Viviamo in una fase in cui, sempre secondo Lenin, «gli strati inferiori
non vogliono più vivere come prima, e gli strati superiori non possono
più vivere come prima». Nonostante ciò, mai come oggi si avverte
l’assenza di qualsiasi alternativa materiale al modello produttivo e
ideologico egemone. Sintomo questo della mancanza di una teoria
rivoluzionaria, che si traduca simbioticamente in una prassi
rivoluzionaria.
Il Lenin di Lukács non è allora importante come “pensatore”, come
teorico della rivoluzione o dell’imperialismo, ma come attore in grado
di elaborare una teoria incatenata alla realtà specifica in cui si trova
ad operare. Un filosofo della prassi, capace di restituire il marxismo
alla sua natura più intima, quella di un pensiero in grado di abbattere
lo stato di cose presenti, non solo di “interpretare” lo spirito dei
tempi. Questo è esattamente un problema attuale, nonostante
l’inattualità della rivoluzione oggi in Occidente. Il tentativo
lukacsiano di ancorare il metodo dialettico all’analisi marxista è
ancora oggi, ci sembra, insuperato, e può racchiudersi nel proposito
leniniano: ogni verità si trasforma in errore non appena la si esageri oltre misura. La ricerca della verità è implicita alla natura dell’uomo, ma le verità della politica sono sempre parziali e contingenti.
Tutto di questo libro ci parla di un mondo che non c’è più e che
difficilmente si riprodurrà nelle forme in cui si è sviluppato nel
Novecento. L’assalto al cielo assumerà in futuro configurazioni
differenti, determinate dalla realtà concreta in cui i soggetti
rivoluzionari sapranno giocarsi la propria partita. Ma il metodo che
trova esplicazione in questo decisivo saggio sulla rivoluzione, quello
rimarrà invariato, perché sarà unicamente attraverso questo che
l’organizzazione comunista del futuro saprà creare le condizioni della
rivoluzione e farsi trovare pronta all’appuntamento con la storia.
Conclude Lukács nella sua postilla all’edizione italiana del 1970: «al
di là dell’importanza dei suoi atti e delle sue opere, la figura di
Lenin è l’incarnazione del continuo “essere preparati”». «L’essere
pronti è tutto», sentenzia l’Amleto shakespeariano. Ed è questa la
lezione storica di Lenin e del leninismo: lavorare alla costruzione
dell’occasione rivoluzionaria e saperla cogliere nell’esatto momento in
cui questa può essere colta. Questa l’unica ortodossia del leninismo
propriamente inteso.
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